Un rizoma non comincia e non finisce, è sempre nel mezzo,
tra le cose, inter-essere, intermezzo. L’albero è la filiazione,
ma il rizoma è alleanza, unicamente alleanza.
L’albero impone il verbo “essere”, ma il rizoma ha per tessuto la congiunzione
“e… e… e…”.
Tra le cose non designa una relazione localizzabile […]
ma una direzione perpendicolare, un movimento trasversale
che le trascina, l’una e l’altra,
ruscello senza inizio né fine, che erode le due rive e prende velocità
nel mezzo.
– Introduzione a Mille Piani (2017),
Gilles Deleuze e Felix Guattari, pp. 65-66.
- Noi non saremo nei loro ricordi
La favola postmoderna narra la storia di un futuro in cui il Sole raggiungerà lo stato di morte termica, sancendo la fine del sistema che da esso dipende – destinato a venir inghiottito e cancellato, a perdere lo statuto di “dimora della vita”. Sarà umano, ciò che lascerà il sistema solare prima del collasso? Questa è la domanda a cui la favola voleva render conto. Eppure al di là della morte del Sole, oltre il tempo di quella morte, a parsec e megaparsec di distanza, gli individuali agglomerati di materia e i flussi di energia non sarebbero stati destinati alla stessa fine. La morte termica del Sole non scalfirebbe granché lo spazio tutt’attorno. La questione è interna al sistema, parla di esso – ma lo sguardo della storia è volto altrove, oltre i confini di ciò che è la nostra casa, e che cesserà di esserlo a un certo tempo. Cosa ne è del tempo oltre quella morte? E del tempo che conduce a quella morte?
La seconda legge della termodinamica non enuncia semplicemente che in un sistema chiuso l’entropia totale non può mai decrescere: essa racconta del cammino verso l’equilibrio termico – la morte del cosmo, il punto di massimo disordine. La seconda legge introduce una direzionalità nella storia dell’universo, un suo destino finale. Paradossalmente, come suggerisce Paul Davies richiamando l’analisi della radiazione cosmica di fondo, l’ultimo respiro dell’universo parrebbe analogo al suo primo: il Big Bang non rappresenta un punto di minima entropia in corsa verso la degradazione. Materia ed energia sarebbero state, negli “istanti” successivi all’inizio, in uno stato di massima entropia, ovvero di equilibrio termodinamico. L’origine dell’universo è una morte, che corre verso la sua ripetizione…? Davies suggerisce che, seppure materia ed energia si trovassero in stato di equilibrio, in seguito al Big Bang il campo gravitazionale fosse uniforme. L’uniformità equivale al suo stato di minima entropia, di massima complessità, e sarebbero perciò state le spontanee variazioni di quello a permettere il cominciamento dei processi di aggregazione della materia lungo i miliardi di anni che hanno portato fino all’origine della vita sulla Terra. Alla materia è stato offerto un temporaneo lasciapassare per poter fuggire dal disordine inerte, sebbene la complessificazione del cosmo è comunque soggetta all’aumento di entropia del campo gravitazionale. Quest’ultimo crea la ricchezza di cui l’universo è composto e di cui è testimone, ma lo fa con assoluta indifferenza: la ricchezza prodotta è solo lo scarto della corsa verso l’equilibrio. L’entropia totale aumenta nonostante l’accrescimento di complessità e di diversità. Un fiume che si biforca, ma le cui ramificazioni si ricongiungono alla stessa foce.
Seppure siano collegate, la storia gravitazionale e la storia della materia non si sovrappongono, proprio a partire dal fatto che la loro forma, in uno stato di minima o massima entropia, è opposta. Il campo gravitazionale a bassa entropia – quindi in seguito al Big Bang, ad esempio – è semplice nella forma, mentre è complesso in uno stato di alta entropia. Per materia ed energia si parla dell’inverso. Dimensioni accomunate ma straniere; la storia della materia dipende da quella gravitazionale, ma articola da sé le parole che la compongono. La materia si è aggregata e differenziata, organizzandosi in strutture sempre più complesse fino all’emersione di ciò che Stuart Kauffman chiama auto-organizzazione nei sistemi molecolari autocatalitici: la vita. Al di là e al di qua della morte del Sole, una storia troppo antica procede verso una fine teorica, ma imprevedibile.
La portata degli studi di Ilya Prigogine sulla fisica dei sistemi complessi è immensa. Il diretto legame con le domande di Schrödinger in Che cos’è la vita? hanno fatto di lui, inoltre, un riferimento essenziale per una nuova generazione di biologi, di cui Stuart Kauffman è certamente una delle punte di diamante. La questione, pur concentrandosi sulla nozione di tempo in fisica, sulla reversibilità, e sulla termodinamica di non-equilibrio che sarebbe la chiave per pensare adeguatamente ai viventi come strutture dissipative lontane dall’equilibrio – ovvero sistemi che si trovano in uno stato di stabilità relativa solo attraverso lo scambio continuo di energia con il loro ambiente – è una questione che interroga la storia. Life emerges at the edge of chaos, afferma Prigogine, dove le fluttuazioni energetiche che attraversano i sistemi sono in grado di produrre mutazioni sostanziali e fondamentali, capaci di far emergere l’ordine. Per Kauffman, l’ordine necessario all’emersione della vita è molto meno complesso di quanto abbiamo pensato fino a oggi, e molto meno casuale. Life was expected to emerge; we were expected; Kauffman lo ripete spesso. É una ricerca filosofica, quella su cui poggiano le basi del suo lavoro scientifico: la ricerca di una nuova sacralità, che altro non è che una dimora nel mondo, e la giustificazione di quella dimora come propria. Prigogine stesso utilizza termini simili: la nuova fisica è la porta verso un sentimento di minore alienazione. A casa nell’universo: questo è ciò che ci si aspetta dalla storia universale. Dal cuore del desiderio si distribuisce diagonalmente, a raggiera, verso la periferia – crosswhen.
2. Noi siamo i nostri ricordi
Le ricche pagine del lavoro di Yuk Hui, Cosmotechnics, indugiano fisiologicamente sul pensiero del “ritorno a casa”. Il testo del pensatore cinese è una riflessione sulla questione della tecnologia vista dagli occhi di chi la modernità tecnologica occidentale l’ha subita, ovvero la Cina. Vittima per certi versi consapevole e volontaria della modernità, la Cina ha messo da parte la sua propria cosmologia, e la sua propria storia per rientrare nel recinto del teatro globale: o assumere la modernità in sé, o perire. Alla scelta che la Cina ha assunto, secondo Yuk Hui, non è però seguita una riflessione sulla questione della tecnologia e della modernità, due elementi acquisiti dalla storia della metafisica occidentale che non rappresentavano in alcun modo un passaggio necessario del percorso culturale cinese. Hui indaga così le ragioni dell’assenza di un progresso tecno-scientifico moderno squisitamente cinese. Il suo percorso non poteva non scontrarsi con la questione del nichilismo, anche e soprattutto perché quel nichilismo in seno allo spirito europeo infesta l’animo della stessa Cina. La questione, così, come l’occidente filosofico di fine novecento sa bene, è di superare la modernità. Ma se l’occidente ha portato in grembo l’”ospite inquietante” e ne potrebbe riconoscere l’origine, il resto del mondo è vittima di un parassita di cui non conosce neanche il volto.
L’oltre e il ritorno sono complementari. Quando Jünger scambia le sue riflessioni con Heidegger sul nichilismo e sulla possibilità di oltrepassarne il confine, il primo ha in mente un procedere che non è un abbandonare. Il fervore giovanile di Jünger per il progresso tecnologico si ripiega su se stesso, e il suo lettore non può fare a meno di notare il desiderio di fuga che pervade i suoi scritti; fuga da una dimora ormai aliena, da una promessa non mantenuta. La lettera di risposta di Heidegger a Jünger è cauta e ponderata: non c’è un oltre verso cui andare, ma una linea, un confine, su cui risiedere. La dimenticanza di cui tratta Heidegger è, per sua definizione, una marcia verso un recupero, la chiamata speranzosa per il ritorno. Hui, in linea con la sua costellazione filosofica di riferimento, nel trattare la questione della tecnica affronta il complemento del nichilismo; nel discutere il nulla, maneggia il fragile cristallo della storia.
Ritornare a casa significa, in qualche modo, collocarsi storicamente: è sempre un situarsi. Hui comprende come la ricerca di questa dimora che manca, che si è scoperta mancante, sia biforcata. Da una parte, il pericolo del fascismo metafisico, del ritorno alla località in risposta al processo di planetarizzazione e modernizzazione – ma “locale” esiste solo in funzione di “globale”, suggerisce Hui; è un falso percorso, una finta cura. Recuperare ciò che è locale significa ribattere percorsi ormai spianati dalla marea. Nessuna patria è più sacra, all’interno della cosmologia della tecnologia; i suoi simboli sono marciti – la nazione, la tradizione… sono storie nella storia, racconti di un protagonista, l’uomo o l’europeo o il greco o il cristiano o il figlio, che ha perso il ruolo principale. Non l’ha mai avuto se non nei riguardi di se stesso, e la perdita non è poi così dolorosa. Eppure, Hui afferma, il ritorno a casa della filosofia nella tradizione è fascinoso, scalda gli animi: egli porta a esempio la rivoluzione conservatrice di Aleksandr Dugin, e si potrebbero ben aggiungere osservazioni sulle trasformazioni politiche recenti in Europa e America. Ma è come quando si scopre, da adulti, che la pronuncia o il significato di una particolare parola imparata nell’infanzia sono totalmente diversi rispetto a ciò si è creduto per tutta la vita; nulla vi è da conservare, di quell’errore. Ciò non significa che il passato sia un guscio vuoto: Hui, sulla scia del Lyotard dell’Inumano, parla di un recupero basato su quanto la modernità ha aperto e posto in questione. Durcharbeitung, anamnesi; la questione della tecnologia e della tecnica è quel filo da seguire per sperare di ritrovare realmente casa. La seconda via del ritorno, infatti, è per Hui la cosmotecnica, il recupero delle categorie metafisiche dall’interno di una cultura, così da riunire la dimensione cosmologica a quella etica e morale, ponendo al centro del discorso la tecnica. Il percorso che il pensatore cinese apre è certamente affascinante – eppure, nel tentativo di costruire una storia universale, come possono convergere le strutture cosmologiche frutto della storia dei popoli e delle culture senza fiducia nel concetto di località? Riterritorializzare per mezzo della tecnica, o a partire da essa; qual è la posta in gioco? Chi è che torna a casa, davvero? Che, forse, sia la tecnica stessa l’oggetto di questo ritorno? Ricongiungere la tecnica alla storia universale – è questa, forse, la partita? «La località che è in grado di resistere all’asse temporale globale è capace di confrontarsi con esso trasformandolo radicalmente e in maniera autocosciente, anziché limitarsi al mero valore estetico» (Yuk Hui, 2021, p.249). Dove il fascismo metafisico si ritrae sui terreni familiari (eppure mai più propri), la località cosmotecnica si slaccia dallo spazio e dai confini per emergere virtualmente ovunque; comunità – soggettività – situate su uno sfondo comune, ma che creano molti mondi.
Gran parte dell’apparato concettuale che Yuk Hui utilizza in Cosmotecnica deriva dagli strumenti dell’antropologia della natura di Philippe Descola. Ogni processo di mediazione e stabilizzazione fra l’umano e l’alterità, definito a partire dagli attributi di fisicalità e interiorità, costituisce un’ontologia, un mondo e i suoi modi di relazione. Descola descrive quattro possibili ontologie, legando all’occidente quella del naturalismo, in cui viene sancita una discontinuità fra l’umano e il non-umano a partire dall’interiorità, dove invece esiste continuità con l’attributo di fisicalità. Hui assume questa posizione teorica, da una parte sottolineando come il concetto di Natura e il dualismo con la Cultura siano solo il prodotto di un’ontologia fra le altre, ed evidenziando la legittimità di ogni cosmologia in quanto specifico e individuale modo di relazione fra l’uomo, o un popolo, e l’alterità. L’obiettivo di Hui è la consapevolezza; definire il funzionamento della macchina produttrice di cosmologia per poterle concedere libertà d’azione. Non storia come cammino verso la ragione universale, ma come intreccio di una pluralità di cosmotecniche. Manifestare e integrare l’inconscio tecnologico nell’Io collettivo – un grande progetto psicoanalitico. Nella critica alla cosalità, Descola afferma che ogni fenomeno non può essere ridotto a un substrato di realtà su cui appiccicare di volta in volta interpretazioni differenti. Semplicemente, non c’è substrato: non esiste la Natura con le diverse prospettive culturali: esistono, più radicalmente, diversi mondi. La cosmologia tecnologica occidentale rappresenterebbe, perciò, un mondo; la cosmologia morale cinese di cui parla Hui un altro. Essi sarebbero radicalmente differenti, eppure basati sull’irriducibile dualismo Io//Altro, espresso nella divisione fisicalità//interiorità attraverso le categorie di continuità//discontinuità. La preoccupazione di Yuk Hui è di arrestare il “divenir omogeneo del mondo tecnologico”, che non ha altro scopo se non tale esatta omogeneizzazione. Il dominio come forma di relazione fra l’uomo e il suo intorno deve cessare. A ogni mondo, la sua storia; cosa rimane della storia universale?