Recensione a E. Niekisch, Ernst Jünger. Abisso, decisione, rivoluzione, a cura di L. Siniscalco, trad. it. di L. Fabbri, Bietti, Milano 2021, pp. 76.
La questione della tecnica ha rappresentato un tema cruciale del Novecento europeo e si prospetta, altresì, come uno dei nodi filosofici essenziali del «nuovo millennio» (p. 9). È nella veste di vero e proprio «filosofo della tecnica» (p. 12) che il curatore del volume presenta Ernst Niekisch (1889-1967), uno degli esponenti di quel composito ‘mosaico intellettuale’ che prenderà il nome di ‘Rivoluzione conservatrice’ e che vedrà fra i suoi protagonisti, oltre a Niekisch stesso, Ernst Jünger, Oswald Spengler, Carl Schmitt, Arthur Moeller van den Bruck, Hans Freyer, in un elenco ‘aperto’ di pensatori che, in letteratura, sono stati diversamente e variamente interpretati come appartenenti (o meno) alla suddetta corrente filosofico-politica (Breuer 1995; Nolte 2009). E precisamente di Ernst Jünger (1895-1998) – nel primo testo – e dei problemi della ‘tecnica’ – nel secondo – tratta Niekisch in questi due saggi, oggi unitamente riproposti in una nuova veste editoriale per i tipi della casa editrice Bietti di Milano, con la cura di Luca Siniscalco e la traduzione di Luigi Fabbri.
Originariamente pubblicati tra il 1931 e il 1932 nella rivista tedesca «Widerstand», nata nel 1926 e di cui Niekisch fu direttore fondatore, offrono uno scorcio prospettico di estremo interesse sia per la ricostruzione del dibattito relativo al problema della questione tecnica nella riflessione filosofica novecentesca – riguardo alla quale, come correttamente sottolineato dal curatore in sede di introduzione, l’autore nazionalbolscevico fu uno dei primi «insieme a Ernst Jünger, […] [a intuirne] il carattere abissale e metafisico […], quale nietzschiana “trasvalutazione di tutti i valori”» (p. 12) –, sia per un accrescimento dell’indagine teorica e storiografica concernente il variegato movimento della ‘Rivoluzione conservatrice’, attraverso ‘voci’ che, apparentemente di secondo piano, invero restituiscono in modo efficace un contributo capitale per cogliere appieno quella dimensione ermeneutica che trova nel complesso circolare delle idee, e non nella sua mera cristallizzazione concettuale, uno dei punti gravitazionali di una corrente articolata e ricca di sfumature.
Nel primo scritto («Der Arbeiter. Herrschaft und Gestalt. Zu Ernst Jüngers neuem Buche») Niekisch si impegna a sottolineare fin da principio come Jünger sia stato in grado, nella sua opera fondamentale, Der Arbeiter. Herrschaft und Gestalt (1932), di «guardare le cose in faccia» (p. 28), esaminando il corso storico nella sua necessità strutturale, cercando altresì di scandagliare meticolosamente «le implicazioni dei fatti» studiati (p. 28). Niekisch ne elogia, così, la capacità di osservazione, di sintesi e di analisi, la volontà di individuare le leggi interne del mondo moderno con schietta obiettività: «Molti sono coloro che scendono nelle viscere di un’epoca e, risalendo, portano con sé soltanto le proprie ossessioni. Pochi ne estraggono delle realtà. Jünger è uno di quei pochi» (p. 28).
Il problema, condiviso con Jünger stesso, concerne la Germania del tempo (quella, cioè, a cavallo tra le due guerre mondiali, la Germania della Repubblica di Weimar; cfr. sul piano giuridico: La Torre 2006; Sbailò 2007; Cavallo 2009; a livello storiografico: Eyck 1966; Winkler 1998; Schulze 2004; Nolte 2006), che non sarebbe stata in grado di scrollarsi di dosso le pastoie del (recente) passato, rimanendo in bilico, in una oscillante ambiguità, tra capitalismo ed anticapitalismo. Cosicché «non potendo opporsi al mondo borghese e imperialista e alla sua logica, la Germania dà ragione a tale mondo e a tale logica, dando però torto a se stessa» (p. 28).
L’importanza della riflessione di Jünger, secondo Niekisch, si ravvisa dunque nel proposito di porre l’accento sulla pensabilità di un’alternativa: la qualificazione filosofica del ‘tipo’ dell’Arbeiter è volta, secondo il pensatore di Trebnitz, non solo a delineare una determinata struttura soggettiva, quasi antropologico-esistenziale, a cui affidare rinnovate ‘forme di vita’, ma è inoltre diretta a proporre una più ampia visione dei fatti ed una lettura complessiva della realtà nel suo ordine globale, definendone i contorni sia in un’ottica negativo-oppositiva (in relazione a ciò da cui il ‘tipo’ si distanzia) sia in termini positivo-strutturali, cercando, cioè, di delimitarne la fisionomia specifica nella sua autonomia ontologica, distaccandola da quelle dimensioni che sembrano offrire, prima facie,degli elementi di affinità ma che, cionondimeno, se osservati con maggiore profondità, dimostrano una netta differenziazione interna.
Niekisch rimarca, in questo modo, la lontananza del ‘tipo’ jüngeriano dai vecchi residui dell’individualismo, provando a fissarne i contorni, pur sempre sfuggevoli, rispetto, da una parte, all’etica e all’antropologia cristiana – «Dov’è […]», si chiede ironicamente Niekisch, il «ponte che collegherebbe Jünger alla cultura borghese, alla civiltà occidentale, alla tradizione cristiana?» (p. 33) –, dall’altra, nei confronti della definizione del ‘tipo’ dell’Operaio come «Quarto Stato» (p. 35), dacché la riduzione della ‘Figura’ all’ambito dello ‘stato’ tradirebbe una intrinseca connotazione ‘borghese’, da cui Jünger, come noto, intendeva rifuggire e che, attraverso il ‘tipo’, reputava di aver radicalmente e definitivamente superato.
Ciò non esclude, però, secondo Niekisch, il fatto che le tesi jüngeriane possano manifestare un legame, quantunque mitigato, con la prospettiva marxista. Viemeglio: la ‘Figura’ dell’Arbeiter riecheggia, per Niekisch, la dimensione del ‘Proletkult’ (p. 39), e la tensione ‘planetaria’ che risiede nell’immagine del ‘Lavoratore’ costituisce, per certi versi, sia una «giustificazione filosofica della dittatura del proletariato» (p. 39), sia un richiamo agli «slanci dell’internazionalismo proletario» (p. 39), così come la precisa opposizione alla visione ‘borghese’ dell’esistenza non può non rievocare la paradigmatica «asprezza della lotta di classe» (p. 39). Questo non può far ignorare, tuttavia, secondo lo scrittore tedesco, la irriducibile distanza che comunque emerge tra le posizioni di Jünger e le tesi fondamentali del marxismo più ortodosso: «ciò che in Jünger», sottolinea Niekisch, «appare [come] un atteggiamento nettamente coraggioso di fronte alla realtà e un’audace descrizione di quello che è, diventa, nella controparte marxista, un’immagine fantasmatica tinta di sentimentalismo umanitario e imbevuta di rancore» (pp. 39-40).
La sopracitata similarità tra le due letture dei processi della realtà contemporanea è determinata, pertanto, non tanto da un’influenza delle idee marxiste su Jünger, quanto, piuttosto, dal fatto che sia nella ideologia marxista sia nell’interpretazione del ‘tipo’ dell’Operaio jüngeriano affiora, da sottotraccia, una Weltanschauung «specificamente legata ad un’esistenza che si compie nella tecnica e attraverso l’essenza della tecnica» (p. 40).
Se il marxismo, però, secondo Niekisch, dava una lettura ancora «sentimentale alla tecnicizzazione dell’esistenza», la risposta di Jünger è «più improntata […] ad un “realismo eroico”» (p. 40). Insomma, il surplus della lettura jüngeriana sarebbe causato da una più spregiudicata interpretazione dei processi di tecnicizzazione dell’esistente. Così, il politico di Trebnitz conclude il primo saggio affermando che la ‘Figura’ dell’Arbeiter si spinge «ad un livello assai diverso da quello del proletario in senso proprio», poiché lo «spirito della tecnica è […] diventato al suo interno una seconda natura; essa padroneggia con mano leggera, con una sicurezza assolutamente naturale, l’insieme degli strumenti tecnici. La precisione del tecnico, l’immaginazione realistica dell’ingegnere, l’audacia del grande costruttore sono le virtù che la animano» (p. 43), tantoché, per essa, «l’idea di pianificazione non si ricollega a nessuna aspirazione nostalgica verso una radiosa felicità, ma discende dallo slancio costruttivo della tecnica, grazie al quale l’universo sarà rimesso in forma» (p. 43, corsivo nel testo).
Nel secondo testo – La tecnica divoratrice d’uomini («Menschenfressende Technik») – il pensatore tedesco sviluppa una rassegna disincantata del ruolo della tecnica nel mondo moderno e contemporaneo, in linea di continuità con le interpretazioni generali diffuse, attraverso ‘immagini ricorrenti’, all’interno del contesto intellettuale della ‘Rivoluzione conservatrice’. La tecnica viene raffigurata, nella sua ambivalenza, come un processo inarrestabile di abbattimento delle forme del limite, del confine, del senso della misura: la tecnica, rileva Niekisch, «si crede […] all’altezza di tutti i compiti» (p. 50, corsivo nel testo), e «rimuovendo dappertutto le barriere imposte alla capacità umana di fare e assoggettando tante fonti di energia naturale all’uomo, apre la strada a trasformazioni di grande portata» (p. 51). Uno strumento, quindi, in grado di provocare, ad un tempo, momenti di annientamento ontico del dato di realtà, ma anche rinnovate possibilità di trasfigurazione dell’esistente, in bilico – seguendo le parole del curatore del volume – tra la heideggeriana “imposizione” «vittoriosa nella modernità globalizzata […], [e] una forza altra, dai tratti arcaici (premoderni) o altrimenti futuribili (postmoderni) […]» (pp. 14-15).
Tale infrenabile processo contiene in sé, dunque, anche una tendenza distruttiva, entrando in collisione con i ritmi fisiologici della natura, e così il «progresso tecnico strappa alla natura, che segue le proprie leggi, un pezzo di terreno dopo l’altro. Ciò che per la tecnica è un trionfo, per la natura è saccheggio e violenza» (p. 54). L’esito è che la tecnica elidendo «a poco a poco i limiti fissati dalla natura, […] distrugge la vita» (p. 54), guardando all’economia, nella sua cruda capacità di calcolo, e alla sfera bellica, nella sua potenza annientatrice, come a due degli ambiti di senso in cui progredire e svilupparsi incontrollatamente, rivelando la sua più intima inclinazione solo nel momento finale, «quando» oramai «ha già penetrato ed assoggettato l’intera esistenza» (p. 57).
La produzione artigianale è stata una delle prime attività ad essere colpita da tale processo demolitorio, a cui ha fatto seguito la fase di «meccanizzazione dell’agricoltura»(p. 58, corsivo nel testo). In tal guisa, il «dramma vissuto dall’artigiano si ripete sul contadino» (p. 58): il farmer sostituisce il contadino, come l’operaio prende il posto dell’artigiano. Da qui, l’espressione, utilizzata dal politico tedesco in modo emblematicamente rappresentativo, del farmer come «contadino proletarizzato» (p. 59). Al contempo, l’attività dell’operaio perde ogni legame di natura psicologica con il prodotto della sua azione trasformatrice, riducendosi ad una mera relazione di causa-effetto e generando un abbassamento qualitativo del suo grado di responsabilità, che si ripercuote, a sua volta, anche nell’ambito gerarchico dei rapporti discendenti tra datore di lavoro e lavoratori (p. 58).
Ma l’esito ancor più decisivo dell’andamento registrato da Ernst Niekisch si concretizza, altresì, nel fatto che tali processi evolutivi intaccano le stesse «fondamenta dello Stato» (p. 60, corsivo nel testo) che, perdendo il suo carattere ‘organico’, diviene, fatalmente, «parte integrante di uno spazio economico più ampio, le cui branche produttive sono razionalizzate secondo le norme delle ultime conquiste della tecnica» (p. 60). Qui il pensatore nazionalbolscevico riesce a cogliere un dato cruciale: la perfetta simmetria fra tecnicizzazione dell’esistente, sviluppo della produzione capitalistica e ruolo sempre più subordinato dell’entità statale, inserendosi in quella vasta riflessione sul problema dello Stato e sulla sua crisi strutturale, che già dai primi anni del Novecento iniziava a farsi sempre più insistente su vari fronti della cultura politico-giuridica europea.
La «corsa vittoriosa della tecnica attraverso il mondo» (p. 66), tuttavia, è destinata a ritorcersi contro il suo stesso grembo generatore, ribaltandone la primigenia logica di sviluppo: «L’uomo occidentale, che si è armato della tecnica per insorgere contro l’ordine naturale, dovrà espiare il proprio crimine sottomettendosi alla legge della tecnica, che stritola tutto ciò che di vivo c’è in lui» (p. 66, corsivo nel testo), talché da un’iniziale posizione di controllo e di gestione concreta, si giunge, repentinamente, ad una condizione di totale subordinazione.
L’unica possibilità di cambiamento viene da Niekisch identificata non già nella deficitaria capacità di rinnovamento degli Stati europeo-occidentali, costretti in una crisi permanente che ne determina il sostanziale immobilismo, bensì nella spinta rivoluzionaria di quelle nazioni che, per necessità storiche, risultavano (nella fase congiunturale in cui Niekisch scrive) ancora ‘giovani’ (come, in special modo, la Russia, ma anche la Cina e la Turchia) e che, pur essendo venute a contatto con il dominio tecnico, non ne sono state, in un certo grado, totalmente sopraffatte (p. 67), mostrandosi abili nell’esercitare su tale fenomeno una forma di risoluta supremazia, «collocando un vivo potere organizzativo al di sopra delle tendenze meccaniche della tecnica» (p. 68). Dimodoché la meccanizzazione della Russia si è potuta realizzare «secondo le regole del collettivismo» e la «spinta individualista dello spirito tecnico è stata ammortizzata e spezzata» (p. 68, corsivo nel testo).
Le conseguenze teoriche di queste riflessioni, per Niekisch, non possono che risiedere, perciò, nella consapevolezza del nuovo ruolo svolto dalla forma collettivistica di organizzazione sociale, da interpretarsi, citando il politico tedesco, come la «forma sociale che la volontà organica deve adottare per affermarsi contro le influenze mortifere della tecnica e limitarle al minimo grado» (p. 68, corsivo nel testo), e che, nell’attenuazione della «spinta individualistica dello spirito tecnico» (p. 68), esigono il richiamo alla dimensione della responsabilità collettiva. Responsabilità che, invece, secondo il pensatore di Trebnitz, le società europee ed americano-occidentali dinanzi al ‘demone’ della tecnica non sono state in grado di assumersi con pienezza, occultando l’intima necessità di ristabilire i basilari nessi logici nella gestione dell’ordine sociale. La via, pertanto, non può che rintracciarsi per Niekisch – come evidenziato in sede introduttiva dal curatore dell’opera – nel solerte tentativo di «“cavalcare la tecnica”, deviandone gli aspetti nichilisti e tanatofili verso una formulazione organica e “comunitaria”» (p. 18), come in parte avvenuto nell’esperienza sovietica.
Non sarebbe dunque auspicabile assumere – nella visione dello scrittore tedesco – una posizione astrattamente e pregiudizialmente contraria o, viceversa, favorevole alla dimensione ‘tecnica’ (p. 19), quanto piuttosto sforzarsi di convertirne la spinta apparentemente frenante in un positivo moto propulsivo che consenta di rivoluzionarne le coordinate, cercando di dominare gli elementi negativi, e cioè – come messo in luce con una formula evocativa dal curatore del volume, richiamando echi heideggeriani – «trasfigurare la tecnica “divoratrice di uomini” in una tecnica “evocatrice di dèi”» (p. 19), valorizzando il «versante, umbratile ma potente» (p. 20), della tecnica stessa.
La pubblicazione, dunque, di questi due lavori teorici di Ernst Niekisch – tradotti in italiano in questa rinnovata proposta editoriale – oltre a fornire, come accennato all’inizio di questo breve excursus, interessanti spunti di riflessione per l’accrescimento e l’implementazione del dibattito gravitante attorno alla ‘galassia’ del complesso movimento della ‘Rivoluzione conservatrice’, integrandone le fonti e mettendole ad immediata disposizione del lettore italiano, offre, altresì, considerevoli suggerimenti teorici vertenti sul nevralgico plesso tematico del problema della ‘tecnica’, da intendersi quale vera e propria questione pienamente reattiva e vitale del nostro tempo, in tutte le sue molteplici implicazioni: teorico-politiche, economico-giuridiche, antropologico-esistenziali.
Note
Breuer S. (1995), La rivoluzione conservatrice. Il pensiero di destra nella Germania di Weimar, trad. it., Donzelli, Roma.
Cavallo R. (2009), L’antiformalismo nella temperie weimariana, Giappichelli, Torino.
Eyck E. (1966), Storia della Repubblica di Weimar. 1918-1933, trad. it., Einaudi, Torino.
La Torre M. (2006), La crisi del Novecento. Giuristi e filosofi nel crepuscolo di Weimar, Dedalo, Bari.
Nolte E. (2006) La Repubblica di Weimar. Un’instabile democrazia fra Lenin e Hitler, trad. it., Marinotti, Milano.
Nolte E. (2009), La rivoluzione conservatrice nella Germania della Repubblica di Weimar, a cura di L. Iannone, trad. it., Rubbettino, Soveria Mannelli.
Sbailò C. (2007), Weimar: un laboratorio per il costituzionalismo europeo. Scienza giuridica e crisi dei valori occidentali., Città Aperta – Kore University Press, Troina.
Schulze H. (2004), La repubblica di Weimar. La Germania dal 1918 al 1933 (1993), trad. it., il Mulino, Bologna.
Winkler H.A. (1998), La repubblica di Weimar, trad. it., Donzelli, Roma.
E. Niekisch, Ernst Jünger. Abisso, decisione, rivoluzione, a cura di Luca Siniscalco, trad. it. di Luigi Fabbri, Bietti, Milano 2021, pp. 76, euro 4,99.