Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

L’eterno ritorno dell’uguale

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L’interpretazione heideggeriana del pensiero dei pensieri

Introduzione

A partire dagli anni Trenta, Martin Heidegger imprime un cambiamento radicale alla trattazione del problema dell’essere. Contestualizzato nell’orizzonte storico della filosofia heideggeriana, questo evento rappresenta un momento di rottura con l’orientamento epistemico che aveva dominato la sua ricerca fino ad allora. L’«ontologia fondamentale» dell’esserci cede il posto a un’indagine che muove a partire dall’essere stesso scoperto nel suo carattere di evento. L’approccio fenomenologico abbandona l’accezione soggettivistico-trascendentale con cui era stato effigiato sotto la paternità di Husserl e l’«ermeneutica della fatticità» degli anni di Friburgo si evolve e vira finalmente in direzione di una comprensione dell’essere libera da fraintendimenti metafisici e teoretici. Heidegger stesso denomina tale mutamento col termine di «svolta (Kehre)» (Heidegger 19871, p. 157), intendendo con essa l’evento storico di un rovesciamento di prospettiva risolutivo per il pensiero occidentale: il portato filosofico di questo decennio è di carpire l’avvento dell’essere nella sua più pura incontaminatezza, prescindendo da visioni epistemiche o prospettive obnubilanti che ne celino l’originaria purezza. Affinché tale opportunità si realizzi è necessario «partecipare a […] [un] pensiero diverso, che abbandona la soggettività» (Heidegger 19872,p. 281), e quindi emanciparsi dal tenore esistenzialista che fino ad allora aveva impedito alla ricerca di procedere oltre il piano esistentivo: appunto, studiare l’essere non più da una prospettiva privilegiata (quella dell’esserci), ma dall’essere stesso.

Dalla comprensione del soggetto all’evento istitutivo della comprensione: la svolta concepisce l’essere non più come ente che presenzia dinanzi all’uomo, ma nella sua essenza ritratta, cioè «nel suo restare all’inizio del proprio entrare in rapporto al pensare» (Volpi 1997, p. 164). Il termine chiave per lo schiudersi di questa dimensione inviolata è l’Ereignis; non solo perché comporta una riformulazione anti-metafisica del concetto di verità – che viene a coincidere, ora, con un accadimento e non più con una fissità stabile eternamente presente (e quindi disponibile all’uomo) – ma anche perché svincola l’interrogazione dell’essere dalla logica che giustappone all’oggetto un soggetto, e che pertanto non prescinde dalla gnoseologia di quest’ultimo. La concezione dell’essere come evento rivoluziona il paradigma prospettivista su cui si ergono la metafisica del soggetto e, in particolare, la filosofia moderna; lo fa implicando una inversione del rapporto tra essere ed esserci: poiché l’Ereignis si dà nell’estensione del tempo, non è più l’essere – e, con esso, la verità – a schiudersi sul piano dell’esistenza, ma è l’esserci che, venendosi a trovare nella «radura (Lichtung)» dell’essere, si rende conforme all’essere stesso. Così, dispiegandosi sull’orizzonte diacronico, l’essere si libera della sua accezione di ente e riacquista l’autonomia del proprio statuto. Parallelamente, si riapre per l’uomo la possibilità di una sua esperienza piena, affrancata dalla prigionia che una comprensione soggettivizzante gli impone[1].

Come Heidegger riporta nei Contributi alla filosofia, l’accadere evenemenziale dell’essere è profondamente connesso alla parabola storica che la sua ricerca ha attraversato per mezzo del pensiero. L’evento dell’essere ingloba in sé l’intero orizzonte storico in cui si consuma il destino della filosofia occidentale. L’evento, nel suo darsi per mezzo di un’apertura temporale, implica i momenti della storia che muovono ad esso. Ciò significa che l’essere, lungi dal risultare solamente nel tessuto scomposto di sparute aperture, è anche nel momento storico che lo cela. L’essere è nell’oblio dell’essere, almeno nella misura in cui persiste anche nel proprio nascondimento. Se poi si considera che il pensiero di Heidegger si lega diegeticamente al contenuto che espone e che, quindi, la «svolta» degli anni Trenta, in quanto svolta di portata decisiva per l’intera storia della filosofia, risulta l’evento della svolta – dunque il momento in cui il pensiero penetra nell’autentica essenza dell’essere – si trae che la suddetta, essendo essa stessa Ereignis, appartiene al destino dell’essere e ne rappresenta, in più, l’attimo di fondazione storica, l’evento catartico culminante. In altri termini, l’evento della svolta, appunto in quanto evento, apre al «disincanto dell’essere» solo perché si ascrive alla sua grande narrazione: rappresentandone l’apice guarda alla storia che lo eleva. Ciò detto, appare chiaro che una trattazione di questo radicale cambio di prospettiva non possa prescindere dal confronto con le interpretazioni dell’essere che l’hanno predisposto. La fondazione richiede il passaggio, al punto che nessun salto avviene senza la chiarificazione di quest’ultimo (cfr. Heidegger 2007; Volpi 1997, pp. 166-198). Non è un caso che il serrato battagliare con Nietzsche, che tanto ha occupato Heidegger, maturi proprio in questo periodo. Se l’essere è la storia dell’essere e se il suo evento non è che l’atto di un movimento in potenza, la descrizione dell’accadimento non potrà sottrarsi dalla ricostruzione del processo che lo ha istituito. E di questo processo la filosofia nietzschiana costituisce il passo forse in assoluto più sensibile, certamente il più decisivo affinché un «altro inizio» del pensiero possa istanziarsi: il compimento della metafisica occidentale.

Com’è noto, la ricostruzione storica che Heidegger compie del concetto di essere è lunga e articolata: essa parte da Platone e Aristotele, individuandovi gli originali promotori dell’abbandono del quesito sull’essere, e giunge a Nietzsche e alla sua volontà di potenza (da Heidegger ribattezzata volontà di volontà) intravvedendovi il canto del cigno del prospettivismo moderno dopo la svolta soggettivistica operata da Descartes. Il filosofo francese non avrebbe che tratto le conseguenze implicite nella concezione platonica e aristotelica dell’essere: se l’essere coincide con l’esistere, se l’ente è ciò che è visibile all’intelletto (ίδέα) o che è esperibile perché è un che effettivamente esistente (ενέϱγεια), allora l’essere è in definitiva ciò che è certo, e ciò che è certo è la certezza incondizionata e inconcussa sentita dal soggetto; quindi, il soggetto – e, di conseguenza, la sua volontà (Nietzsche) – è il fondamento assoluto della realtà[2]. La denuncia heideggeriana muove dalla considerazione del fatto che il significato originario di svelatezza e nascondimento proprio della verità (ἀλήθεια) viene dimenticato e tradotto come semplice conformità all’intellegibilità dell’ente; ciò come diretta conseguenza che dell’essere non è rimasta che l’ίδέα e la sua piena disponibilità alla conoscenza. Che il pensiero nietzschiano costituisca l’esito destinale di questa parabola storica lo si comprende se si guarda al prospettivismo del filosofo di Röcken nei termini di un suggello impresso all’empirismo e al razionalismo soggettivista. In quest’ottica, Nietzsche ultimerebbe un processo a fondamento della modernità esacerbandone i tratti essenziali, vale a dire imperniando l’ente nel suo insieme sulla volontà del soggetto intesa come anelito individuale alla dominazione dell’ente stesso. Se la storia della metafisica è la storia dell’appropriazione dell’essere da parte dell’uomo, la volontà di potenza come determinazione essenziale dell’essere costituisce il compimento di questa parabola, almeno nella misura in cui la si intende nei termini di «potenziamento della vita e vita in ascesa» (Heidegger 1994, p. 128), ossia di una proiezione dell’orizzonte epistemico del soggetto sulla totalità dell’essere nel suo insieme.

Eppure, così come la filosofia heideggeriana necessita della metafisica come di un prodromo che ne costituisca la premessa, anche il pensiero nietzschiano della volontà di potenza abbisogna di specifiche condizioni per il suo pieno dispiegamento. Tuttavia, in questo caso non si tratta di un contributo storico o di un segno da ricercarsi in qualche precursore, bensì di un pensiero concettualmente antecedente che ne rappresenti il modo o, come dirà Heidegger, l’existentia di ciò che essa è in essentia. Si tratta, in particolare, di quel che Nietzsche ha più volte indicato come il pensiero dei pensieri: l’eterno ritorno dell’uguale.

Si giunge, così, al senso di questo saggio: scandagliare il pensiero dell’eterno ritorno seguendo le pagine del Nietzsche, ricostruire il legame che lo congiunge alla volontà di potenza e rivelare il suo ruolo nella complessa narrazione heideggeriana. Per quanto la (ri)elaborazione del senso di questo pensiero abbia richiesto a Heidegger poco meno di un decennio e sia stata con buona probabilità soggetta all’influenza di fattori contingenti (come la necessità di denunciare il regime nazional-socialista), l’esposizione della tesi definitiva è sorprendentemente lucida e omogenea. I testi dei semestri del 1936/37 possono essere accordati a quello interrotto del luglio 1939, a sua volta ripreso ed espresso in sei lapidari passi in apertura al secondo libro del Nietzsche. Per quanto si registrino variazioni di linguaggio e di tono – al punto che è possibile percepire il progressivo ridursi della deferenza di Heidegger per il filosofo di Röcken – la coesione argomentativa conferisce solidità al progetto. Ciò riconosciuto, non resta che procedere nella lettura di queste pagine.

L’eterno ritorno come contromovimento

La prima determinazione del pensiero dell’eterno ritorno giunge allorché Heidegger avverte l’urgenza di esprimere forma e ambito dello stesso, rispettivamente la «struttura interna» (Heidegger 1994, p. 356) della verità del concetto e la circoscrizione del dominio entro cui agisce. La risposta a questo duplice quesito viene fornita da quella «prefigurazione preventiva» entro cui le stesse domande vengono formulate: se è vero che ciò che è pensato non si può separare dal come lo si pensa, lo spazio entro cui la risposta viene elaborata condiziona e determina la risposta stessa, sicché quanto si sta cercando è in verità già dato nella cornice della ricerca. I lineamenti della filosofia di Nietzsche custodiscono perciò i due tratti fondamentali del pensiero dell’eterno ritorno. Se l’intenzione è quella di comprendere i caratteri fondamentali della dottrina più importante del pensiero nietzschiano, e se la stessa si inserisce nel cuore di una struttura filosofica complessa che può rivelarne il ruolo e l’importanza, allora, gettare uno sguardo sull’obiettivo generale del filosofo di Röcken appare impreteribile.

Ebbene, in riferimento all’analisi condotta nel capitolo su «la volontà di potenza come arte», Heidegger può sentenziare ermeticamente quanto segue: la natura della filosofia di Nietzsche – a partire dalla quale è possibile comprendere l’intenzione di ogni suo pensiero – è di essere un contromovimento che intende rovesciare l’insieme della filosofia occidentale. Posto che quest’ultima si sia effigiata sull’impronta del platonismo, accogliendo in vari modi l’istanza di una strutturazione gerarchica dell’essere (che divide fra un soprasensibile dell’idea e un sensibile costituito della sua declinazione empirica), l’essenza del pensiero di Nietzsche è di superare questo paradigma svincolandosi da esso.

La natura del contromovimento si comprende allorché Nietzsche stesso definisce la propria filosofia un «platonismo rovesciato» (ivi, p. 157): nella configurazione platonica per cui il «il vero, il vero ente, è il soprasensibile, l’idea, [e] il sensibile invece è il μή δν […] ciò che non può essere chiamato ente, […] l’ombra e il residuo dell’essere» (ibid.), Nietzsche non vede che il fondamento per l’avvento del nichilismo, da intendersi come una passività dettata tanto dal rifiuto della vita sensibile, quanto dal dolore per il desiderio velleitario di pervenire al reale soprasensibile. Quanto emerge di conseguenza è che la volontà di rovesciamento sussiste come stimolo della volontà di superamento del nichilismo: se il nichilismo si genera in conseguenza del platonismo, se le sue premesse sono le premesse del platonismo, allora si deve intendere il rovesciamento (Umdrehung) radicalmente, come svincolamento (Herausdrehung) dalla logica a fondamento della svalutazione della vita. Com’è noto, l’azione si traduce in una liquidazione del fraintendimento e dell’anatema nei confronti del sensibile e parimenti dell’eccedenza del soprasensibile. La proposta nietzschiana consiste di una riduzione dell’assoluto sull’unica dimensione dell’immanente: fare del mondo apparente il mondo vero trattenendo al contempo l’apparenza nell’essenza del reale. In altri termini, se la filosofia di Platone è la «misura-guida»(Ivi, p. 360) dell’intera storia della filosofia occidentale, il contromovimento che vivifica il pensiero nietzschiano deve detronizzare i valori che la animano. Il superamento del platonismo o, il che è lo stesso, del nichilismo, può avvenire esclusivamente per mezzo di una trasvalutazione dei suoi valori supremi. Pragmaticamente: all’ideale ascetico deve sostituirsi la fedeltà alla terra; ricusata la trascendenza, la totalità dell’essere deve imprimersi sul solo piano del sensibile.

Alla luce dell’intenzione fondamentale della filosofia nietzschiana, tanto la forma quanto l’ambito del pensiero dell’eterno ritorno divengono chiari. La sentenza di Heidegger è lapalissiana:

«Se ora l’eterno ritorno dell’uguale è il pensiero fondamentale dell’autentica filosofia di Nietzsche e quest’ultima rimane in sé contromovimento, allora il pensiero dei pensieri è in sé un contropensiero.» (Ivi, p. 361)

Giungono le prime risposte: il dominio entro cui agisce la dottrina dell’eterno ritorno è quello della totalità dell’ente pensato secondo i valori del platonismo; la forma è quella dello strumento attraverso cui si rende possibile il rovesciamento del paradigma platonico. In generale, l’eterno ritorno rappresenta la controfede che costituisce «l’atteggiamento portante e conduttore di tutto il contromovimento» (ibid.). Pur nella mancanza di una caratterizzazione particolare del pensiero dei pensieri, la sola lettura dei lineamenti della filosofia nietzschiana risulta straordinariamente eloquente. È proprio a ragione di ciò che appare importante notare quanto segue: se il motivo a fondamento del contromovimento nietzschiano è il tentativo di ridurre ogni edificazione gerarchica dell’essere al solo piano del sensibile, il contropensiero che lo fonda dev’essere finalizzato allo stesso scopo; se la filosofia di Nietzsche è orientata all’avvaloramento della vita, lo stesso deve valere per il pensiero dell’eterno ritorno. In un certo senso, determinare il pensiero dei pensieri nell’ordine del progetto filosofico a cui appartiene significa porre su di esso un vincolo di coerenza che, in futuro, richiederà di essere rispettato.

La necessità del superamento

Non appare difficile intuire come la forma del pensiero dell’eterno ritorno ne sveli anche lo scopo all’interno del sistema filosofico di Nietzsche. La sola natura di contropensiero risulta sufficientemente eloquente da farne intendere il senso dissolutivo, rivolto contro i valori del platonismo e del nichilismo che esso genera. D’altronde, quanto dimostrato finora è che l’eterno ritorno dell’uguale è un contropensiero proprio in virtù del fatto che si muove entro l’orizzonte di un contromovimento, sicché sussume il proprio carattere particolare a partire dall’impronta generale del contesto che abita. Eppure, per quanto questa deduzione abbia concesso l’occasione di ritrarre sommariamente il pensiero dei pensieri di Nietzsche, v’è senz’altro da riconoscere che tale inferenza non dice nulla di esso circa la sua modalità d’azione. Il come l’eterno ritorno agisca sulla metafisica occidentale appare tuttora velato. Apparentemente, nessun ulteriore indizio sembra poter essere colto dal breve sguardo gettato sull’ordinamento generale della filosofia nietzschiana. Tuttavia, qualcosa può ancora esser detto riflettendo su quante incombenze gravino sul ruolo di «dissolutore del nichilismo»: in particolare, che la costruzione del cardine sul quale imperniare il superamento dello schema platonico non può poggiare su alcunché di arbitrario, che «un contromovimento di tale portata e di tali pretese deve […] essere necessario» (ibid.). Svelata l’intenzione che anima la dottrina dell’eterno ritorno, l’interrogazione deve volgere in direzione della necessità con cui essa deve imposi sulla storia della metafisica occidentale.

La necessità a cui allude Heidegger consiste, in questo caso, di una ragione storica che giustifichi l’istanza della trasvalutazione dei valori: il superamento del platonismo può realizzarsi esclusivamente se sono maturate le condizioni per un suo reale rovesciamento; condizioni che debbono essere ricercate entro lo spazio di quell’esperienza che matura come conseguenza dei valori stessi: il nichilismo. In quanto massima manifestazione dello spirito del platonismo, nel nichilismo si radicano «la necessità (Not) e la necessarietà (Notwendingkeit) del suo superamento» (ivi, p. 362).

Certamente, delineare i tratti essenziali dell’andamento del pensiero, affermando che ogni superamento paradigmatico avviene in conseguenza di adeguati prodromi storici, non dice molto delle ragioni che realmente alimentano i singoli cambiamenti epocali: l’ossatura della storia qui tracciata, per cui all’esperienza del nichilismo deve seguire il movimento per la sua risoluzione, non svela così facilmente il senso della necessità che muove questo passaggio. Per tale ragione appare importante determinare il luogo entro cui l’esperienza della nullificazione dell’ente si acuisce al punto da sprigionare il vettore per la sua risoluzione, la regione nella quale la svalutazione dell’esistenza è tale da inaugurare la consunzione del proprio orizzonte assiologico. Ebbene, se è vero che la dottrina dell’eterno ritorno trae la propria natura di contropensiero a partire dall’orientamento generale della filosofia nietzschiana – secondo un movimento verticale che procede dall’universale al particolare – è altresì vero che quella stessa natura deve maturare alla luce di una «ragione orizzontale», di un’esperienza prossima che la costituisca come tale e ne determini il carattere rivoluzionario. Forse senza soprese, tale ragione è il nichilismo stesso «vissuto in sé fino in fondo» (Nietzsche 1995, p. 4), assimilato nella propria perfezione dietro di sé e sotto di sé e infine ostracizzato fuori di sé. Ciò significa che il luogo della piena assunzione del nichilismo e del suo autentico superamento è lo stesso pensiero dell’eterno ritorno. Fra nichilismo e trasvalutazione, l’eterno ritorno si colloca sulla sommità, dominando entrambi i versanti. In altri termini, la possibilità di un tempo ciclico rappresenta lo strumento per lo svincolamento dal nichilismo in quanto impone di necessità che lo stesso sia esperito nella sua forma più pura. Affinché l’istanza del superamento venga accolta, è necessario che l’eterno ritorno riveli il nichilismo nella sua forma più tragica.

«In questo senso anche il pensiero dell’eterno ritorno va pensato «nichilisticamente» e solo «nichilisticamente». […] Soltanto chi pensa esponendosi all’estrema necessità del nichilismo è capace di pensare il pensiero che supera in quanto pensiero che volge la necessità (notwendend) e che è necessario (notwending).» (Heidegger 1994, p. 364).

Nichilismo

Individuare la componente nichilistica del pensiero dell’eterno ritorno non risulta un’operazione complessa. La prospettiva di un infinito riproporsi degli eventi implica la negazione di qualsiasi teleologia universale: nell’ottica di una eterna reiterazione dei momenti della vita, ogni azione orientata a uno scopo, ogni anelito verso un compimento, viene inevitabilmente a mancare. Come scrive Heidegger, attraverso l’eterno ritorno «viene eternizzato l’«invano», la mancanza di un fine ultimo» (Ivi, p. 363), e per questo motivo esso costituisce il pensiero più paralizzante o, riprendendo Nietzsche, il peso più grande (Nietzsche 1965, p. 202) che l’uomo possa esser chiamato a sostenere. Vincolata all’eterno ritorno e, congiuntamente, privata di ogni scopo, l’esistenza si imbeve della «forma più estrema del nichilismo: il nulla (la mancanza di senso) eterno» (Nietzsche 1964, p. 201).

Nell’interpretazione heideggeriana, la questione del nichilismo è direttamente richiamata nel brano «La visione e l’enigma» (cfr. Nietzsche 1976, pp. 184-186) dello Zarathustra, simboleggiata dal serpente nero che sta per soffocare il pastore. L’esegesi del filosofo di Meßkirch svela il significato allegorico del passo riconducendo ogni dettaglio e ogni particolare caratterizzante al proprio (presunto) valore simbolico. Il ritratto ultimato gode indubbiamente di una sorprendente coerenza, tale da corroborare la veridicità dell’ipotesi interpretativa di Heidegger. Superata la porta carraia e abbandonato a sé il nano, incapace di pensare propriamente il pensiero dei pensieri, Zarathustra si imbatte in un cane e ne ode l’ululato alla mezzanotte. Il contesto si allontana più che mai dall’atmosfera dell’eterno ritorno per com’era stata dipinta da Nietzsche: al cantare degli uccelli canori si oppone l’ululare della bestia, all’attimo senza ombra del meriggio l’ombra assoluta della notte; la luna piena, in un silenzio di morte, prende il posto del Sole. Zarathustra ricorre col pensiero al tempo della sua fanciullezza, a ben prima che le travagliate metamorfosi lo rendessero ciò che è ora. Così, cade in quella «disposizione d’animo della pietà e della compassione» (Heidegger 1994, p. 366), in quel pessimismo remissivo e in quell’assopimento dello spirito che avevano rappresentato lo stesso mondo di Nietzsche al tempo di Schopenhauer e Wagner. In questo scenario desolato al confine fra la veglia e il sonno, posto d’innanzi al ritorno del passato per la forza della memoria, Zarathustra vede che qui giaceva un uomo. Non si tratta che di Zarathustra stesso, posto in un suo doppio: un giovane pastore che, nel pieno del suo sonno, stava «nella desolazione della luce riflessa» (Ivi, p. 367), in preda a quello stesso desiderio di fuga nella dissoluzioneche aveva ammorbato Zarathustra (e Nietzsche) in gioventù. Il pastore si contorce a terra, stravolto dal dolore, soffocato e convulso: un greve serpente nero gli penzola dalla bocca. Heidegger oppone l’immagine di quest’ultimo a quella del serpente che si inanella al collo dell’aquila. Sono entrambe simboli dell’eterno ritorno, ma se nel caso dell’aquila volteggiante nel cielo il pensiero dei pensieri risulta vinto e dominato, nel caso del greve serpente esso si manifesta col suo volto più stigio, quello del nichilismo più tragico. La nera serpe è «l’aspetto tetro, sempre identico e in fondo senza fine e senza senso del nichilismo, è il nichilismo stesso. Il nichilismo si è saldamente attaccato al giovane pastore mordendolo, nel sonno; la potenza di questo serpente poté mettersi a strisciare in bocca al giovane pastore, cioè incorporarsi in lui, solo perché questi non era sveglio» (ibid.). Come se il sonno, che altro non è che il torpore metafisico, ricoprisse un ruolo isagogico per l’avvenire del nichilismo: come se solo nel sopore platonico e nell’acquiescenza dello spirito a cui questi induce, risultasse possibile cogliere la tragicità dell’eterno ritorno dell’identico: il «nichilismo tenue» del pensiero occidentale, posto d’innanzi al pensiero dei pensieri e allo svelamento della vacuità dell’essere nel suo insieme, non può che esacerbarsi e mostrare la sua forma più terribile.

Questi primi passi riguardanti la figura del pastore permettono di gettare uno sguardo sull’aspetto nichilistico dell’eterno ritorno. Il dolore del giovane, lacerato dall’interno per i morsi del serpente, esemplifica il peso del pensiero nietzschiano. Ovviamente, però, se ci si limitasse a pensare la dottrina dell’eterno ritorno in questi termini, questa si rivelerebbe solo a metà. Così, rimarrebbe celata la sua funzione specifica di cui si è parlato in primo luogo: la componente di contromovimento e superamento del nichilismo. Se il pensiero dei pensieri presenta due volti, uno funzionale allo svelamento dell’altro, quello qui considerato non può che costituire la premessa che conduce alla rivelazione del secondo. Come si è detto, il superamento del nichilismo può avvenire solo a costo di scoprirne l’essenza più tragica. Solo in virtù di questa necessità può pensarsi il passaggio che la volge in direzione della trasvalutazione.

Il superamento del nichilismo nella metafora nietzschiana

La prima indicazione di Nietzsche è che il superamento del nichilismo non può avvenire per mezzo di un aiuto eteronomo: ogni tentativo da parte di Zarathustra di liberare il giovane dalle fauci del serpente è vano. Qualsivoglia azione che giunge dall’esterno, sia essa un ferire o uno strappare, un attaccare o un difendere, risulta inevitabilmente inutile. Il nichilismo è una bestia che si annida all’interno dell’uomo e a partire dallo stesso dev’essere debellato. Solo un morso deciso, un affondare i denti nel pericolo, può abbatterla.

«Il nichilismo viene superato soltanto se viene superato dalle fondamenta, se lo si afferra per la testa, se gli ideali che esso pone e dai quali proviene subiscono la «critica», cioè la delimitazione e il superamento. Ma il superamento avviene soltanto se ciascuno di coloro che ne sono coinvolti – e tutti lo sono – lo morde via, ciascuno ogni volta in quanto se stesso, perché se, e fintanto che, uno lascia che siano altri a strappare il suo nero affanno, tutto rimane invano.» (ivi, p. 368)

Quindi, Zarathustra non può che esortare, fuso in un sol grido, a mordere. Ma non appena il giovane pastore accoglie il consiglio come se gridasse da dentro di lui (ibid.) – del resto, in quanto doppio, si tratta di Zarathustra stesso – con un morso decapita il serpente e ne sputa la testa. Nell’istante in cui si affranca dalla presa della serpe va in contro alla metamorfosi: «non più pastore, non più uomo, – [diviene] un trasformato, un circonfuso di luce» (Nietzsche 1976, p. 186).

La sinteticità di questo passo induce a interrogarsi sulla natura del cambiamento a cui va in contro il pastore. Se generalmente l’esposizione nietzschiana non è certo didascalica, in questo particolare caso sembra tacere completamente sulle ragioni che muovono il passaggio dal soffocamento alla liberazione. Un morso dato a partire dalla ferma volontà del soggetto è quanto si ha a disposizione per risolvere l’enigma del superamento del nichilismo. Ma quanto più la volontà dell’autore risulta criptica o sfocata, tanto più la parola dell’interprete può arrischiarsi nella sua lettura: l’interpretazione heideggeriana di Nietzsche prende forma per mezzo di questi pochi passi; in particolare, essa s’impernia sul valore adducibile al morso del pastore, cercando di intravvedervi quella necessità dalla quale dipendono il superamento e la sua giustificazione.

Una considerazione di importanza fondamentale per ricostruire l’esegesi di Heidegger, è che in una certa misura il morso del pastore conferisce una totalità di senso al pensiero dell’eterno ritorno. Posto che chi è lacerato dal greve serpente è colui il quale pensa l’eterno ritorno seguendolo fino in fondo, cioè fino a comprenderne pienamente la natura nichilistica, è necessario evidenziare che lo stesso pensiero, per quanto pensato in profondità, non è pensato nella sua totalità se non fino a che se ne dà prova di superamento, vale a dire, fino a che esso non giunge a comprendere l’attimo del morso. La coappartenenza dei due momenti risulta evidente se si considera che – come è stato detto – il pensiero dei pensieri possiede due volti, nella cui connessione è custodita la necessità (e la ragione) della trasvalutazione: all’aspetto nichilistico si accompagna l’aspetto gioioso, che vede l’eterno ritorno pensato in quanto contropensiero del contromovimento. Le due parti risultano inevitabilmente commiste, ed è a ragione di ciò che Heidegger può affermare che il pastore «non pensa questo pensiero [- il pensiero dell’eterno ritorno -] nel suo ambito essenziale fintanto che il nero serpente non gli è strisciato nelle fauci ed egli non l’ha morso» (Heidegger 1994, p. 370); che «il pensiero è, soltanto in quanto è quel morso» (ibid.), poiché in esso risiede tutta la necessarietà che guida l’essenza del pensiero stesso.

Dunque, senza pensiero del morso e del valore che gli è connesso, qualunque esso sia, non v’è pensiero dell’eterno ritorno. Il pensiero dell’eterno ritorno si completa se è pensato congiuntamente al pensiero del morso, sicché il morso decide, in ultima istanza, del senso dell’eterno ritorno e della sua essenza di contromovimento. Il valore del morso determina l’essenza del pensiero dell’eterno ritorno portandola a compimento, cioè facendola aderire al progetto del contromovimento in cui è inscritta. A questo punto, se la necessità che muove il passaggio verso la liberazione non è ancora avvertita nella sua necessarietà, è perché il morso che la trattiene in quanto simbolo non è ancora stato pensato adeguatamente, collocandolo puntualmente nell’orizzonte del tempo ciclico. Il passaggio dalla piena sussunzione della tragicità del nichilismo all’affrancamento dal suo peso passa per la specificità del valore simbolico del morso. Eppure, è proprio l’interrogazione del rapporto fra la volontà di superamento rappresentata dal gesto del pastore e la ciclicità eterna del tempo nella dottrina nietzschiana a svelare la risposta all’enigma del nichilismo.

La riflessione di Heidegger schiude il mistero domandandosi dove sia il ponte che congiunge il tutto ritorna, quindi tutto è indifferente, nulla vale la pena, al tutto ritorna, quindi tutto è importante, nulla è indifferente. Realizza quale sia il nesso che connette i due estremi nell’istante in cui pensa all’attimo del morso in quanto attimo, ossia nel momento in cui concepisce il gesto del pastore collocandolo temporalmente nell’orizzonte dell’eterno ritorno. In questo senso, il morso va interpretato nello stesso modo in cui si interpreta il simbolo della porta carraia: entrambi sono l’attimo, da intendersi come l’unità di tempo che si colloca al confine fra la retrospettiva del passato e la prospettiva del futuro,«ciò che è dato in dote (das Mitgegebene)»  e «ciò che è dato come compito (das Aufgegebene)» (ivi, p. 371). Allora, la tesi heideggeriana sembra essere la seguente: se nella prospettiva nichilistica dell’eterno ritorno la temporalità si imprime sul piano dell’identità assoluta, per cui tutto è indifferente perché tutto è uguale, l’attimo, concepito come presenzialità e l’esser-presente dell’ente, costituisce l’unità a cui la totalità del tempo si riduce, e a partire dalla quale può promuoversi una significazione dell’essere nel suo insieme; se il nichilismo comporta la banalizzazione della vita e induce le eterogenee determinazioni del tempo a identificarsi in una sterile indifferenza, una rivalutazione dell’unità essenziale della temporalità può costituire l’impulso per il suo superamento. Ancora: il portato nichilistico del pensiero dell’eterno ritorno è la vanificazione di ogni progettualità futura; in esso l’orizzonte diacronico assume la forma di un eterno diaforismo del dato presente. Sull’estensione del presente e del suo attimo si profila l’eternità dell’essere. Ne consegue che il superamento del nichilismo e la conquista dell’anello dell’eterno ritorno possono compiersi solo se lo sforzo in direzione del superamento consiste in una decisione e in un’azione misurate sull’attimo e sulla sua presenzialità[3]

«L’eterno ritorno dell’uguale è pensato soltanto se è pensato nichilisticamente e secondo l’attimo.» (ivi, p. 370)

Ammesso che tutto è uguale, la spaccatura minima a cui si riferisce Heidegger, emblema della discrasia fra la rassegnazione nichilistica e il sincero assenso alla vita, risulta sottile al punto che il confine fra il «tutto è indifferente» e il «nulla è indifferente», ha la dimensione di un attimo. È allora a partire da quest’ultimo che colui che pensa il nichilismo esperendolo nella sua forma più atroce può trovar occasione di tramutare la necessità del dolore nella necessità del superamento.

Fede, attimo e presenzialità

Sarebbe un errore ritenere che aver additato la via per il superamento del nichilismo abbia anche esaurito il ruolo dell’eterno ritorno nell’economia della ricostruzione storico-filosofica di Heidegger. Indubbiamente, che si abbia specificato quale sia l’essenza del pensiero dell’eterno ritorno ha permesso di rivelare le originali intenzioni di Nietzsche, nonché di svelare l’articolazione interna del suo progetto. Il senso del carattere di contropensiero del contromovimento si scopre allorché l’eterno ritorno induce il soggetto che lo pensa a rivalutare la totalità dell’essere a partire dal valore dell’attimo presente, sicché ora appare ben comprensibile quale sia l’aspetto risolutivo e trasvalutativo del pensiero nietzschiano. Eppure, tanto le ragioni che fanno del filosofo di Röcken l’ultimo metafisico, quanto quelle che specificano la natura del rapporto fra il pensiero dell’eterno ritorno e la volontà di potenza, risultano ancora celate. Il ruolo della filosofia di Nietzsche nella storia del pensiero occidentale non sembra esser stato ritratto nella sua completezza. Ne consegue che l’interrogazione del pensiero dei pensieri non può arrestarsi; al contrario essa deve continuare alla luce del fatto che il pensiero dell’attimo, costituendo il mezzo per la risoluzione del problema del tempo ciclico, ha schiuso l’orizzonte di una nuova dimensione interpretativa.

Dunque, inteso il senso dell’eterno ritorno nella filosofia di Nietzsche, giunge il momento di comprenderne il ruolo nella storia della filosofia occidentale. La chiave per la determinazione del valore storico del pensiero dei pensieri risiede, secondo Heidegger, nelle stesse premesse che conducono al superamento del nichilismo attraverso il pensiero dell’attimo. Se la (ri)significazione della totalità dell’essere può essere veicolata dalla sola valorizzazione dell’istante presente, è perché la totalità dell’essere, concepita nichilisticamente secondo il pensiero dell’eterno ritorno, imprime se stessa sull’attimo e sulla sua presenzialità: la dottrina dell’eterno ritorno è contropensiero del nichilismo nella misura in cui pensa il tempo nei termini di un’eterna reiterazione dell’identico. Questo costitutivo ripresentarsi dell’uguale e il conseguente appiattimento della temporalità sul solo piano del presente rappresenterebbero, secondo Heidegger, gli aspetti fondamentali dell’eterno ritorno, il nodo focale a partire dal quale valutare il fenomeno entro la cornice del pensiero occidentale.

La presentificazione operata dal pensiero dell’eterno ritorno svela il proprio reale significato allorché Heidegger prende in considerazione l’idea nietzschiana dell’eterno ritorno in quanto fede. È analizzando questo pensiero che l’ermeneutica heideggeriana incomincia a profilare il proprio esito. A partire dall’affermazione per cui «ogni fede è un tenere-per-vero» (Nietzsche 19711, p. 15), indi per cui l’eterno ritorno dev’essere pensato «religiosamente» (Nietzsche 19712, p. 458) – sentenziata da Nietzsche al solo fine di esprimere la serietà con cui va pensata la sua dottrina –, Heidegger scorge nel pensiero nietzschiano un carattere eminentemente rappresentativo, atto a imporre necessariamente la pensabilità dell’essere: il pensiero dell’eterno ritorno in quanto fede costituirebbe, secondo il filosofo di Meßkirch,  la spia di un’interpretazione dell’ente in quanto assolutamente sussistente, vale a dire disponibile al desiderio di determinazione avvertito dal soggetto indagante; nel pensiero dell’eterno ritorno in quanto fede sarebbe implicita la volontà di trattenere l’essere entro l’orizzonte della dicibilità dell’ente, cioè di assicurarlo conformandolo al carattere stabilizzante e fissativo della verità. Per quanto ancora criptiche, le parole di Heidegger sono qui esplicite:

«[…] Nietzsche designa come fede questo pensare il pensiero più grave non già perché esso, in quanto amore creatore, sia sacro e religioso, ma perché, in quanto pensiero dell’ente nel suo insieme, fissa l’ente stesso nel suo progetto dell’essere. Il carattere di fede di questo pensiero scaturisce anzitutto non dal suo carattere religioso, ma dal suo carattere di pensiero, perché il pensare, in quanto rappresenta relazione e coappartenenza, pone lì e intende sempre qualcosa di stabile.» (Heidegger 1994, p. 327)

E ancora:

«Il pensare il pensiero più grave è una fede, il tenersi nel vero. Verità vuol sempre dire per Nietzsche il vero, e questo significa per lui: l’ente, ciò che è fissato come stabile […] La fede in quanto fissare è assicurazione della sussistenza.» (ibid.)

Secondo l’esegesi heideggeriana, incapace di trattenersi dall’assunzione di una posizione teorica, Nietzsche sperimenterebbe la necessità storica di interpretare l’essere in quanto assolutamente sussistente, di dirlo, in conformità alla totalità dei tentativi pregressi che hanno costituito la storia della metafisica occidentale. Attraverso la concezione dell’eterno ritorno in quanto fede, Heidegger scorge l’opportunità di instradare Nietzsche sul cammino della metafisica e, con ciò, di ricondurlo in ultima istanza, a quella tradizione filosofica che il pensatore di Röcken aveva tanto energicamente ricusato. Così, senza volerlo, Nietzsche avrebbe esperito il dovere di rispondere alla domanda sull’essere dell’ente affermando in che modo l’ente sia o debba essere pensato. Il carattere fissativo della fede, così come concepita da Nietzsche, svelerebbe l’intento di determinare l’essere dell’ente riconducendolo a un piano di pensabilità per l’uomo: il ci, «il possibile luogo per la collocazione di volta in volta necessaria del suo essere» (ivi, p. 318). In altri termini, il tentativo di fissare «il modo in cui l’essere del mondo è» (ivi, p. 327), rivelerebbe l’intimo e inavvertito desiderio del pensiero nietzschiano: disporre la totalità dell’ente entro il dominio del dire umano, ridurre l’essere all’esserci dell’uomo, in modo tale che l’essere possa essere pensato ed espresso nell’ordine del pensiero che lo pensa; che l’essere possa essere vero, nella misura in cui si pensa alla verità sulla linea distolta dall’essenza[4], come semplice conformità all’intelligibilità dell’ente.

È su questa trama che, tanto le considerazioni tratte sull’attimo, quanto le premesse che lo pongono come cardine del contropensiero, rivelano il proprio valore nel progetto heideggeriano. Se la riflessione condotta sul concetto di fede risulta apparentemente arbitraria o filosoficamente debole, è perché essa non fa che disporre lo scenario per l’illuminazione del nucleo semantico dell’eterno ritorno: l’uguale. L’eterno ritorno imprime sulla diacronia una curvatura tale da far sì che il «molteplice che cangia senza fine» muti e divenga «l’uguale stesso» (Ivi, p. 546). Così, riduce la temporalità dell’essere sul solo piano della presenza. Per quanto possa risultare complesso intravvedere nel concetto di fede una volontà di stabilizzazione della realtà, appare altrettanto difficile ignorare quanto questa interpretazione dell’eterno ritorno come reiterazione dell’identità e assicurazione della presenza si confaccia al suddetto intento di fissazione della sussistenza. Se si pensa l’eterno ritorno heideggerianamente, cioè come eterno ritorno dell’uguale, l’idea che un appiattimento sull’identico assecondi la volontà di dire l’ente o assicurarne la pensabilità, diviene fortemente pervicace. Pur sordidamente, celandosi alle originali intenzioni del suo autore, il pensiero dell’eterno ritorno, riducendo la totalità dell’essere all’attimo della sua presenza, ossia al suo momento di maggiore accessibilità intellettuale, dispone le condizioni per poterlo pensare ed esperire in quanto pensato.

«Il termine «ritorno» pensa la stabilizzazione di ciò che diviene, al fine di assicurare il divenire di ciò che diviene nella durata del suo divenire. Il termine «eterno» pensa la stabilizzazione di questa costanza nel senso del ruotare che ritorna in sé e corre già davanti a sé. […] Il pensiero di Nietzsche pensa la costante stabilizzazione del divenire di ciò che diviene, in quell’una presenza del ripetersi dell’identico.» (Ivi, p. 546-547)

Ciò fa di Nietzsche un metafisico. Il suo tentativo di rovesciare il platonismo ricusandolo quanto più radicalmente possibile, imprimendo la gerarchia dell’essere su un solo piano ontologico e fuoriuscendo dalla logica dualistica di sensibile e soprasensibile, empirico e razionale, soggettivo e oggettivo, fallisce nell’istante in cui accoglie inavvertitamente l’idea che l’essere debba essere pensato ed espresso; che la totalità dell’ente debba ricadere nel dominio dell’azione umana. Nietzsche è un metafisico perché il suo pensiero dell’eterno ritorno costituisce il tentativo estremo di assoggettamento dell’ente alla volontà del soggetto pensante. Lo stesso pensiero dell’attimo come superamento del nichilismo contribuisce all’affermazione del dominio sull’essere nella misura in cui ne tenta una completa ri-significazione. Paradossalmente, l’eterno ritorno come riduzione alla presenza non fa che esacerbare il tentativo platonico di fissazione dell’ente nell’ίδέα, sicché il pensiero della verità nel senso dell’essenza della ἀλήθεια si è nuovamente sclerotizzato nella sua forma degenerata.

«Il rovesciamento non elimina la posizione platonica di fondo, ma anzi la consolida proprio sotto l’apparenza che essa sia eliminata.» (ivi, p. 389)

Essere e divenire

Alla fine del capitolo su «la volontà di potenza come arte», Heidegger aveva ricondotto il conflitto nietzschiano fra arte e verità all’antica antitesi di divenire ed essere. Nell’interpretazione del filosofo di Meßkirch, il rapporto fra il produrre artistico e il vero metafisicamente concepito assumeva la forma di una discrepanza che si risolve a favore del primo. Posto che il carattere costituivo della vita sia il divenire, l’arte ritrae l’essenza del reale perché ne sposa il carattere trasmutativo ed entropico. Ciò tuttavia non accade per il vero che, spia della volontà di fissazione della sembianza, avanza la pretesa di irrigidire (e così negare) il balenare dell’esistenza. «Se la vita è potenziamento della vita – scriveva Heidegger – […] la sembianza fissata è già un sintomo di degenerazione» (ivi, p. 211). Se l’essenza del reale è di elevare, crescere e trasfigurare, l’aspirazione a inibirlo nella stasi del vero risulta di per sé contraddittoria. «L’arte come trasfigurazione potenzia la vita più di quanto non faccia la verità come fissazione di una sembianza» (ibid.).

In modo non dissimile da quanto accade ora per il pensiero dell’eterno ritorno, la preminenza dell’arte sulla verità aveva condotto Heidegger a riconoscerle il ruolo di contromovimento del nichilismo, in quanto forza che fisiologicamente fonda la realtà a partire da un’azione creativa. Eppure, la produzione artistica assurgeva al ruolo di contromovimento in virtù della sua aderenza all’essenza diveniente della vita, aspetto che sembra collocarsi in posizione antitetica rispetto a quanto visto per il pensiero dell’eterno ritorno. Infatti, alla luce di ciò che è stato considerato finora, risulta evidente che, nella logica dualistica del conflitto storico fra divenire ed essere, il pensiero dei pensieri si collochi dalla parte di quest’ultimo: se la possibilità di pensare l’ente si schiude nel solo istante in cui l’ente viene fissato nel suo essere e sottratto del suo carattere vitale, se la determinazione dell’essere dell’ente ha luogo qualora questi venga fissato come stabile e assicurato nella sussistenza, allora appare chiaro che il pensiero dell’eterno ritorno ricusi il divenire – che pure è il carattere essenziale della temporalità – in favore dell’essere. Del resto, il fatto stesso è reso evidente dal semplice uso terminologico di Heidegger: la verità come fissazione della sembianza contro cui si oppone l’arte è esattamente la verità come fissazione della sussistenza che l’eterno ritorno ricerca. Come si è detto, nel grado in cui tenta la stabilizzazione dell’ente entro il dominio del presente, la dottrina nietzschiana non sussiste che come un’illazione del progetto platonico di ricondurre il divenire dell’ente all’essere dell’ίδέα.

Evidenziare questo aspetto appare di fondamentale importanza qualora si voglia comprendere le ragioni che inducono Heidegger a sostenere l’identificazione dell’eterno ritorno dell’uguale con la volontà di potenza. L’interrogazione del rapporto fra i due cardini del pensiero nietzschiano assume il proprio valore allorché conduce la ricostruzione heideggeriana verso il proprio compimento: l’indicazione del pensiero di Nietzsche come l’ultimo pensiero della metafisica occidentale. Svelato il motivo per cui Nietzsche si collochi all’interno della metafisica, è giunta l’ora di evidenziare la ragione per cui ne rappresenti al contempo l’esito ultimale.

La Leitfrage della storia della metafisica

La determinazione della posizione metafisica di fondo di Nietzsche passa per l’interrogazione della domanda-guida sulla base della quale si articola l’intera storia della filosofia occidentale. Heidegger fa nuovamente appello a quel legame verticale che specifica il singolo a partire dalla cornice della sua elaborazione: così come il pensiero dell’eterno ritorno poteva essere compreso solo entro la prefigurazione preventiva del pensiero nietzschiano, la collocazione di quest’ultimo nell’orizzonte della metafisica non può prescindere da un’analisi della domanda che la muove. Non che appaia sufficiente interrogare l’ἀρχή o chiedersi τί τό ὄν per rivelare quanto cruciale sia la filosofia di Nietzsche per la storia della metafisica: la domanda-guida, chiedendo cosa sia l’ente e assumendolo come tale, risulta sufficientemente eloquente da lasciar trasparire quella petitio principii comune a ogni pensiero metafisico – vale a dire, come si è visto, l’assunzione che l’ente presenzi come essente per il soggetto pensante – ma non dice nulla circa la particolarità della posizione nietzschiana. Per rivelare la ragione che fa del pensatore di Röcken l’ultimo metafisico è necessario scandagliare la Leitfrage al punto da svelarne la struttura essenziale, domandare la domanda così da dispiegarla pienamente. Come scrive Heidegger, «la risposta è soltanto l’ultimo passo del domandare stesso» (ivi, p. 380); se già l’arido risultato rivela come colui che risponde alla domanda-guida rimanga invischiato nei presupposti della stessa, allora una domanda della domanda concederà l’occasione di illuminare maggiormente quanto ancora pare occultarsi. Solo svelando l’intima ossatura della metafisica sarà possibile comprendere come Nietzsche si ponga nei confronti di essa.

Nell’interpretazione heideggeriana, la domanda sull’ente nel suo insieme ha storicamente interrogato il suo oggetto secondo due particolari riguardi: la costituzione e il modo di essere, il che cosa e il che dell’ente. Con questa distinzione si fa riferimento rispettivamente all’ente concepito «in relazione a ciò che è, a quale aspetto ha e quindi a come è fatto in se stesso» (ivi, p. 378), e all’ente pensato secondo la modalità del suo darsi, «in questo o quel modo, […] [se] possibile o reale o necessario» (ibid.). La determinazione dell’enticità dell’essere giunge dall’interazione reciproca di questi due ambiti, che rivelano in tal modo l’assetto strutturale della domanda-guida e, quindi, dell’intera storia della metafisica che ha tentato di risponderle. Infatti, questa differenziazione sarebbe inscritta nell’interrogazione della metafisica fin dalla sua inaugurazione, sulla scia delle due risposte originarie a fondamento della filosofia: quella di Parmenide («l’ente è») e quella di Eraclito («l’ente diviene»). L’antica scansione metafisica di essentia ed existentia[5], congiuntamente al dualismo di essere e divenire, si sarebbe così strutturata sull’essenza della domanda bipartita. L’insieme dei sistemi filosofici elaborati e addotti in risposta a quest’ultima si sarebbe effigiato come suo calco, assecondando così la duplicità alla base del quesito. È allora sull’impronta della domanda-guida che si erige l’apparato dualistico di Platone: la distinzione fra sensibile e sovrasensibile, apparenza e verità, dispone le regioni d’appartenenza dell’ente concepito nella sua costituzione essenziale e pensato secondo il come – vale a dire nel rispetto della modalità – con cui lo stesso si dà fattualmente. Lo stesso vale la totalità delle riflessioni successive, dalla scolastica cristiana all’idealismo tedesco passando per il criticismo kantiano, per giungere infine alla stessa filosofia di Nietzsche[6].

In altri termini: la domanda-guida del pensiero occidentale, formulata secondo il duplice rispetto del che e del che cosa, del modo d’essere e della costituzione essenziale, imprime alla storia della metafisica un ordinamento dualistico che la attraversa trasversalmente, dall’istante della sua inaugurazione al momento del suo compimento. L’antica antitesi di essere e divenire, così come quella di essenza ed esistenza, forma e materia, si modellano sulla base di questa impronta e offrono il campo e il dominio entro cui concepire gli ambiti strutturali della domanda. La risposta platonica alla Leitfrage, rappresentata dall’istanza di una strutturazione gerarchica dell’essere, adeguandosi per prima ai criteri dell’interrogazione, segna la traccia sulla base della quale plasmare la totalità delle proposte future. I dualismi di essere e divenire, di essenza ed esistenza, vengono disposti secondo l’antitesi del sensibile e del sovrasensibile, nel rispetto di quanto assunto e postulato nella domanda-guida. Concordemente all’interpretazione nietzschiana degli eventi, la storia della metafisica si costella di pensieri in sé platonici, modellati assecondando la formula della domanda-guida assunta dal filosofo greco. Eppure, se per Nietzsche la storia del nichilismo si arresta con il costituirsi del suo contromovimento e del contropensiero che lo anima, per Heidegger, il filosofo di Röcken ricade inavvertitamente all’interno del paradigma platonico. Non semplicemente per il fatto – prima considerato – che tenti di dire l’ente nel suo insieme rappresentandolo totalmente in quanto essente, ma anche e correlatamente[7] perché egli stesso sembra assecondare la struttura bipolare della domanda metafisica sull’enticità dell’ente, l’οὐσία dell’ν. Apparentemente, considerato nell’ottica della domanda-guida, Nietzsche non costituisce un’eccezione storica: anch’egli si adegua mimeticamente all’ordine prefigurato nel domandare, almeno nella misura in cui a sua volta risponde alla Leitfrage duplicemente, rispettandone la struttura bipolare:

«La determinazione «volontà di potenza» risponde alla domanda dell’ente riguardo alla sua costituzione; la determinazione «eterno ritorno dell’uguale» risponde alla domanda dell’ente riguardo al suo modo di essere.» (Heidegger 1994, p. 385)

I pensieri fondanti della filosofia nietzschiana si ordinano inconsapevolmente sulla struttura della domanda che guida la storia della metafisica occidentale. In quanto determinazioni dell’enticità dell’ente, volontà di potenza ed eterno ritorno rispondono entrambe all’interrogazione sulla quale si è tradizionalmente imperniato il pensiero filosofico, al punto da collocarsi antinomicamente nelle rispettive posizioni dell’essenza e dell’esistenza. L’accondiscendenza del pensiero nietzschiano al dettato della metafisica pare esser tale da instradarlo sul sentiero tracciato da Platone: concepiti come il «che cosa è» e il «che è», la volontà di potenza e l’eterno ritorno «coincidono, nel loro essere distinti, con la distinzione che regge ovunque la metafisica e che si fissa per la prima volta, e al tempo stesso in modo definitivo, nella distinzione platonica dell’ὄντως ὄν e del μή ὄν» (ivi, p. 549).

Così, in ragione del fatto che le unità capitali del suo pensiero si dispongono assecondando la logica del domandare metafisico, Nietzsche si collocherebbe sulla scia del platonismo. Nella misura in cui la volontà di potenza dice la costituzione essenziale dell’ente e l’eterno ritorno nomina di esso il come o la sua «fattualità» nell’insieme, la filosofia nietzschiana risulterebbe classicamente metafisica. Eppure, per quanto considerazioni di questa natura possano indubbiamente rivendicare un certo grado di verità, non bisogna compiere l’errore di restare indifferenti al valore di quanto si è rivelato finora: in primis, che il pensiero del filosofo di Röcken trova il proprio senso nell’essere un contromovimento del platonismo, vale a dire nel sussistere come compimento di uno sforzo di liberazione dal dogma metafisico; in secondo luogo, che il contropensiero che informa il suddetto sforzo, ossia il pensiero dell’eterno ritorno, gode di un particolare statuto, che difficilmente gli permette di disporsi in qualità di modo dell’ente entro la logica del divenire: se, tradizionalmente, le dimensioni dell’essere e del divenire sono state ricondotte rispettivamente a quelle del soprasensibile e del sensibile, dell’essenza e dell’esistenza, e se la diversificazione della domanda della totalità dell’ente si è imperniata sul fatto che l’essenza dell’ente dice il suo essere e il modo dell’ente il suo divenire, ciò non sembra valere per l’eterno ritorno dell’uguale, almeno stando a quanto considerato in queste pagine. Il pensiero di Nietzsche oppone resistenza nei confronti della tradizione filosofica e Heidegger ne è ben consapevole. Per quanto il pensatore di Röcken non risulti in grado di emergere vincente dal proprio conflitto con la metafisica, il suo pensiero più grave appare forte al punto da poterla condurre verso il compimento e, dunque, verso la dissoluzione.

L’eterno ritorno come volontà di potenza

A introduzione di questo saggio, all’altezza della ricapitolazione del pensiero di Nietzsche finalizzata alla prima determinazione dell’eterno ritorno, si era discusso del fatto che l’intento primario del filosofo tedesco si articolasse sulla volontà di superamento del nichilismo, concepito unitamente al platonismo e alla tradizione metafisica. Il progetto nietzschiano era di destrutturare la gerarchia dell’essere di matrice platonica imprimendo la totalità dell’ente, fosse esso vero o apparente, su un’unica dimensione del reale, svincolandola dalla logica dualistica e oppositiva che aveva segnato l’intera storia della metafisica occidentale da Platone all’epoca contemporanea. La natura di contropensiero della dottrina dell’eterno ritorno era stata tratta in conseguenza di queste osservazioni, congiuntamente alla necessità di tener fede al vincolo di coerenza che considerazioni di grande respiro come la presente impongono su quanto ricade entro il proprio dominio. Alla luce di questo aspetto, l’idea che, in ultima istanza, le determinazioni dell’eterno ritorno e della volontà di potenza coincidano l’una con l’altra non può destar sorpresa, se non al costo di pensare il pensiero nietzschiano come in sé contraddittorio o insoluto: credere che il carattere costitutivo della vita e il pensiero dei pensieri rispondano rispettivamente alle domande sul che cosa e il che dell’ente rispettando la normale formulazione dell’interrogare metafisico, rivelerebbe tanto la presenza di una tensione critica fra l’ontologia di Nietzsche e il fine a cui essa è indirizzata – tale da invalidare o, ancor peggio, svilire integralmente quanto sostenuto dal filosofo di Röcken – quanto la mancanza di un motivo per indicare il pensiero nietzschiano come l’esito destinale della metafisica, non essendo stato rilevato alcunché che lo differenzi nel normale corso della stessa. Se i nuclei fondanti della filosofia nietzschiana si conformassero al dettato della tradizione e si collocassero di conseguenza in regioni dell’essere distinte e giustapposte, come quelle di sensibile e soprasensibile, l’intento di affrancarsi dal retaggio platonico a guida della filosofia di Nietzsche verrebbe tradito in partenza. È in virtù di questi aspetti, così come di quanto si è accennato al termine del paragrafo precedente, che l’unità di volontà di potenza ed eterno ritorno dell’identico risulta impreteribile. Se «il rovesciamento non è certo un mero capovolgimento meccanico mediante il quale l’inferiore, il sensibile, viene a stare al posto del superiore, del soprasensibile» ma è  «una trasformazione dell’inferiore […] nella «vita»», cioè una riduzione dell’ente nel suo insieme al solo piano del sensibile, allora «a questo superamento della metafisica, cioè alla sua trasformazione nell’ultima forma possibile, deve corrispondere anche l’eliminazione della differenza […] tra il che cosa è e il che è» (ivi, p. 551):

«La volontà di potenza e l’eterno ritorno dell’uguale, in quanto determinazioni d’essere, non devono più soltanto raccordarsi, ma devono dire la stessa cosa.» (ibid.)

L’identificazione dei termini essenziali del pensiero nietzschiano si struttura entro il dominio dell’antinomia di essere e divenire, precisamente attraverso la caratterizzazione dell’eterno ritorno concepito come istanza di stabilizzazione della presenza. Come visto, la riduzione all’orizzonte dell’attimo indotta dal pensiero dell’infinito tempo ciclico si configura nei termini di un conferimento del carattere dell’essere al divenire (cfr. Nietzsche 19711, pp. 297-298), cosicché possa istituirsi l’assoluta dicibilità dell’ente nel suo insieme: l’azione creativa, posta a risoluzione del problema dell’eterno ritorno, riducendo l’articolazione dell’essere con la temporalità alla sussistenza dell’istante presente, consente una ri-significazione della totalità delle cose e, consequenzialmente, l’occasione di un superamento autentico del nichilismo. Il creare, scrive Heidegger, è un’istantaneità (Augenblicklichkeit) che è «l’essenza dell’eternità effettiva (wirklich), efficiente (wirkend), la quale ottiene la sua somma nettezza e ampiezza in quanto attimo dell’eternità dell’eterno ritorno» (Heidegger 1994, p. 387). In altri termini, l’eterno ritorno acuisce il valore dell’istante: il pensiero dell’attimo, in quanto pensiero dell’eternità, è al contempo pensiero dell’ente nel suo insieme. Il confinamento della totalità dell’ente entro lo spazio della presenzialità, gioca un ruolo cruciale nel progetto dell’estensione della pensabilità dell’ente stesso: il ritorno dell’identico assicura l’ente mantenendolo come sussistente e ne garantisce la dicibilità da parte del soggetto pensante. In breve, il divenire viene arrestato e ricondotto entro le maglie dell’essere, cosicché l’ente, pur «in quanto diveniente, venga mantenuto e abbia sussistenza, cioè sia» (ibid.).

Predisposto l’insieme degli elementi rilevanti per la desunzione dell’unità di volontà di potenza ed eterno ritorno, l’elaborazione di una pars costruens giunge naturalmente: se i termini cardine del pensiero nietzschiano corrispondono metafisicamente alle domande sul che cosa e il che dell’ente ma non possono costituirsi classicamente come antinomia, se l’ordinamento universale della filosofia di Nietzsche impone di necessità che la totalità dell’essere debba coadiuvarsi entro un unico piano ontologico, se l’eterno ritorno, negando il divenire dell’ente e fissandolo nella sua fattualità, lo riconduce al suo essere e lo identifica con la sua essenza, e cioè se, «il divenire stesso, […] si sottomette alla stabilizzazione dell’essere presente» (ivi, p. 553), allora la volontà di potenza e l’eterno ritorno dell’identico devono essere la stessa cosa, precisamente nella misura in cui la prima esprime l’essere e l’essenza dell’ente e il secondo riguarda il suo divenire e la sua esistenza. L’eternizzazione dell’ente ne predispone la pensabilità riconducendolo totalmente all’interno della dimensione del pensabile, quindi dell’essente e della volontà di potenza. Ne consegue che «la volontà di potenza in quanto costituzione dell’ente è così com’è soltanto sul fondamento del modo di essere in cui Nietzsche progetta l’ente nel suo insieme» (ivi, p. 387). Volontà di potenza ed eterno ritorno sono a questo punto un tutt’uno. La questione diviene storicamente incisiva: attraverso il volgimento in se stesso del tempo e l’irrigidimento dell’ente presentificato, i dualismi a fondamento della filosofia rimangono, per così dire, «senza patria» (ivi, p. 550), poiché si determina la commistione ineliminabile delle categorie metafisiche disposte secondo la crasi a fondamento della domanda-guida: essere e divenire, essenza ed esistenza, forma e materia, si riducono nello spazio di un’unità inscindibile e negano l’ordinamento dualistico della tradizione. Nietzsche porta così a compimento il proprio progetto di rovesciamento del platonismo. L’eterno ritorno dell’identico assolve al suo ruolo di contropensiero del contromovimento. Eppure, l’estinzione delle antitesi non fonda la preminenza della «vita»; il contrario: paradossalmente, pretendendo di inaugurare l’assoluta supremazia del divenire, Nietzsche «porta a compimento soltanto l’estrema conferma della potenza inconcussa dell’essere» (ivi, p. 387).

Conclusione: metafisica e nichilismo

Con l’identificazione della volontà di potenza e dell’eterno ritorno, la metafisica giunge al proprio compimento. La riconduzione della totalità dell’ente all’eterna presenza dell’attimo suggella il trionfo del progetto di padroneggiamento dell’insieme. La sussunzione dell’ente sotto il carattere dell’essere annienta anche l’ultimo alito di una risonanza dell’ἀλήθεια, e corrobora alla perfezione la verità metafisicamente concepita come adaequatio e certezza. Eppure, un ultimo colpo di coda di Heidegger rivela, in modo quasi parossistico, l’estrema contraddizione della metafisica; contraddizione che ne determina l’immediata trasvalutazione all’istante del proprio perfezionamento: si tratta dell’incapacità di dire l’ente pur quando assicurato, l’impossibilità di pensarlo quando fissato nell’attimo ed eternamente asservito.

La congiunzione delle due risposte originarie, quella di Parmenide e quella di Eraclito, porta alla chiusura del cerchio della metafisica; una chiusura che, compiendosi, impone l’impossibilità di continuare a rispondere sull’ente nella sua totalità: la verità, concepita come adeguazione, nella prospettiva dell’unitarietà dell’essere e del divenire, non può più darsi come mera correttezza ma solo come «fissazione a sostegno della dissoluzione» (ivi, p. 553), ossia come costitutivamente riferita al trascendimento continuo delle determinazioni nella «vita». Come se, al realizzarsi della commistione fra l’essere e il divenire, non solo quest’ultimo dovesse rinunciare a se stesso come indeterminato e indistinto in favore di un sé fissato nella sussistenza, ma anche l’essere dovesse andare in contro a una perdita del contenuto della verità per la necessità di istituire, come proprio eterno riferimento, il vuoto divenire e l’infinito trascendimento. Il desiderio di assicurare la sussistenza dell’ente si compie nell’istante del presente a cui tutto è ricondotto, ma la fissazione non coglie che l’essenza negativa e l’eterno differimento della temporalità assoluta. La verità dell’ente metafisico si dissolve nella presenza allorché quest’ultima viene «concepita di volta in volta nel suo ritornare»(ibid.).

Se […] la verità come correttezza […] è appianata come «adeguatezza alla vita» ed è così accantonata, allora l’essenza della verità ha perduto ogni sovranità. Non può più, nell’ambito della supremazia delle «prospettive» e degli «orizzonti» senza prospettiva (aussichtslos), cioè privi di apertura nella radura (lichtungsberaubt), diventare degna di un domandare che la cerchi.» (ivi, p. 554)

In altre parole, al compimento della metafisica e al ricongiungimento delle determinazioni essenziali dell’essere, tramontano le possibilità di conferire contenuto e valore al pensiero dell’ente. Non già perché l’ente non possa essere più pensato, ma perché esso dev’essere ora concepito come continuamente diveniente: così come il divenire dell’eterno ritorno dell’identico si assicura entro la sussistenza dell’essere in modo da fissarsi come stabile, la costituzione essenziale dell’ente che è la volontà di potenza deve accogliere l’istanza del divenire e la sua essenza trasmutativa; deve, cioè, rinunciare a ogni riferimento assiologico e darsi come puro conferimento di potere alla potenza. Della fissazione della sembianza non rimane allora che ciò che è gettato come compito, ossia l’assoluta volontà di fissare nella rinuncia all’informare. È l’«amor fati» (ivi, pp. 390): la necessità (fatum) dell’assoluto e incondizionato sussistere della volontà (amor) sotto cui ricade la totalità dell’ente e il suo sussistere. Allorché si ricongiunge al divenire attraverso il pensiero dell’eterno ritorno, la volontà di potenza si compie come pura volontà; volontà che vuole se stessa: volontà di volontà[8].

A questo punto, quando non è rimasta che la vita e si è fatta l’epoca della compiuta mancanza di senso, il nichilismo, ormai vinto, è giunto a costituire l’unico valore possibile. La metafisica, fondata sul progetto dell’assoluta dicibilità dell’ente, realizza se stessa quando lo nomina come nulla. La mancanza di senso diventa l’unico senso. Ma «in questa de-nominazione (Be-nennung) il «senza senso» vale già come concetto di quel pensiero che pensa la storia dell’essere e che si lascia alle spalle la metafisica nel suo insieme» (Heidegger 1994, p. 554). Proprio nell’attimo in cui si esplicita il carattere fondamentale della storia della metafisica, ossia la fondazione nichilistica dell’essere, quest’ultima conclude il proprio corso. Ciò a causa del fatto che la scoperta dell’essenza della metafisica impone al pensiero una coscienza del problema che rappresenta di per sé un passo in avanti rispetto alla consapevolezza propria delle soluzioni precedenti. L’accorgersi dell’oblio dell’essere sollecita l’assunzione di un paradigma che, sia pure embrionalmente, guarda alla totalità dell’ente in un modo diverso, fuori dall’oblio, e poiché lo sguardo obliato costituisce un’istanza essenziale perché vi sia metafisica, ciò implica già l’avvenire del suo superamento[9]. L’elaborazione della questione del nulla richiede che si domandi in un modo diverso, senza la necessità (tutta metafisica) del dire, bensì riconoscendo il valore del silenzio, «perché il taciuto è ciò che è autenticamente conservato e, in quanto più conservato, è ciò che è più prossimo e più reale» (ivi, p. 391).

Breve annotazione finale: le considerazioni che precedono descrivono il ruolo del pensiero dell’eterno ritorno all’interno della narrazione heideggeriana della storia della metafisica occidentale. Il pensiero dei pensieri di Nietzsche concede al filosofo di Meßkirch l’opportunità di predisporre il contesto per rivendicare personalmente la fondazione dell’evento per il superamento della metafisica. Come contropensiero del contromovimento al platonismo, l’eterno ritorno dell’uguale riesce nell’esacerbare l’orizzonte dei valori fino alla consunzione e, consequenzialmente, ad additare la via per la loro trasvalutazione. La reiterazione dell’identico costituisce il problema del nichilismo e contemporaneamente il mezzo per la sua risoluzione. Eppure, collocata all’interno del corso della storia, la dottrina nietzschiana assume un valore diverso: il progetto di superamento del platonismo giunge a compimento con l’indicazione di una risposta unitaria alla domanda sull’ente nel suo insieme; nell’unità di eterno ritorno e volontà di potenza si compie la destrutturazione dell’ente gerarchicamente concepito, ma l’impressione al divenire del carattere dell’essere impedisce l’avvento di un autentico superamento della metafisica. Quanto più Nietzsche intende rispondere alla leitfrage, tanto più egli acconsente alla necessità di pensare l’ente in quanto essente. Nella misura in cui si induce la «vita» a essere pensata, si accondiscende inavvertitamente al dettato metafisico. Posta all’interno di questo contesto, la trasvalutazione nietzschiana si rivela come una sussunzione del nulla nella sfera dei valori e un’assicurazione della metafisica compiuta nella sua malessenza.

Il presente saggio non ha inteso rivelare le criticità della lettura heideggeriana, anche in ragione del fatto che, considerata in se stessa e irrelatamente dal testo nietzschiano, questa gode indubbiamente di una forte coerenza: il pensiero di Nietzsche viene precompreso entro la traccia di una storia di cui lo stesso autore non ha coscienza, proprio nel grado in cui questi si muove entro un orizzonte non delimitato, ancora aperto alla possibilità di una chiusura. Ma che questa chiusura debba giungere con Nietzsche e per di più debba compiersi necessariamente, così da giustificare la svolta evenemenziale di Heidegger, è una considerazione che non può non destar sospetto. Non che sia in dubbio che il filosofo di Röcken intenda chiudere il ciclo della metafisica, quanto che questo implichi il dover significare la totalità dell’ente. L’argomentazione heideggeriana è certamente solida: la rivelazione di una correlazione fra la il diniego del soprasensibile e la necessità del dire appare effettivamente pervicace. Ciò a patto, tuttavia, di ignorare quella reticenza, quell’avversione per l’esprimere, che potenzialmente potrebbe affrancare dal dovere della significazione. Collocare il pensiero di Nietzsche sulla sommità – o «sul crinale»(Derrida 2013, p. 13) della metafisica potrebbe voler dire attribuirgli una sussistenza ulteriore che, forse, il filosofo tedesco non ha mai rivendicato. Heidegger riteneva che «finché non ci sforziamo, nonostante la frammentarietà, di trovare un ordine interno alla dottrina nietzschiana […], il suo dire rimane una congerie di intuizioni casuali e osservazioni arbitrarie […]» (Heidegger 1994, pp. 142-143). Egli legittimava il proprio intervento ordinativo sulla presunta invalidità del discorso di Nietzsche; invalidità estesa nella misura in cui questi si presenta scomposto, frazionato o inutilmente enigmatico. Affermazioni di questa natura, atte a giustificare l’esercizio di una certa violenza testuale, non possono che richiedere uno sforzo al lettore di Nietzsche. Tanto più che questi ben sa che v’è gioia nella conoscenza posto che si sappia almeno tacere abbastanza a lungo (Nietzsche 1984, p. 216).

Bibliografia

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[1] Varie sono le opere che ritraggono questo cambiamento. Tra tutte, il tentativo più sistematico di impostare il discorso dell’Ereignis trova luogo nei Contributi alla filosofia del 1936. L’opera rappresenta l’istanza in cui meglio sono descritte le modalità della svolta; tuttavia, altri scritti concorrono al progetto consegnando gli spazi di dispiegamento dell’essere come evento, cioè offrendo una panoramica dei luoghi in cui l’essere si manifesta storicamente. Vd. M. Heidegger 2007; cfr. D’Angelo 1992, pp. 217-246; Samonà 1990.

[2] Vd. Heidegger 19681, cap. III e IV; id., 1997. Per una trattazione sintetica cfr. Vattimo 19841, pp. 81-93.

[3] Interessante notare come l’interpretazione heideggeriana si allontani dall’originale dettato nietzschiano al punto da rovesciarne il contenuto. Se per Nietzsche l’eterno ritorno va pensato nei termini di una prova continua, da intendersi nel senso dell’esser costantemente chiamati ad affrontare vitalmente il ritorno dell’identico, per Heidegger la riduzione della totalità dell’essere sulla temporalità del presente sembra implicare la possibilità di proiettare la deliberazione data nell’attimo sull’eternità del tempo, ossia la possibilità di superare il nichilismo significando l’essere una volta per tutte. Per quanto il progetto heideggeriano non si sia ancora rivelato nella sua integrità, tale differenza costituisce nuovamente una prova di quanto liberamente Heidegger tenda a interpretare Nietzsche.

[4] Si tratta di una formula elaborata da Heidegger all’interno del capitolo La volontà di potenza come arte. La concezione del vero limitato alla linea distolta dall’essenza non è esclusivamente moderna, ma si dà già all’altezza di Platone: i significati originari di svelatezza e nascondimento propri della verità (ἀλήθεια) vengono dimenticati e riformulati nei termini di semplice conformità alla pensabilità dell’ente. Poiché l’essere viene ridotto alla «visibilità» dell’ente (ίδέα), la verità viene forzata a riflessione dell’oggetto nella proposizione adeguata al reale.

[5] È giusto notare come Heidegger non si esprima attraverso questi termini nel primo libro del Nietzsche, nonché nei suoi corsi universitari fino al 1939. Lo farà, tuttavia, a partire dal La sentenza di Nietzsche «Dio è morto». Cfr. Heidegger 19682.

[6] Questa rilettura della metafisica si colloca sulla scia di quella nietzschiana del Crepuscolo degli idoli. L’intento di Heidegger sembra essere quello di inglobare la narrazione degli eventi di Nietzsche entro la propria, così da rileggerla e rivalutarla. Il dualismo di sensibile e soprasensibile al centro della critica del pensatore di Röcken viene qui riproposto come prima fondamentale adeguazione alla struttura dualistica della domanda-guida. In quest’ottica sarà possibile comprendere la particolarità della posizione nietzschiana nella storia della filosofia senza esercitare eccessiva violenza sull’originale intento dell’autore. Cfr. Nietzsche 1964, pp. 75-76.

[7] È importante notare che sussiste una relazione fra la subordinazione della totalità dell’ente al dominio della pensabilità e il fatto che l’interrogazione proceda secondo il doppio riguardo del che e del che cosa. Infatti, la domanda-guida, formulata in questo rispetto, intende già pensare l’ente nel suo insieme cercando di comprendere nella risposta tanto l’aspetto diveniente dell’essere quanto quello essente. Poter dire il divenire è l’anelito fondante della metafisica fin dall’istante della formulazione della sua domanda-guida. Il compimento di questo progetto giunge proprio con la filosofia nietzschiana.

[8] Cfr. Polidori 1998, p. 111.

[9] L’attimo di additamento del nulla segna il passaggio dalla metafisica alla filosofia heideggeriana, quindi, nell’orizzonte di quest’ultima, l’istante dello svelamento dell’essere. Si tratta di una questione complessa di cui non è possibile trattare approfonditamente in questa sede. È un tema che rimane al centro del pensiero di Heidegger per lungo tempo, da prima ancora che la Kehre si delineasse al filosofo tedesco come tale (si noti, per esempio, la seconda considerazione inattuale in id. 1953, pp. 565-566). Per una trattazione generale che includa il confronto con Nietzsche cfr. Vattimo, 1963, cap. I.; id. 19841, pp. 93-97; id. 19842; o Volpi 1997, pp. 235-243.

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