Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Soffrire ha un senso?

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La sofferenza assurda dell’innocente con le sue ricadute nella letteratura e nella psicoanalisi è il tema che caratterizza la recente opera di Massimo Recalcati intitolata Il grido di Giobbe. Il tema è ricorrente e nel corso della storia ne sono state fornite varie spiegazioni, spesso ma non sempre giustificative.

Negli Scritti sul criticismo, nel saggio intitolato Sul fallimento di tutti i tentativi filosofici in teodicea, Kant si chiede come si possano conciliare il peccato, il male fisico e la non corrispondenza dei delitti e delle pene con la giustizia, la bontà e la saggezza di Dio nel conservare le sue creature. La soluzione che ne aveva dato Leibniz nei suoi Saggi di Teodicea evidentemente non lo soddisfaceva.

Dopo un procedimento che mette sotto accusa l’agire del Creatore, in ogni punto bilanciato da obiezioni che evidenziano l’inconsistenza dell’atto accusatorio, Kant ricorre proprio alla figura biblica di Giobbe che, caduto in disgrazia, solo e malato, grida con forza una verità che gli viene dal cuore, un porsi decisamente diverso dai suoi amici, saggi e sapienti di teologia. Questi si esprimono attraverso formule di un sapere consolidato, che fingono ipocritamente di aver compreso ma che in realtà rimangono loro esterne. La sincerità di Giobbe e il suo ardire, che non si fermano neanche di fronte a Dio, verranno alla fine ricompensati ed egli potrà finalmente conoscere qualcosa della saggezza del Creatore.

L’opera di Recalcati si sofferma su altri aspetti, anche se la descrizione della figura e dell’atteggiamento di Giobbe vengono a collimare per ciò che riguarda il dolore dell’uomo e la giustizia di Dio. Leggiamo (p. 25) «L’etimo del nome Giobbe (‘yyîôb) devira dall’unione di due parole ebraiche ‘ayyeh che significa “dove?” nella sua forma interrogativa e ‘ab che significa “padre”». Dov’è il padre? Nel nome è impresso quello che sarà il suo dramma, non tanto riguardo il padre biologico, di cui la bibbia non dice niente, quanto del Creatore, che sembra persistere nell’ignorarlo mentre lo perseguita.

Giobbe maledice la sua esistenza ma non maledice Dio, si rivolge a lui per chiedere la ragione delle sue disgrazie, vuole gridare la sua innocenza a chi si ostina in un assurdo silenzio.

Gli amici sapienti che vanno a fargli visita, più per compiangerlo che per confortarlo, parlano senza andare al cuore del problema. La teologia retributiva che pervade l’Antico Testamento è l’unica spiegazione che sanno dare, vale a dire: se c’è una sofferenza significa che c’è una colpa, una disobbedienza a Dio. Sul testo di Recalcati ( p. 48-49 ) come esempio vengono citati due passi del Deuteronomio, che qui riportiamo in forma ridotta: «Se tu obbedirai fedelmente alla voce del Signore tuo Dio, preoccupandoti di mettere in pratica tutti i suoi comandi che io ti prescrivo, il Signore tuo Dio ti metterà sopra tutte le nazioni della terra; perché tu avrai ascoltato la voce del Signore tuo Dio, verranno su di te e ti raggiungeranno tutte queste benedizioni: Sarai benedetto nella città e benedetto nella campagna» Dt 28, 1-3. Di contro vediamo che: «Se non obbedirai alla voce del Signore, tuo Dio, se non cercherai di eseguire tutti i suoi comandi e tutte le sue leggi che oggi io ti prescrivo, verranno su di te e ti colpiranno tutte queste maledizioni: sarai maledetto nella città e maledetto nella campagna» Dt 28, 15-16.

Eppure ancor prima del messaggio evangelico si possono ritrovare delle incrinature sul rapporto merito-premio e peccato-punizione. Il testo (p. 54) rimanda al Salmo 73 [72] 12-14 «Ecco, così sono i malvagi: sempre al sicuro ammassano ricchezze. Invano dunque ho conservato puro il mio cuore, e ho lavorato nell’innocenza delle mie mani! Perché sono colpito tutto il giorno e fin dal mattino sono castigato?». Ancora, nel Qoèlet 8,14 leggiamo: «Sulla terra c’è un’altra vanità: vi sono i giusti ai quali tocca la sorte meritata dai malvagi con le loro opere, e vi sono malvagi ai quali tocca la sorte meritata dai giusti con le loro opere».

Sul versante psicoanalitico il male, l’alterazione psico-fisica è vista come un messaggio cifrato da interpretare. Lacan in particolare «si spinge a identificare il sintomo con la figura linguistica della metafora: un significante – quello della sofferenza sintomatica – prende il posto di un significato rimosso – quello relativo alla verità inconscia del desiderio del soggetto che ha subìto il processo di rimozione» (p. 34).

La psicoanalisi recupera nella figura biblica di Giobbe il passaggio dalla condizione di sofferenza alla necessità di sapere, di decifrare il perché. Ma il suo dramma va oltre quanto la psicoanalisi può dire. La sofferenza, comunque la si voglia chiamare, se costituisce certamente un sintomo, non è solo questo. C’è un dolore silente che non può trovare risposta, come alla fine non trova risposta nell’ordine dell’intelletto la domanda fondamentale di Giobbe. L’imperscrutabilità della volontà divina o l’opacità di certi aspetti della natura rendono vana tale richiesta. Ma Dio gli si fa presente e finalmente parla; la presenza dell’Altro, prima ostinatamente assente, soddisfa il desiderio, il bisogno fondamentale di Giobbe.

Quale atteggiamento allora di fronte all’esperienza umana del dolore e della separazione? Il testo di Recalcati accenna a padre Paneloux, il gesuita che ne La peste di Camus, nella sua omelia all’inizio del manifestarsi del morbo, parla di castigo divino per le mancanze degli uomini. Poi l’epidemia dilaga e le sofferenze si moltiplicano senza far distinzione fra buoni e malvagi, il piccolo figlio del giudice Othon muore tra atroci sofferenze. In una seconda omelia il suo pensiero è cambiato e dice che la peste è un male senza ragione che colpisce il malvagio quanto l’innocente; “sfiora l’eresia”, dice Recalcati, immedesimandosi nelle parole del dott. Rieux, medico in prima linea nella lotta contro il morbo, presente alla predica. 

Che fare allora, si chiede Paneloux? Non fuggire, come era successo ad alcuni religiosi un secolo prima, durante una pestilenza che aveva funestato Marsiglia, ma restare accanto a chi è colpito dal male. «Mes frères, il faut être celui qui reste!» (A.Camus, La peste, Gallimard, Paris 1999 p. 206)  cosa che lui aveva sempre fatto e che continuerà a fare fino a quando anch’egli sarà colto dalla peste o da qualcosa di simile che porterà a scrivere sul certificato di morte: «Cas douteux» (Ibi, p. 211).

Nel periodo pandemico che stiamo vivendo ci sono tanti Paneloux e tanti Rieux che rimangono al loro posto accanto a chi è nella sofferenza operando come possono anche a rischio della loro vita.

BIBLIOGRAFIA

A.Camus, La peste, Gallimard, Paris 1999

I. Kant, Scritti sul criticismo, Laterza, Bari 1991

M. Recalcati, Il grido di Giobbe, Giulio Einaudi Editore, Torino 2021

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