
La chiave di ogni contenuto artistico (…) sta nella sua tecnica.
T. W. Adorno
Per comprendere veramente un’opera d’arte è necessario avvicinarla con l’occhio del filosofo e il cuore del poeta, affinché il “di più”, ossia lo spirituale, prodotto dalla configurazione dei suoi elementi materiali/sensibili, si esteriorizzi ed inizi a brillare.
Che cosa ne pensa del nostro regista Federico Fellini? “Egli danza… Egli danza, ecco”… Con queste parole poetiche nel film La ricotta, Pier Paolo Pasolini, per bocca di Orson Welles, che interpreta il pensiero del regista del Decamerone, descrive il cinema di Fellini. Questa definizione, a ben vedere, è così carica di significati che, per chiunque voglia avvicinarsi all’opera di Fellini con sguardo esegetico, risulterebbe opportuno tenerla in considerazione. È da sottolineare, già da subito, come Pasolini nel descrivere il cinema felliniano non si limiti ad una esposizione teorica, ma, al contrario, rimandi immediatamente a un mondo come quello della danza che investe vasti territori di significato che esulano proprio dalla sfera del pensiero raziocinante. Come non ricordare, a proposito, le magnifiche sequenze di Otto e ½, dove il tema della danza sembra predominante: la scena delle Terme e il voluttuoso ballo della Saraghina ne sono testimonianza, fino ad Amarcord, in cui tale dimensione estetico-artistica risulta davvero centrale. Insomma, l’intera filmografia di Fellini è costellata da tale elemento vitale, che assume un ruolo significativo quasi in ogni rappresentazione.
Nessuna definizione tecnico-formale quindi, ma una caratterizzazione di tipo impressionistico è quella che il poeta/regista Pasolini dà a proposito del cinema felliniano.
Perché è proprio la dimensione della vita che l’opera di Federico Fellini cerca di illuminare dal proprio interno, portando alla luce una stupenda varietà di situazioni, eventi e circostanze. E non è forse vero che sia Fellini che Pasolini sembravano consapevoli del fatto che la vita, nel suo aspetto creativo e diveniente, non può essere ridotta al pensiero logico/formale?
Credo sia producente per l’interpretazione del film in questione che ne dà Pasolini cercare di seguire tale chiave di lettura. Tutto il cinema felliniano, d’altronde, tende a presentare e a produrre la dimensione dionisiaca dell’esistenza. È la dionisiaca la dimensione che, trascendendo l’ordine schematizzante del pensiero formale, pone l’accento sugli aspetti vitalistici e sensuali, ancora prima di ogni caratterizzazione e di ogni classificazione logica della realtà vigente. Ciò non significa, a parer mio, che il cinema felliniano non faccia riflettere, ma, al contrario, che le riflessioni che tale “poetica” induce risultano più profonde, maggiormente cariche di senso, perché provocate e prodotte da una visione del mondo estetica (dionisiaca) e non logico-riflessiva (teoretica). Sicché il cinema di Fellini colpisce e fa riflettere: ogni film, del grande regista romagnolo, sembra nutrirsi della modalità espressiva che rimanda alla dimensione del pathos, così determinante e presente, da venir messa in forma/opera in continuazione.
Per riprendere una famosa e pertinente frase di Nietzsche, valida sostanzialmente anche per il regista italiano premio Oscar, della “Nascita della tragedia”: “Sempre Dioniso si scarica in un mondo apollineo di immagini”, sottolineo come ogni opera d’arte riuscita, secondo il giovane filologo di Basilea, dovrebbe essere in grado, in virtù della forma estetica apollinea, di manifestare gli impulsi vitali, senza mai esaurirsi o cristallizzarsi – come soltanto le grandi opere d’arte “sanno fare” – in una forma definita/immodificabile. E non è forse vero che Dioniso essendo il dio della musica si presta naturalmente alla dimensione della danza?
D’altronde, è la dimensione della danza e della vita – che Pasolini citava con intuito – che risulta presente in ogni creazione artistica delle opere di Fellini. Ecco perché Fellini, seguendo la lettura estetica di Nietzsche, con il suo cinema dionisiaco può essere annoverato, tout court, tra i maggiori artisti della sua epoca.
Al cospetto dell’irrigidimento del cinema durante il Dopoguerra, a causa della sclerosi verificatasi tra la “poetica” Neorealista e quella dirompente di Hollywood, caratterizzata, al contrario della prima, dal fantasmagorico apparato tecnologico/industriale, viene alla luce, negli anni che vanno dal 1945, risalenti alle prime collaborazioni con il già affermato Rossellini (Roma città aperta e Paisà), fino al 1990, allorquando prende forma il suo ultimo film: La voce della luna, il cinema peculiare di Federico Fellini.
Si è soliti, da parte della critica cinematografica, dividere l’oeuvre felliniana in un due grandi blocchi contrapposti, quello delle prime opere come Lo sceicco bianco, I vitelloni, La strada, Il bidone, Le notti di Cabiria, fino alla Dolce vita, che per alcuni aspetti compositivi rappresenta uno spartiacque; il secondo, invece, che va da Otto e ½, Il satyricon, Amarcord, fino a La voce della Luna, film questi caratterizzati, diversamente dei primi, da una nuova tecnica formale. Gli studi sull’inconscio di Jung e la frequentazione con lo psicologo junghiano Bernhard, il quale fornisce a Federico Fellini una chiave di lettura dei meccanismi della psiche che egli utilizzerà per la realizzazione dei suoi successivi lavori cinematografici, risultano davvero due eventi determinanti nella vita del regista, che sancirono, a ben vedere, lo spartiacque tra il primo e il secondo periodo.
È senz’altro vero che, nell’universo multiforme del cinema, Fellini è stato un pioniere dell’esplorazione di tecniche e stili audaci e differenti, come, d’altronde, Picasso lo è stato per la pittura moderna. Tutto ciò non deve però stupire, dal momento che i grandi geni, pur occupandosi di “materie” differenti, risultano accomunati dal preponderante intuito
creativo, che li distingue al cospetto degli uomini comuni.
Nei suoi primi film Fellini, dunque, ancora inesperto e acerbo, è tutto proteso nel raccontare storie e personaggi ben definiti, che ritraggono e descrivono la situazione storico-sociale della rinascente Italia del Dopoguerra. È nell’universo della rappresentazione e della descrizione di situazioni e caratteri reali che le sue prime opere, fortemente influenzate dal Neorealismo e dai maestri che hanno accompagnato la sua formazione giovanile, come Alberto Lattuada e Carlo Lizzani, vedono la luce. Ed in questo aspetto Fellini non risulta, a ben vedere, più originale di tanti altri suoi colleghi che occupavano posizioni di rilievo nel cinema italiano dell’epoca.
Il film che inizia a segnare invece una svolta, per ciò che concerne la tecnica compositiva, è sicuramente: La dolce vita. Nonostante quest’opera presenti ancora una storia narrata in terza persona, alcuni elementi fanno già presagire l’incombente avanzare di una svolta a livello sia formale sia contenutistico – E non è d’altronde, come teorizza, magistralmente, Adorno nella sua ultima opera, la forma artistica contenuto sedimentato? – , che si delineerà con evidenza solamente con Otto e ½, ossia: la frammentarietà e la episodicità della sequenza filmica.
Gli episodi presenti in questo film, infatti, – tale è l’elemento della svolta formale – non sono più legati alla descrizione logico-narrativa degli eventi, non tendono più a seguire, come nei film precedenti, un ordine logico e cronologico, ma, invece, si limitano, per mezzo di una tecnica innovativa, a testimoniare la frammentarietà dell’esistenza. Più che la ricerca e la descrizione sintetica ed armonica del reale, qui, Fellini, inizia a esplorare i limiti della rappresentazione, concentrandosi piuttosto sugli elementi disarmonici e caotici del narrato.
Al lettore/spettatore, infatti, viene affidato il compito di ricostruire, come in un grande puzzle, i pezzi della vicenda presentata. E davvero questi risultano, ad uno sguardo esegetico, quegli elementi rivoluzionari che aprono la strada alla grande svolta formale di Otto e ½. Senza tenere conto dei due aspetti fondamentali che s’incrociano a vicenda – la scoperta della psicologia junghiana e le nuove tecniche compositive utilizzate per la prima volta nella Dolce vita – non si comprenderebbe appieno e la gestazione e la formazione (ideazione e sceneggiatura con la collaborazione di Ennio Flaiano) di un film, rivoluzionario, come Otto e ½. Prima di iniziare a scrivere circa questo film, vorrei proporre un paragone che io mi figuro da qualche tempo nella mente a proposito di Otto e ½ di Fellini. Si tratta di un confronto iperbolico – ne sono consapevole – eppure merita, a parer mio, di venire alla luce. Otto e ½ rappresenta per l’arte contemporanea ciò che il David di Michelangelo ha rappresentato per l’arte del Rinascimento, ossia il proprio Magnificat, il suo Capolavoro. Risulta difficile, invece, operare paragoni con altri film, nonostante il fatto che le
sperimentazioni formali delle tecniche di Fellini furono precedute già da altri tentativi cinematografici, come quelli di Ingmar Bergman e Alain Resnais: il primo con Il posto delle fragole e l’altro con Hiroshima mon amour. Per correttezza va sottolineato, con rigore, che già Bergman e Resnais, prima di Fellini, avevano sperimentato tecniche formali innovative per l’epoca. Però, a parer mio, allo stesso modo in cui Galileo non inventò le lenti, limitandosi
soltanto a perfezionare il cannocchiale per fini scientifici, rendendolo tuttavia strumento necessario per l’astronomia, così Fellini, pur trovandosi al cospetto di nuove tecniche formali ha saputo, come nessun altro prima di lui, perfezionarle e renderle immortali. Fellini merita davvero, al cospetto dei suoi capolavori, le migliori e le più riguardevoli considerazioni da parte della critica cinematografica di ogni tempo. Otto e mezzo di Fellini è un’opera
universale. Dopo aver dato uno sguardo d’insieme al cinema felliniano, possiamo addentrarci ora all’esame del suo film maggiormente riuscito.
Non bisogna tuttavia cadere nell’errore di pensare a tre temi separati tra loro, al contrario, bisogna leggerli, se si vuole ottenere uno sguardo esegetico d’insieme, come se fossero tra loro complementari, come in un crescendo musicale in cui ciò che viene prima non esclude quel che viene dopo, ma lo incrementa e lo completa. La portata che ha per Fellini la scoperta della psicologia di Jung, grazie alla frequentazione dello psicologo Ernest Bernhard, ha del sensazionale. Tutti i suoi film: da Otto e ½ in avanti ne risultano influenzati.
Con la scoperta dell’inconscio, similmente a quei marinai che approdano d’improvviso su isole sconosciute, Federico Fellini sperimenta tecniche e linguaggi ignorati in precedenza. Potremmo anche dire, con un paragone astronomico, che la scoperta dell’inconscio rappresenta per la filmografia felliniana ciò che la scoperta dell’eliocentrismo di Copernico rappresenta per la Rivoluzione astronomica, ossia: un cambiamento radicale e definitivo.
Sicché, a ben vedere, Otto e ½ nasce e risente, in nuce, di queste scoperte psicologiche. È Fellini stesso che sottolinea l’importanza di questa nuova inclinazione: – “ È stato come l’aprirsi di panorami sconosciuti, la scoperta di nuove prospettive da cui guardare la vita, la possibilità di fruire delle sue esperienze in modo più coraggioso, più vasto, di recuperare tante energie e tanti materiali sepolti sotto macerie di timori, inconsapevolezze, ferite trascurate (F.
Fellini, 1980, pag, 82).
Infatti, della psicologia junghiana lo attrae la considerazione che lo psicologo dà all’universo della fantasia creatrice dell’artista, in particolar modo il concetto del simbolo. A differenza che in Freud tuttavia, dove il simbolo è visto come un sostituto di qualcosa d’altro che è soggetto a rimozione e che non è possibile esprimere, per Jung, invece, il simbolo è un modo per manifestare e mettere in forma l’inesprimibile, seppur mediatamente.
Alla luce di questa acquisizioni teoriche e formali, conseguentemente, Fellini modifica il suo linguaggio cinematografico. Non più, quindi, una tecnica che tende alla razionalità e alla logicità, alla descrizione ordinata e consequenziale di storie ed eventi, per quanto realistici e dolorosi questi possano apparire, come nel cinema del Neorealismo, ma la flessione verso linguaggi e tecniche legate all’inconscio, come quelle della condensazione e del dislocamento delle immagini in altri contesti non sempre logicamente pertinenti.
Tutto il film Otto e ½ è pensato alla luce di nuove tecniche, al punto che Fellini rinuncia definitivamente ad ogni pretesa di descrizione e di oggettivizzazione del reale. Perché Otto e ½ è il film meglio riuscito di Fellini? Perché a differenza dei film successivi in cui l’elemento della psicologia predomina – si può parlare di un’ipertrofia dell’inconscio – sulla forma dando vita a una surreale visione del mondo: come in Giulietta degli spiriti e Il satyricon; in
Otto e ½, invece, questo processo non si verifica.
Pur essendosi lasciato alle spalle il cinema organico della rappresentazione, in Otto e ½ Fellini sembra giocare ancora con l’elemento della psicologia, senza che essa risulti possedere tuttavia un predominio schiacciante sulla forma. Ed è il gioco artistico dell’elemento psicologico con gli elementi sensibili e materiali, senza che l’uno prevalga sull’altro, che affascina e stupisce nell’opera e che la rende unica all’interno della filmografia felliniana.
Veniamo ora al problema centrale della forma: il tema che per eccellenza si presta a riflessioni e considerazioni. Va fatto, innanzitutto, per capire il senso del presente discorso, un distinguo tra l’opera d’arte organica e quella non organica. Mentre l’opera d’arte organica, secondo le riflessioni di T.W. Adorno, cerca di nascondere e di occultare il suo essere stata creata, dando così un’idea di serenità e di conciliazione con il mondo (arte tradizionale del Rinascimento); l’opera inorganica (arte contemporanea), invece, quella che non è più creata come una totalità compatta e omogenea, mostra il suo essere prodotta da frammenti occasionali. La prima, dunque, cerca, nel nome della bellezza, di occultare gli aspetti caotici dell’esistenza, operando una sorta di falsa conciliazione; l’altra, invece, mostra come ogni sintesi tra l’arte e il mondo risulta una finzione ed un inganno.
Perché bisogna prestare la massima attenzione a Otto e ½? Perché il film, grazie all’uso innovativo della forma, sancisce, per la “poetica” felliniana, il passaggio dalle opere organiche della giovinezza a quello inorganiche della maturità, dal momento che, in queste ultime, né il tema della rappresentazione di una storia coerente né l’elemento della psicologia dominano sulla forma. È bellissimo constatare, dunque, come il microcosmo del cinema felliniano riesca, magistralmente, a farsi specchio del macrocosmo artistico contemporaneo. Credo che questo sia un merito ulteriore da attribuire al grande artista romagnolo. Guido Anselmi, il regista e protagonista, si è scoperto in crisi proprio nel momento in cui avrebbe dovuto iniziare il suo nuovo film. Recatosi in cura alle terme è circondato dalla
miriade di personaggi che ignorano il loro ruolo e che chiedono costantemente informazioni e delucidazioni al regista, il quale però non è in grado di accontentarli in tal senso, dal momento che non sa egli stesso quale sia la storia che vuole narrare.
In realtà, a ben vedere, non sembra esserci nessuna storia, anche l’acclamato e famoso Anselmi ne è cosciente. Tutto il film si muove sul sottile equilibrio, ossia: dalla consapevolezza dell’incapacità di poter raccontare e della constatazione della difficoltà di riuscire a mettere in forma un’opera che il regista non è in grado di realizzare, a causa della crisi d’ispirazione che lo condiziona.
Da una parte il consigliere del regista: l’erudito e antipatico Daumier, il quale rappresenta la coscienza critica e la sfera logico-razionale del regista; dall’altra, il produttore del film, che già ha investito i soldi per la costruzione di un’enorme rampa di lancio, pensata per la fantasmagorica storia che l’Anselmi dovrebbe scrivere e filmare. Dunque, Otto e ½ prende forma proprio su questo fragile terreno, sul crocevia della regressione all’opera realistica (incarnata dalla coscienza critica di Daumier) o all’approdo al cinema di finzione hollywoodiano (incarnata dal facoltoso produttore); è tra questi due indirizzi cinematografici, evidentemente, che si colloca il film di Fellini, sospeso come nuvola tra cielo e terra.
In realtà, ciò che caratterizza il film è il fatto che Fellini nell’opera non ha nulla da raccontare. Qui non si tratta di descrivere oggettivamente il mondo circostante – per questo c’è la scienza e non serve l’arte – ma invece, nella dimensione artistica, occorre esibire, piuttosto, il processo di formazione di un’opera: cosa questa che, a causa della regressione degli elementi sensibili/artistici, per l’artista moderno è divenuta quasi tabù.
Ecco perché il film merita un’attenzione particolare: giacché esso mostra il processo con cui è stato ideato, e proprio nell’esibire magistralmente la caoticità della mente del regista (dubbi, tentennamenti, impossibilità), ci testimonia anche la frammentarietà e la mancanza di un Ordine e di un Senso dominante nell’esistenza caotica e nichilista. Solo allorquando verso la fine del film l’Anselmi si dirige disperato alla rampa di lancio per l’inizio delle riprese, consapevole di non possedere alcuna storia da raccontare e di essere egli stesso finito come regista, scocca la scintilla. Preso atto di tale fallimento, qualcosa improvvisamente cambia l’ordine degli eventi. Proprio nell’istante in cui Guido Anselmi si sta allontanando, mentre l’enorme torre viene smantellata, appare il telepata Maurice, il quale gli annuncia che tutti gli altri personaggi dell’eventuale film lo stanno aspettando, poiché attendono l’inizio delle riprese. Presi per mano dal regista divenuto bambino, che suona il flauto, alcuni attori danzano in un aia circolare. A questo punto, gli attori compaiono sulla scena, i personaggi del film, che hanno costellato la mente del regista, durante il suo buio periodo, danno vita a un girotondo al quale anche l’Anselmi partecipa. Il tutto sublimato dalla bellissima colonna sonora di Nino Rota: suggestiva, toccante e raffinata.
Nessun film realistico dunque, nemmeno uno di fantascienza, ma un film più innovativo e profondo, quello sui dubbi dell’artista e sulle condizioni di possibilità dell’arte nei tempi moderni è quello che Fellini ci propone con Otto e mezzo. Stupisce, infatti, che a chiudere il film sia proprio un piccolo cerchio di luce, che con il suo splendore dà vita e speranza ad un mondo ormai dominato dal disincanto. Dobbiamo tornare ancora sul problema della forma artistica usata in Otto e ½ da Fellini. È necessario spendere qualche ulteriore parola sul rapporto tra il cinema di rappresentazione e quello dominato dall’industria culturale. Abbiamo già sottolineato come nel mezzo delle due tendenze si situi il film di Fellini. Da una parte, dunque, il mondo della rappresentazione e il suo cinema descrittivo, in cui vige un rapporto diretto, di causa e effetto, tra l’arte e la società: dove l’arte si trova a recitare la parte di ancilla nei confronti delle vicende degli uomini. Dall’altra, l’universo fantasmagorico dell’industria culturale, che, rappresentando mondi altri rispetto al nostro, si limita a fare da consolazione a quello vigente per il semplice fatto di ignorare la dimensione critica che l’arte dovrebbe presentare (negazione determinata della società): trascurando, in tal modo, di illuminare, solo come la vera arte sa fare, le crepe e gli abissi” aperti dalla società moderna. Tra i due universi paralleli, a ben vedere, si situa Otto e ½, che, con la sua forma artistica peculiare, ci fa riflettere e ci invita alla partecipazione. Ciò che mi interessa, a questo punto, sottolineare, è la migrazione dei conflitti e delle tensioni sociali dell’epoca all’interno di Otto e ½, giacché le trasformazioni della tecnica artistica implicano necessariamente anche delle metamorfosi dei contenuti sociali. Su questi aspetti lavorarono sorprendentemente Fellini e Flaiano. Sono quei cambiamenti, secondo Adorno, che fanno sì che gli artisti, formalmente avanzati, abbandonino le forme tradizionali; solo in tal modo, infatti, sostiene il filosofo della scuola di Francoforte, l’arte, attraverso una forma lavorata, smembrata e destrutturata, testimonia la frammentarietà dell’esistenza e la falsità della società in cui viviamo.
Alla luce di tali riflessioni estetiche, a parer mio, il cinema di Fellini risulta più avanguardistico e moderno di artisti che si dichiarano tali e che tuttavia, a causa della loro tecnica, non lo sono. Ma quali sono le nuove tecniche artistiche con cui Otto e ½ è stato composto? La tecnica drammaturgica adoperata da Fellini per esprimere il travaglio creativo
del regista è quella, ripresa dalla letteratura, dello stream of consciousness, in cui Fellini, in uno slancio di creatività, assomma realtà, sogni e finzioni senza soluzione di continuità. Una tecnica formale quella del regista romagnolo che tende a esibire pensieri, fantasie e sogni in un libero flusso di coscienza. Inoltre, Fellini non utilizza questa tecnica solo per la descrizione di sogni e fantasie ma anche per l’esibizione di situazioni della realtà quotidiana, provocando
una sensazione di estraniamento e di dislocazione a l’occhio del fruitore che la contempla. Più specificamente, le innovazioni sono: simbologie scenografiche, deformazioni cromatiche, luci di taglio che trasformano ogni spazio in palcoscenico, costruzioni angolari anomale e obiettivi grandangolari.
Fellini viene situato tra i maggiori registi del cinema mondiale di tutti i tempi soprattutto per il talento con cui utilizza la tecnica artistica. Queste sperimentazioni formali investono anche un altro aspetto centrale del film in questione, ossia: la memoria involontaria. Quest’ultima viene ripresa da Fellini, con un accento e una modalità innovativa, diversi da Proust. Mentre per Proust la memoria involontaria viene suscitata da un fatto, evento, pensiero o sentimento legato all’esperienza, che fa riemergere improvvisamente un ricordo custodito e trattenuto nel profondo, per Fellini la memoria involontaria, invece, non è suscitata immediatamente dall’esterno (vita), ma, viene alla luce dal cortocircuito tra i fatti, condensati nell’inconscio del regista, e la tecnica cinematografica che usa. Qui torna in gioco la tecnica cinematografica. Sono, infatti, le simbologie scenografiche, il dislocamento di immagini improvvise, le costruzioni angolari anomale e la condensazioni di significati che danno forma alla memoria involontaria, non le sensazioni suscitate dall’esperienza, come avviene nel caso dello scrittore francese. Vivide nella mente restano, in tal senso, riguardo a Otto e ½, le scene del dialogo con i genitori morti del regista; il ballo della Saraghina e soprattutto la scena con il telepata Maurice e la sua aiutante che pronuncia le famose parole: “asi nisi masa”, provocando nel regista una serie di ricordi dell’infanzia, legati alla vita familiare e ai teneri giochi infantili nella fattoria della nonna attorniato dai cugini.
Come sottolineato da Christian Metz (Roberto Provenzano, Invito al cinema di Fellini, edito da Mursia, nel 1995), infine, in Otto e ½ Fellini costruisce il suo film en abîme – nelle profondità della psiche – , in cui comportamenti e immagini agiscono come specchi contrapposti. Si è parlato, pertanto, di un film metalinguistico e metanarrativo in cui i problemi del protagonista sono gli stessi problemi di Fellini, dove l’arte, mostrando se stessa come produzione, attrae al proprio interno elementi vitali, senza che questi si esauriscono in una rappresentazione realistica dell’esistente. Ed è questa insuperata dialettica – dialettica negativa, appunto – tra la vita e la forma artistica che fa di Otto e ½ un’opera riuscita al massimo grado.
Bibliografia
Roberto Provenzano, Invito al cinema di Fellini, Mursia, 1995.
Giuseppe Di Giacomo e Claudio Zambianchi, Alle origini dell’opera d’arte contemporanea, Laterza, 2008.