Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Martha Nussbaum, La Monarchia della paura. Considerazioni sulla crisi politica attuale, Il Mulino, Bologna, 2020, pp. 218.

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Le società moderna sembrano attraversate da un sentimento antico ma potente, ovvero la paura, che blocca la deliberazione razionale, spingendo i decisori politici a mandare ad effetto non azioni giuste, ma azioni emotive. Questo è vero in misura maggiore negli Stati Uniti, ma è una condizione che accomuna questi ultimi a tutte le principali democrazie occidentali, sino a prefigurare una vera e propria monarchia fondata non più sulla ragione capace di discernere il giusto dall’ingiusto, ma su una ragione ottenebrata dal tarlo oscuro della paura.

Questa emozione antica è collegata alla vita evolutiva degli esseri umani, e, più precisamente, segna sin dall’inizio, l’esistenza concreta dei singoli. La condizione di estrema vulnerabilità evolutiva è segnata dalla paura, ovvero dal dolore fisico di non poter ricevere ciò di cui si necessita. In genere, si sopravvive a questa condizione, ma la paura persiste e contamina tutte le altre emozioni umane, intaccando in modo particolare «l’amore e la reciprocità» (p. 31). E questo può essere un problema se poniamo mente al fatto che la politica comincia quando iniziamo noi, ovvero quando, esistendo, scontiamo la nostra strutturale vulnerabilità, e, dunque, esperiamo la paura dal momento che, non essendo autonomi, dipendiamo dall’esterno che «non controlliamo completamente» (p. 34). E una volta adulti questa emozione antica resta latente, anche sotto la coltre rassicurante della «superficie cosciente della mente» (p. 35). In genere, non vi pensiamo oppure ci sforziamo di reprimerla, ma la paura rimane sempre presente dal momento che si lega alla nostra costituzionale condizione di mancanza e di dipendenza da ciò che ci circonda. Ma pur essendo la più primitiva delle emozioni umane, è anche profondamente anti-politica, o, per meglio dire, «asociale» (p. 38). Quando proviamo compassione o empatia, ad esempio, ci interessiamo a ciò che sta succedendo ad altri e a ciò che lo sta provocando. Ma quando abbiamo paura ci concentriamo esclusivamente su noi stessi. La paura è, per sua natura, «narcisistica» (p. 38) perché allontana da sé qualsiasi pensiero dell’altro. La paura non consente di considerare gli altri fini delle nostre azioni, ma mezzi per il nostro soddisfacimento. La paura, allora, strumentalizza gli altri per assecondare un bisogno narcisistico di controllo di terzi.

Nella stessa psicologia, peraltro, si ravvisa come la storia evolutiva dei soggetti umani sofistichizzi il sentimento della paura facendolo evolvere da espressione di mancanze materiali per la propria sussistenza a timore per la propria sopravvivenza. La paura è anche paura della morte (p. 47). Tuttavia, mentre le fantasie possono pure non avere attinenza con la realtà, le emozioni sono sempre reali. Di conseguenza, la paura può anche avere degli oggetti fittizi cui riferirsi, ma essa è sempre viva, reale ed importante per il soggetto umano. Ad oggi, la paura «ci fa desiderare di evitare i disastri» (p. 50), ma «non ci dice come» (p. 50). La paura è sicuramente cieca, ed altrettanto certamente ci rende ciechi; avvertiamo solamente «una minaccia imminente per il nostro benessere» (p. 51), che può anche non essere realistica, ma di sicuro è reale per chi la sperimenta. Su questa emozione, dunque, possono costruire le proprie fortune i demagoghi o i professionisti della paura, aizzando le folle contro un nemico che attenti al loro benessere attuale.

Le democrazie appaiono particolarmente esposte alla contaminazione della paura; in modo particolare, per la loro natura di luogo ove si dibattono le opposte opzioni politiche e l’uditorio ascolta con le orecchie ma comprende con il cuore. Accadeva nelle democrazie antiche, accade anche oggi. Basti pensare alle catene delle fake news che non solo avvelenano i pozzi ed inquinano lo spazio pubblico di elaborazione delle scelte comuni, ma frammentano il corpo sociale in gruppi chiusi, ciechi ed incapaci di provare empatia o di riconoscere il bene comune. La paura è un nemico della democrazia perché ci rende ciechi e ci separa dagli altri, inducendoci a ripiegarci solo su noi stessi. E, una volta esseri umani adulti, questo accade anche in tempi di benessere economico o di pace. La «paura è monarchica, mentre la reciprocità democratica è un risultato conquistato a fatica» (p. 63). In altri termini, la paura è sempre pronta ad intaccare la nostra appartenenza ad un corpo sociale unico, destabilizzando la democrazia la quale, all’esatto contrario, «richiede a tutti noi di limitare il nostro narcisismo e di abbracciare la reciprocità» (p. 65). Pertanto, diventa anche piuttosto facile prestare ascolto e fare affidamento su quanto ci propinano i mentitori piuttosto che conservare l’unità sociale. Molto spesso, infatti, si finisce con il preferire il «conforto di un leader che dà […] una sensazione di sicurezza simile al grembo materno» (p 65). Ma è interessante la dinamica generata dalla paura e che è indipendente da questa ricerca della stessa dipendenza e dello stesso accudimento delle cure infantili. La paura spinge chi la prova ad incolpare terzi del «dolore causato dalla paura» (p. 65).

L’America oggi è un paese arrabbiato, ma non sono solamente le moderne democrazie ad avere un problema con l’ira, lo avevano anche le democrazie greche. In Eschilo, ad esempio, le Erinni si trasformano in Eumenidi, raffigurando simbolicamente il passaggio da una società fondata sull’ira vendicativa ad una società basata sulla giustizia. E tuttavia le cronache storiche e le raccolte dei retori antichi ci mostrano le medesime dinamiche che possiamo osservare ancora oggi, vale a dire «individui che litigano ossessivamente con persone a cui danno la colpa di averli lesi» (p. 70), «gruppi che accusano altri gruppi di averli esclusi dal potere» (p. 70), «cittadini che incolpano politici di spicco e altre élite di aver svenduto i valori più cari della democrazia» (p. 70), « altri che accusano gli stranieri, o persino le donne, per i loro problemi politici e personali» (p. 70). Nulla di nuovo sotto il sole. La rabbia era nota ai greci e ai romani ed «era carica di paura per la vulnerabilità umana» (p. 70). E sempre per i greci e i romani, «l’ira è un veleno per la politica democratica» (p. 71) perché può fuorviarci oppure perché ci fa confondere sull’importanza di un valore particolare o anche perché erroneamente confidiamo in effetti retribuitivi o riparatori. Questi errori inquinano la vita politica perché ci imbattiamo nel resoconto sbagliato su chi ha fatto cosa oppure incolpiamo individui e gruppi per un grave problema di natura sistemica che essi non possono aver causato oppure ancora sopravvalutiamo i torti insignificanti proprio mentre sottovalutiamo quelli importanti. Siamo in qualche misura ossessionati dal nostro status relativo e crediamo che la vendetta risolverà i problemi creati dal torto originario, «anche se non è vero» (p. 82). Nelle fiabe, ad esempio, questa dinamica è ben rappresentata. Infatti, quando il cattivo viene ucciso, «il mondo non ha più problemi» (p. 83). La rappresentazione ipersemplificata della realtà non risolve i problemi complessi e non lineari del mondo, ma ci offre soluzioni attraenti e semplici. La giustizia non è vendetta. È possibile tenere assieme la risoluta condanna dell’ingiustizia e tenere al bando ogni vendetta? Per Nussbaum, rifacendosi all’esempio di Martin Luther King certamente sì! Infatti, in luogo della fiabesca retribuzione, o compensazione per i torti patiti, le persone «hanno bisogno di speranza e di fede nella possibilità della giustizia» (p. 87). Eschilo e King, nonostante il vuoto temporale che li separa, sembrano dire la stessa cosa, ovvero che «la democrazia deve rinunciare al concetto vuoto e distruttivo di rivalsa e dirigersi verso un futuro di giustizia legale di benessere umano» (p. 90).

Il modello antropologico, così come quello evolutivo, comunque, non nasconde la reale dimensione degli esseri umani che non sono affatto degli esseri speciali, ma «semplicemente esseri umani» (p. 93), i quali, pur vivendo all’interno di sistemi politici che non esitiamo a riconoscere come democratici, sono «inclini a tutte le debolezze» (p. 93) cui mettono capo la paura e la difensiva acritica. Tendenze e dinamiche perfettamente naturali che, però, ogni sistema democratico dovrebbe contenere. Per Nussbaum, il caso americano è emblematico di sistema democratico esposto alle dinamiche perverse e pericolose del meccanismo della paura. Infatti, esso «ha un brutto passato» (p. 93) caratterizzato da fenomeni strutturali di esclusione «basata sulla razza, sul genere, sull’orientamento sessuale, sulla disabilità, sull’età e sulla religione» (p. 93). Bisogna, allora, agire sulle dinamiche di esclusione. Per la Nostra, è bene valersi di un’«analisi filosofico-psicologica delle emozioni» (p. 95). Ne emerge, dunque, come l’esclusione sia collegata non soltanto alla paura, ma anche ad un’altra emozione, il disgusto. La cosa non deve certo sorprendere dal momento che questa emozione è suscitata «da caratteristiche corporee, vere o presunte, che mantengono una stretta relazione con le nostre ansie riguardo alla mortalità e alla vulnerabilità del nostro corpo animale» (p. 95). Il disgusto, però, pur essendo correlata alla paura, non coincide con quest’ultima; si tratta di due emozioni distinte, quando non anche irrelate l’una dall’altra. Ad avviso di Nussbaum, entrambe fanno «parte del nostro patrimonio evolutivo» (p. 96). E comunque il disgusto ha un suo contenuto cognitivo collegato ad un moto di ripulsa viscerale che rimanda ad «un pensiero di contaminazione» (p. 99). Ciò che disgusta nell’altro ci spinge a rigettare l’altro in quanto causa presunta di contaminazione a nostro danno. Non a caso, infatti, «il suo riflesso corporeo è l’avversione» (p. 99): ciò che ci provoca disgusto ci spinge ad evitarlo. Gli oggetti del disgusto sono “ricordi animali” che «ci rammentano la nostra animalità, vale a dire la nostra mortalità» (p. 99). Ciò che ci provoca disgusto ci ricorda la nostra vulnerabilità animale. Il disgusto, come tante altre emozioni, viene appreso da bambini, e, dunque, ogni cultura lo plasma. Tuttavia, nel corso del tempo questa emozione assume una connotazione psicologica che si configura nei termini di un disgusto proiettivo che funge da marcatore tra l’io (noi) e loro, poli di una proiezione in forza della quale gli animali sono gli altri, non noi; gli sporchi e i puzzolenti sono gli altri mentre «noi siamo puri e puliti» (p. 103). Questa stessa polarità sottintende logiche di dominio, loro sono inferiori a noi, «li dominiamo» (p. 103). D’altro canto, se noi «possiamo evitare la contaminazione di quelle persone, possiamo in qualche modo evitare la nostra animalità ed elevarci al di sopra di essa» (p. 104).

Questa emozione non va, però, confusa con l’ira. Molto spesso si tende a confondere il disgusto con l’ira quando si afferma che qualche circostanza o qualche persona pubblica ci disgusta mentre in realtà è oggetto della nostra ira. In altri casi ancora, ad agire è la paura, come nel caso dell’antisemitismo e del razzismo nei confronti degli afroamericani. Il timore è di «essere ingannati da una cospirazione di banchieri nel primo caso, essere vittime di stupro o di omicidio nel secondo» (p. 113). Anche la storia recente del nostro Continente ha tristi esempi di questa emozione.

Tuttavia, se la dinamica della paura ha origini naturali ed ha accompagnato la storia dell’umanità, come mai si registrano negli ultimi anni un notevole aumento dei fenomeni di disgusto nei confronti di singoli o di interi gruppi sociali? La ragione di ciò va ricercata nel sentimento di insicurezza esperito dalle masse popolari. Infatti, all’aumento del senso di insicurezza, la gente aumenta negli attacchi ai «più vulnerabili, incolpandoli e trasformandoli in capri espiatori» (p. 120). Se la gente si sente, a torto o a ragione, più insicura, comincia a prendersela con i più deboli, proiettando su di loro la responsabilità della maggiore insicurezza sociale.

La paura, però, ha anche un altro effetto perverso: l’indignazione pubblica viene mutata in «un desiderio tossico di rivalsa» (p. 123). Se poniamo mente al fenomeno recente del populismo, anche nel nostro Paese, la spiegazione della sua diffusione è presto detta: l’indignazione, per mezzo della paura, si è trasformata in invidia sociale, ovvero nell’oggetto di una politica profondamente in crisi. In genere, l’invidia «è un’emozione dolorosa che si concentra sui vantaggi degli altri, confrontando la propria situazione sfavorevole con la loro» (p. 125). In un gioco sociale a somma zero, l’invidia ci mette in competizione con diretti singoli o gruppi avversari nella contesa di un bene. In altri termini, l’invidia riposa sull’«illusione che gli altri abbiano le cose buone della vita» (p. 126) mentre noi no: siamo privati, per colpa di terzi, nostri nemici, da relazioni felici, da lavori felici, da vite sociali felici. I nostri rivali posseggono cose buone, noi no. E tuttavia «il rivale potrebbe non aver fatto nulla per offendere colui che lo invidia» (p. 127), ma l’invidia si nutre solo della felicità del rivale. Dunque, l’invidia discende dall’insicurezza, ma quest’ultima dipende dalla paura, ovvero dal timore di «non avere ciò di cui si ha disperatamente bisogno» (p. 127). In un mondo segnato dalla diseguaglianza, la colpa del numero non sufficiente di beni a nostra disposizione è degli altri; il successo altrui è l’ossessione dell’invidioso.

Pertanto, l’invidia è particolarmente inquietante, oltre che pericolosa, per le nostre comunità politiche. Eppure, seguendo la lezione di Rawls, potremmo disinnescarla o comunque renderla meno pericolosa. Per farlo, però, le comunità dovrebbero infondere una fiducia serena nelle persone, sia riguardo a loro stesse sia riguardo «al loro accesso alle cose buone della vita» (p. 131). In altri termini, le comunità politiche dovrebbero «offrire alternative costruttive» (p. 132) all’invidia. Abbiamo bisogno di una «cultura della virtù e di una concezione della cittadinanza focalizzata sulla virtù […] una ricerca magnanima ma realistica di soluzioni politiche che uniscano» (p. 143). Una politica dell’inclusione può, dunque, attenuare la potenza eversiva dell’invidia sociale. Ad ogni modo, però, bisogna pur star certi che l’invidia non scomparirà, essendo troppo radicata nell’insicurezza della stessa vita umana. Tuttavia, possiamo reprimerla «creando le condizioni affinché essa non ci sfugga di mano, condizioni nelle quali l’amore e il lavoro creativo […] dettano la rotta della nazione» (p. 145). Certo l’alternativa è fare come i romani ed annegare «nell’impero dell’invidia» (p. 145).

Lo stesso meccanismo dell’invidia sociale è alla base della misoginia e dell’ingiustizia di genere, soprattutto nella tendenza, da parte degli uomini, di prendersela con le donne per ipotetici danni ingiustamente patiti per colpa di queste ultime.  E la paura delle donne ha avuto il suo peso sia nell’elezione alla presidenza degli USA di Donald Trump sia nella retorica pubblica mandata ad effetto da quest’ultimo durante la sua presidenza. Paradossalmente, però, le donne hanno votato per Trump cercando di concentrarsi sulla base programmatica che condividono piuttosto che tener conto dei suoi commenti sessisti contro il genere femminile. Tuttavia, v’è negli USA una tendenza a colpevolizzare le donne per «i problemi di incuria dell’infanzia» (p. 163). Questo accadrebbe perché le donne non fanno più le donne, occupando ruoli e funzioni che non spetterebbero loro, evitando la cura della casa e della prole. La separazione dei ruoli su base di genere ha sempre garantito, entro certi limiti, le possibilità di successo per gli uomini, ma da quando le donne hanno cominciato ad occupare ruoli tradizionalmente destinati agli uomini questi ultimi hanno cominciato a nutrire uno stress che si combina con la paura rivolta verso «quelli che sono percepiti come coloro che ci stanno sostituendo» (p. 167). Le donne stanno facendo concorrenza agli uomini negli ambiti e nei ruoli “migliori”, con in più il danno che non offrono più loro «quel conforto, senza alcuna richiesta in cambio, che le donne un tempo offrivano come «casalinghe»» (p. 169). Ma questa paura attiene ad un misto di paura e di stress per la perdita di ricompense all’interno di un gioco a somma zero. C’è anche un’altra paura che ha per oggetto sempre le donne ma che non c’entra con la concorrenza femminile, e che riguarda piuttosto l’invidia. È il disgusto pubblicamente espresso per la corporeità femminile. A tal proposito, l’autrice parla di disgusto misogino, dettato dalla paura, e che teme «la morte e la corporeità mortale» (p. 170).

Le società democratiche devono sicuramente combattere la paura, è prioritario se vogliono conservarsi ancora nel tempo. Ma come? Per Nussbaum, bisogna puntare sulla speranza, ovvero sulla «visione di un mondo positivo che potrebbe realizzarsi e, spesso almeno, le azioni legate al suo conseguimento» (p. 179). Mentre la paura spinge a contrarre gli spazi d’azione e di attenzione, la speranza si espande verso l’esterno. E tuttavia né il mondo «fornisce ragioni per assumere questo atteggiamento» (p. 180) né tantomeno è una questione di «calcolo delle probabilità» (p. 180). La speranza è una risposta all’incertezza, ma di segno diametralmente opposto alla paura, la prima «espande ed avanza, la paura si contrae» (p. 183). E mentre la speranza «è vulnerabile, la paura si protegge» (p. 183). Ne discende di come sia attualmente più popolare quest’ultima che la speranza. La paura, infatti, «è collegata al desiderio monarchico di controllare gli altri, all’incapacità di fidarsi che rimangano indipendenti e fedeli a sé stessi» (p. 184). Laddove talvolta la paura può essere «una guida utile in molti ambiti della vita democratica» (p. 184), un approccio timoroso riguardo al futuro può costituire un pericolo per le democrazie. La speranza reca con sé altri due atteggiamenti emotivi, la fede e l’amore. Tuttavia, quando Nussbaum parla di “fede” intende qualcosa di diverso dalla prospettiva confessionale cui si potrebbe, peraltro legittimamente, pensare, e più precisamente intende uno sforzo umano proteso ad una relazione interpersonale improntata al riconoscimento del prossimo come di «una persona, che ha spessore e vita interiore» (p. 187), e che sia «un punto di vista sul mondo» (p. 187) ed abbia «emozioni simili alle nostre» (p. 187). La fede di cui parla l’autrice appare decisamente una versione laica del precetto kantiano inerente al trattamento di terzi come fini e non come strumenti.  Se poi ogni confessione religiosa realizza questa condizione, allora può venir raggruppata nell’insieme delle pratiche di speranza che Nussbaum chiama “fede”.

Per l’autrice, però, la speranza implica anche “amore”, un atteggiamento volto a «vedere l’altra persona come pienamente umana e capace […] di bontà e di cambiamento» (p. 188). Oltre a Martin L. King, il riferimento costante di Nussbaum è Nelson Mandela. In quest’ultimo caso, non esita a considerarla una figura eroica, ma, pur non dovendo «aspirare a quella straordinaria generosità nelle avversità» (p. 189), il suo esempio può comunque essere di stimolo perché dobbiamo «muoverci in quella direzione» (p. 189), e possiamo farlo prendendo «l’abitudine di vedere coloro che ci ostacolano non come mostri, ma come persone reali, pensanti e capaci di avere sentimenti, come persone non totalmente malvagie» (p. 189). D’altro canto, proprio perché consideriamo una persona reale e come potenzialmente amabile «possiamo giungere alla speranza di un vero dialogo» (p. 190). La speranza implica, dunque, di considerare l’altro come un legittimo portatore di emozioni e di razionalità e di non trattarlo come uno strumento dei nostri desideri ma come una persona non automaticamente malvagia. Solo così diviene possibile disinnescare il perverso ed inquietante meccanismo del disgusto.

Siccome la speranza non è nulla di automatico o di spontaneo, l’atteggiamento della speranza va praticato, insegnato, appreso, valorizzato nel corso del tempo. La speranza non è un concetto teorico, ma un dispositivo pratico. Sono almeno tre le pratiche di speranza individuate da Nussbaum, vale a dire le arti, con la loro capacità di percepire «la diversità umana come gioiosa, divertente, tragica, deliziosa, non come un destino orribile da evitare» (p. 195), lo spirito socratico, volto a valorizzare lo sforzo cooperativo al confronto, al dialogo, al dare e ricevere ragioni, ed infine la religione, nella misura in cui ispiri una «speranza inclusiva e amorevole, piuttosto che divisa e retributiva» (p. 201). A queste pratiche, Nussbaum ne aggiunge altre due, i movimenti di protesta e le visioni della giustizia, intendendo con quest’ultima locuzione le varie teorie sulla giustizia elaborate nel corso della storia della filosofia occidentale, da Platone sino a Rawls. Tuttavia, l’autrice vi inserisce anche il suo particolare approccio delle capacità che ridefinisce la nozione di giustizia. Questo perché viene posta enfasi sulla titolarità umana di capacità che tutti i cittadini devono avere a partire da una certa soglia, se la società vuole considerarsi giusta anche solo a un livello minimo. Una società giusta è quella che garantisce una soglia base di opportunità ai cittadini. Queste capacità o opportunità sono almeno dieci a parer dell’autrice, ovvero la vita, la salute fisica, l’integrità fisica, i sensi, l’immaginazione e il pensiero, i sentimenti, la ragione pratica, l’appartenenza, le altre specie, il gioco, il controllo sul proprio ambiente (politico e materiale). Questo elenco, che Nussbaum ripropone da tempo, ha il pregio di focalizzare l’attenzione sulle capacità piuttosto che sul funzionamento effettivo. Di conseguenza, lo standard minimo previsto consente ai singoli la facoltà della scelta della soglia di opportunità da realizzare.

La paura avvelena le democrazie e queste ultime per sopravvivere devono coltivare la speranza, per difficile che possa essere. Certo la via del populismo, così come del disimpegno civile, è più facile, ma tutti noi dobbiamo adoperarci per servire il bene pubblico, attivando quella speranza che scaturisce dal «servizio impegnato» (p. 210).

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