
Dentro e fuori di sé
Riassumendo, i sintomi più evidenti dello sfaccendato sono:
— Claustrofobia. Stare a casa sua gli provoca sofferenza, per quanto strano possa sembrare: la casa dovrebbe essere il posto dove si sta meglio in assoluto; dove ci si trova insieme alle persone con cui di è scelto di vivere, in mezzo alle proprie cose, nelle migliori condizioni per stare a proprio agio. Eppure.
— Inedia. Più tempo ha a disposizione, meno sa che farsene: non sa gestirlo perché non è in grado di esercitare in prima persona la propria libertà.
— Miopia. Si lamenta in maniera sproporzionata, con i toni più sostenuti, delle proprie condizioni di vita non ottimali, ben sapendo che — lì fuori, tra coloro che sono costretti a uscire — c’è gente che rischia la vita per assistere gli altri. Fino a riferire disturbi che è perfino difficile definire tali (come il velleitario e tanto diffuso: “Non riesco più a leggere”).
— Abulia[19]. Irrigidito nella convinzione dell’altrui soverchieria (le lobby, i “poteri forti”…), si abbandona al complottismo, persuaso che non ci sia niente di meglio da fare. Poco o nulla abituato all’azione sociale e men che meno collettiva, immagina che niente possa produrre effetti reali nel mondo. Non gli resta che l’ultima, sistematica lagna organizzata: smascherare le trame più occulte… restandosene dietro allo schermo di un computer.
Tuttavia, come abbiamo già visto, non si tratta di sintomi da COVID-19. Lo sfaccendato li aveva anche prima; erano solo meno evidenti. È questo il vero motivo per cui val la pena parlarne: non per criticare preferenze e stili di vita che non ci appartengono; ma per capire se, sotto di essi, si celi un problema più profondo e inquietante.
Partiamo da una semplice osservazione: se qualcuno ama andare al baretto, o fare jogging, non c’è niente di male. Viene in mente ancora una poesia di Kavafis:
E se non puoi la vita che desideri
cerca almeno questo per quanto sta in te:
non sciuparla nel troppo commercio con la gente
con troppe parole e in un viavai frenetico.
Non sciuparla portandola in giro
in balìa del quotidiano gioco balordo
degli incontri e degli inviti
fino a farne una stucchevole estranea.
Che può suonare come una condanna morale. Come se ci fosse qualcosa di intrinsecamente migliore (e, per converso, qualcosa di peggiore). Come se ci fosse un modo di vivere la vita oggettivamente preferibile a un altro. Risuona come un richiamo alla necessità di una vita più autentica. Ma non è affatto questo il punto. Le attività citate (andare al baretto o fare jogging; ma anche fumare passeggiando) non hanno nessun difetto intrinseco; né esiste un metro per stabilire quanto ne valga la pena. E, banalmente appunto, se qualcuno è felice nel praticarle… è ovvio che sia meno felice quando viene costretto bruscamente a interromperle.
La domanda dunque diventa questa: lo sfaccendato era veramente felice fuori di casa, in mezzo alle sue consuetudini? E tornerà ad esserlo, appena la reclusione sarà finita?
Si teme di no. Lo sfaccendato non ama con tutto se stesso né il baretto né il jogging né il poker online o la sala scommesse. Nessuna di queste cose lo fa felice. Nessuna di queste cose ha trovato infine — magari dopo la ricerca di tutta una vita — realmente adatta alla sua vera natura. Potrebbe sostituirle con grande facilità, senza pregiudizio. Non teme di perderne una in particolare: teme di perdere, in generale, ciò che lo tiene occupato in quella fetta di tempo. Lo sfaccendato non soffre della mancanza; teme il vuoto. Tornando alla domanda principale: lo sfaccendato è felice? Potrebbe sembrare di sì, ma quasi sicuramente non lo è. La verità è che non lo sa nessuno, nemmeno lui: lo sfaccendato non conosce se stesso, perché su questo argomento non si è mai interrogato. Non ha mai indagato. Non ha mai verificato come si sentisse o se certe scelte fossero buone o no per lui. Non si è mai chiesto: «Chi sono? Chi voglio essere? Cosa intendo fare per riuscirci?»
Il problema dunque non è la ricerca spasmodica del piacere dato da certe attività e la conseguente sofferenza nel non riuscire a procurarselo. Né è la qualità delle attività in sé. Il problema è che il suo modo di vivere, basato su elementi che alla fin fine appaiono casuali, non lo nutre. Non lo soddisfa, non lo fa felice. Lo sfaccendato può anche parlare delle cose che fa in maniera tronfia; ma senza passione. Se glielo fai notare, si sente subito aggredito; o ti dice che quella parola va riservata alla sensualità, al massimo agli artisti. Di tutte le cose di cui si riempie le giornate parla sempre senza emozione, in generale, non per la gioia che danno a lui. Non le conosce, non le ha approfondite, appena gli si faccia una domanda più specifica segna il passo. Non ha trovato in quelle cose la sua via; e non perché la scelta sia stata semplicemente sbagliata. Ancora più semplicemente, lui una via non la sta cercando affatto. Lo sfaccendato è uno che non sta andando da nessuna parte.
Nell’intervista TV di Peter Gomez per «Nove» del 3 marzo 2020, Umberto Galimberti ha spiegato che una delle opportunità date da questa situazione è appunto la possibilità di ritrovare se stessi nella propria interiorità, al di fuori del tran-tran di tutti i giorni: «Non è che ti viene in mente di dare un’occhiata a te stesso, di avere un rapporto con la tua interiorità? A meno che l’interiorità non sia il peggior nemico con cui abbiamo a che fare».
Ma per qualcuno, in effetti, l’interiorità è un nemico. Da cui si difende ignorandolo. Lo sfaccendato non sposta mai l’asse della sua consapevolezza dall’esteriorità all’interiorità: lui vive sempre al di fuori, soprattutto di se stesso. Come un simulacro, appare-nel-mondo, invece di esserci. «Dove sei, quando non sei presente a te stesso[20]?» Non c’è condanna morale per lo sfaccendato. Egli si è già condannato nel modo peggiore: l’impossibilità di trovare la felicità, per aver rinunciato a cercarla.
[19] Questi quattro termini vengono usati qui, per esigenza di sintesi, in senso lato.
[20] Imitazione di Cristo, p. 113.