Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Sfaccendati. Il volto esistenziale di una crisi non solo sanitaria – Parte 5/8

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Quello che nessuno ti dice

Proprio come l’uomo della folla, anche quest’uomo — lo sfaccendato — er lasst sich nicht lesen: si può fare a meno di conoscerlo, senza rimpianto. Come una canzone che non viene mai cantata, costui non ha niente da offrire a nessuno.

Una cosa è importante chiarirla: non c’è nessun “noi” e “loro”, come nell’Essi vivono di Carpenter. Non si sta parlando qui di certe persone in particolare; né di un tipo umano in generale. Quello che sta emergendo non è un identikit; è più — per rimanere nell’ambito della crime story — un aspetto del profilo del ricercato. Un aspetto che può venir giustapposto a una miriade di altri e che è trasversale al sesso, all’età, al grado di istruzione, al reddito e via discorrendo. Chiunque può essere un buon padre di famiglia e uno sfaccendato; un’ottima moglie e una sfaccendata; un serial killer e uno sfaccendato. Una persona qualunque… e uno sfaccendato.

Cosa ha ridotto lo sfaccendato in queste condizioni? Difficile stabilirlo. Non certo il virus: quello ha solo fatto in modo che venisse allo scoperto. Una delle cause principali può tuttavia essere rinvenuta in qualcosa che viene da lontano e che da tempo ha assunto cittadinanza nella nostra quotidianità: il complottismo[13]. Quella tendenza generale a immaginare complotti dietro ogni problema. Perfino dietro ogni soluzione. Tendenza che risale almeno agli anni ’40, dopo che nel cosiddetto “Incidente di Roswell”[14] cominciò a prendere forma l’idea che l’oggetto schiantatosi al suolo fosse un disco volante e che il governo americano avesse recuperato i cadaveri di extraterrestri con la cui specie sarebbe successivamente entrato in contatto, tenendo tutto ciò nascosto all’opinione pubblica per evitare di diffondere il panico. Da lì — attraverso teorie che coinvolgono l’“Area 51”[15], passando per l’idea che non siamo mai veramente sbarcati sulla Luna e per una salva di inchieste giornalistiche più o meno fondate che richiamano spesso e volentieri il concetto di “lobby” — arriviamo ai complotti dei nostri giorni, come nel caso del 5G16]. Riguardo al virus, queste teorie hanno assunto in particolare due forme.

1. Il virus è frutto di una sperimentazione effettuata nei laboratori cinesi, volta a creare un supervirus letale e molto contagioso. “Solo per motivi di studio” hanno detto. Ma sarà veramente così?

2. Il virus è stato voluto dalle lobby capitalistiche per fare piazza pulita dei più deboli (vecchi, poveri) che sono anche quelli che contribuiscono meno all’economia e anzi vengono considerati in massima parte nient’altro che un peso.

A sostegno, né prove né veri e propri argomenti; più che altro coincidenze. Come se la mera osservazione di qualche dettaglio, condita da un certo buon senso lontano da specialismi tecnicistici, potesse offrire una presunta evidenza immediata attingibile da chiunque in maniera autonoma: prescindendo dalle autorità e dai mezzi d’informazione ordinari (dei quali — regola cardine del complottismo — non c’è mai da fidarsi); da qualunque verifica sul campo; e, appunto, da qualunque competenza specifica in materia. Ad esempio: i laboratori si trovano in Cina (punto 1.) e, guarda caso, il virus viene proprio dalla Cina. Ancora (punto 2.): “Chi trae vantaggio da questa situazione?” ci si domanda, come farebbe un investigatore nel tentativo di scoprire il colpevole di un omicidio. Ma le lobby capitalistiche! Infatti il virus, guarda caso, fa fuori proprio quelli che sono considerati una zavorra per l’economia.

Come si diceva, si tratta ovviamente di coincidenze, non di prove. E potrebbe bastare questa considerazione per accantonarle senza meno con una semplice schicchera, la chiquenaude di pascaliana memoria[17]. Ma non è per scagliarsi contro tali ipotesi che si scrive qui: come si diceva, sarebbe superfluo. È invece per sottolineare che in tantissimi continuano a subirne il fascino; spesso semplicemente perché non riescono a trovare il modo di confutarle (come se l’onere della prova spettasse a loro, e non a chi le afferma; come se l’ingenuità stesse nell’ignorare quelle “rivelazioni” e non nell’ascoltarle). E che questo provoca pesanti ripercussioni nella genesi della sindrome dello sfaccendato.

Esaminiamo un attimo l’effetto prodotto dalla pioggia di teorie del complotto. Si produce un mare di “informazioni” su cui chi le ascolta non ha nessun potere. “Apprendiamo” tante cose, ma poi non possiamo farci niente. Non è un caso che tali teorie prediligano soggetti inarrivabili: fumose e inaccessibili lobby di malvagi, laboratori esteri coperti dal massimo segreto militare e di Stato. Cosa accade in chi dà loro credito a oltranza? Che si abitua ad avere a che fare con cose, peraltro pericolosissime, sulle quali non può incidere in nessun modo. Si abitua a concepire il mondo come uno spettacolo cui si può partecipare al più come pubblico silente (e pagante), ma mai come attori. Mi abituo a pensare, in ultima analisi, che qualunque cosa io possa fare non serve a niente. Perché c’è sempre qualcuno più grosso di me che manovra nell’ombra e ha la meglio. Finendo col persuadermi che l’unica forma di impegno che abbia ancora un senso, in questo mondo in cui ogni azione è soverchiata dai “poteri forti”, sia informarmi. È il massimo che io possa fare: cambiare la mia opinione. Il mondo no: quello non posso cambiarlo.

Meccanismo che in passato era la televisione ad alimentare: mettendo in mostra le star scintillanti, con i loro stili di vita irraggiungibili “conquistati con sacrificio”[18], propagandava il mito dell’“uomo che si è fatto da solo”, utile al capitalismo per scrollarsi la responsabilità del fallimento sociale, addossandola ai singoli: “Vedi — dicevano quelle immagini: — lui non era nessuno, eppure ce l’ha fatta. Il sistema non è responsabile dei tuoi fallimenti: se non hai lavoro, non hai soldi, non puoi farti una famiglia o sperare nel futuro… è soltanto colpa tua”. L’effetto secondario di ciò era che l’uomo si abituava a pensare che, sì, non era in grado di agire nel mondo.

È un effetto veicolato e amplificato oggi dagli onnipresenti social network: più mi sento impotente, più mi vien voglia di gridare. E lo faccio nell’unico posto dove possa sperare che ci sia qualcuno ad ascoltarmi. Dove, meno ho da dire, più mi sento spinto a parlare; infatti, come chiunque abbia frequentato questi ambienti virtuali sufficientemente a lungo sa, si tratta di sistemi dove ci si sente quasi in dovere di partecipare alle discussioni, non importa quale sia l’argomento: in parte nel tentativo assurdo (ma molte cose assurde finiscono poi per sembrare “normali” in realtà alterate come quelle) di ricambiare la gentilezza di chi ha creato contenuti e magari posto un quesito, ma anche semplicemente per non far la parte dell’antipatico o, appunto, dell’asociale.

Alla fine di questo estenuante processo, si ha l’idea che l’azione sia inutile e che partecipare, oggi, significhi acquisire informazioni e dire la propria; l’odierna crisi del virus ha solo acceso la miccia di questo ordigno innescato molto tempo fa. Lidia Menapace, nel suo Io partigiana, scrive, a proposito dei compagni caduti nella Resistenza: «Noi che continuiamo a vivere dovremmo fare in modi da ricordarli, orgogliosi di essere stati loro amici, di averli conosciuti, di aver chiacchierato, scherzato, vissuto con loro: in modo che il tran tran della vita non ci faccia mai diventare accomodanti, cinici, non ci faccia perdere mai la capacità di sdegnarci e di dire no, quando occorre». Mirabile richiamo all’azione diretta, all’impegno concreto, alla presa di posizione inequivocabile, anche quando è sfacciata e perfino pericolosa. Ovviamente, non sempre è possibile scagliarsi fruttuosamente contro chi si vorrebbe. Perciò si dice giustamente che bisogna scegliersi le proprie battaglie: non si può combattere su tutti i fronti e alcune lotte sono effettivamente fuori dalla nostra portata. “Pensare globalmente, agire localmente”: era il motto della gioventù impegnata a cavallo fra gli ’80 e i ’90. Sostenevi Amnesty International con il bollettino postale e intanto facevi volontariato con i minori a rischio il sabato pomeriggio; ti abbonavi a Nigrizia e facevi la spesa alla bottega equo-solidale. C’era un equilibrio di senso, che stabiliva un ponte fra l’azione singola e quella collettiva. Oggi l’“agire localmente” sembra estinto. E il pensare globalmente è declinato sugli argomenti di tendenza.

Così assistiamo allo spettacolo di chi non si è mai informato, ma adesso scopre che esistono i giornali distribuiti gratuitamente online e in pdf, li legge tutti e ti fa una colpa del non passare a tua volta la giornata a leggerli come fa lui, per apprendere l’ultima notizia, l’ultima intervista, l’ultimo scoop; per il quale nessuna descrizione è migliore del brillante aforisma della Austen: «Un uomo che non sa che fare del proprio tempo non è mai consapevole di invadere quello degli altri». Val la pena ribadire che non si tratta di pochi frustrati, ma di una nutritissima categoria che taglia trasversalmente tutte le altre, anche di quelle dalle quali ci si sarebbe potuto aspettare una reazione più matura e fuori dal coro: così si sentono reiterare frasi fatte da ogni dove, è tutto un fiorire di commenti a base di “Ai tempi del coronavirus”, come se non si potesse sfuggire alla ripetizione coattiva che porta a fare come tutti gli altri quasi come se si temesse, cambiando espressione, di non poter più essere compresi.

Si potrebbe ipotizzare, in conclusione, che questo — il meccanismo sociale appena descritto — sia a sua volta il frutto di un complotto di qualche lobby, finalizzato a conservare gli uomini in questo loro stato d’inedia; sarebbe un bel modo di chiudere il cerchio. Tuttavia, a quanto pare, non ce n’è bisogno: questo modo di intendere e vivere le cose è così tanto congeniale allo sfaccendato, al mantenimento della sua inerzia, e al contempo alla sua autoassoluzione, da essere lui il primo sospettato. Nessun potere dall’alto lo ha progettato per asservirlo; e lui, lo sfaccendato, non ha nessuna intenzione di affrancarsene.

Il virus, che ha configurato una crisi epocale sul piano sanitario, ha in più rivelato una crisi sul piano dell’essere: una crisi dell’essere umano nella quale quest’ultimo, convintosi dell’impossibilità dell’essere e del fare, si rivolge altrove. Una volta era l’avere di Fromm. Oggi — un po’ per ristrettezze economiche, un po’ perché i tempi son cambiati per tutti — non gli resta che il chiacchierare.


[13] Per un esame sintetico ma a 360 gradi della questione, cfr. Alessandro Campi, “Il virus del cospirazionismo e le “false notizie” di pace. Congiure e complotti all’epoca del Covid-19”, in Alessandro Campi (a cura di), Dopo.

[14] Il 2 luglio 1947, presso la località statunitense di Roswell, in New Mexico, un oggetto non ben identificato cadde dal cielo. I giornali parlano fin da subito di UFO e le tempestive e reiterate smentite delle autorità non fecero che alimentare il sospetto, vivo ancora oggi.

[15] Celebre base militare in Nevada nella quale vengono condotti segretissimi test su tecnologie innovative, oggetto di libri, film e serie TV e perfino di videogiochi.

[16] Ogni giorno c’è una nuova Cassandra – in TV, in rete, sui giornali – ma pochi possono autorevolmente rivendicarne il titolo. Sulle posizioni degli intellettuali che, a partire dal secolo scorso, hanno messo in guardia sui rischi globali di un’azione umana invasiva e dissennata nei confronti dell’ambiente, si consiglia il gustoso (e impegnativo) saggio di Giuseppe Gembillo e Annamaria Anselmo dal titolo Le cassandre della pandemia.

[17] È ancora Pascal a dire: «Non posso perdonare Cartesio: avrebbe voluto, in tutta la sua filosofia, poter fare a meno di Dio, ma non è riuscito di fargli dare un colpetto al mondo per metterlo in movimento: dopodiché, di Dio non sa più che farsene» (Pensieri, n. 77, p. 42).

[18] Come noto, quello del “self-made man” e del successo raggiunto a caro prezzo sono miti moderni di matrice capitalistica. Bauman, tra gli altri, ha spiegato molto bene cosa siano i personaggi “famosi perché famosi”: famosi cioè non perché sappiano fare qualcosa meglio di altri, ma semplicemente perché… famosi. È il caso delle tante “celebrità” rese tali dalla inconsistente vetrina di qualche reality show. Fenomeno ormai talmente noto che Wikipedia ha addirittura una voce autonoma al riguardo: “Famous for being famous”.

[Leggi la parte precedente / Leggi la parte successiva]

Autore: Paolo Calabrò

Laureato in scienze dell'informazione e in filosofia, gestisco il sito ufficiale in italiano del filosofo francese Maurice Bellet. Collaboro con l'Opera Omnia in italiano di Raimon Panikkar. Dirigo con Diego Fusaro la collana di filosofia "I Cento Talleri" dell'editore Il Prato e con Daniele Baron la rivista online «Filosofia e nuovi sentieri». Sono membro dell'associazione di scrittori «NapoliNoir». Ho pubblicato in volume i saggi: – Il rischio di pensare. Scienza e paranormale nel pensiero di Rupert Sheldrake (Progedit, 2020); – Ivan Illich. Il mondo a misura d'uomo (Pazzini, 2018); – La verità cammina con noi. Introduzione alla filosofia e alla scienza dell'umano di Maurice Bellet (Il Prato, 2014); – Le cose si toccano. Raimon Panikkar e le scienze moderne (Diabasis, 2011) e i libri di narrativa noir: – Troppa verità (2021), romanzo noir di Bertoni editore (2021); – L'albergo o Del delitto perfetto (2020), sulla manipolazione affettiva e la violenza di genere, edito da Iacobelli; – L'abiezione (2018) e L'intransigenza (2015), romanzi della collana "I gialli del Dio perverso", edita da Il Prato, ispirati alla teologia di Maurice Bellet; – C'è un sole che si muore (Il Prato, 2016), antologia di racconti gialli e noir ambientati a Napoli (e dintorni), curata insieme a Diana Lama.

One thought on “Sfaccendati. Il volto esistenziale di una crisi non solo sanitaria – Parte 5/8

  1. “non gli resta che il chiacchierare” … e ululare alla luna, irraggiungibile e immodificabile. E in questo insensato ululare, le radici di un odio diffuso, altrettanto insensato, che imperversa a livello globale navigando veloce sull’onda irrefrenabile dei social. Questo è un vulnus che mina alle basi la convivenza civile.

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