
E poi arrivarono gli esanimi
Impressionante (e doppiamente, se si considera che il libro è stato celebrato in patria con il Premio Nadal nel 1993, per poi venir tradotto in Italia nel 2018) osservare la somiglianza tra la città descritta da Rafael Argullol in La ragione del male e la situazione globale — noi ci soffermeremo su quella italiana, che abbiamo toccato con mano — da COVID-19.
«Prima che gli strani avvenimenti se ne impadronissero, si trattava di una città prospera che faceva gioiosamente parte della regione privilegiata del pianeta. Era una città che, a giudicare dalle statistiche pubblicate regolarmente dalle autorità, poteva essere ritenuta a maggioranza felice». È così che cominciamo a conoscere, all’inizio del romanzo, la città teatro della storia: una città apparentemente “normale” e, anzi, di quelle in cui tanti agognano vivere (fino a morire in mare per raggiungerne le coste, potremmo dire con la nostra coscienza attuale). Una città fondata sulla «pace, il benessere, l’ordine e la libertà». Sempre uguale a se stessa, sorda alle notizie che vengono da fuori e, in generale, a tutto ciò che turbi il regolare e solito fluire delle cose.
All’improvviso, però, accade qualcosa di nuovo: in ospedale cominciano a ricoverarsi delle persone affette da una grave depressione. Completamente abuliche, non reagiscono a nessuno stimolo e sembra non desiderino altro che lasciarsi morire. Anzi, nemmeno quello è un desiderio: è soltanto una destinazione fatale. E subito diventa un fenomeno di massa: gli ospedali vengono sommersi, quasi da un giorno all’altro, da pazienti simili; che non sono arrivati lì di loro iniziativa, evidentemente, ma recati dai familiari che hanno provato a sopportarli per un po’ ma alla fine, stremati, si sono visti costretti ad affidarli all’autorità sanitaria. Tenerli a casa non era possibile un solo minuto di più: «Sembra che ti guardino senza vederti». Una presenza troppo inquietante; da temere quasi di poterne essere contagiati.
Un contagio sembra, in effetti, per il numero elevatissimo e crescente di casi che si presentano. Nessun virus potrebbe causare questi sintomi, si sa; eppure sembra impossibile trovare altre spiegazioni. Né che quella del virus lo sia, è chiaro: non c’è virus, non c’è contagio. Tecnicamente, è difficile anche definirla una malattia. Eppure il fenomeno è di proporzioni così enormi, che non si può fare a meno di parlare di epidemia. Di fronte alla quale tutti sono impreparati: sia il personale medico, sia i politici, sia la gente in attesa di risposte che tardano ad arrivare.
La prima risposta di cui la gente ha bisogno è un nome da dare a quello che sta succedendo. Senza un nome, c’è spazio per immaginare tutto e il contrario di tutto, per immaginare il peggio: e niente è peggio dell’ignoto. Così, qualcuno propone per questi “malati” — che, di punto in bianco, hanno semplicemente smesso di interessarsi del lavoro, della famiglia e perfino di se stessi, lasciandosi andare completamente — il nome di “esanimi”. «A quale stupido poteva venire in mente un nome così?» si domanda, durante una festa, Max Bertrán, «la lingua più viperina della città». «Max, non essere sciocco — gli risponde Blasi, direttore del quotidiano “El Progreso”. — È un nome scientifico, lo ha approvato il Senato».
La politica comincia a «legiferare con categoricità. […] Uno dopo l’altro, i decreti furono promulgati con procedura d’urgenza». E, per il solo fatto di essere continuamente in moto, rasserena, dando l’impressione di avere tutto sotto controllo: «La macchina legislativa, funzionando con un buon ritmo, dava una sensazione di efficienza. Malgrado ciò, adesso i tentennamenti erano continui, ricorrendo a decreti così contraddittori che spesso si annullavano l’un l’altro».
La gente, dal canto suo, si spacca subito in due: da un lato c’è chi ha paura “del mostro”, dall’altro chi sminuisce i fatti fino a negarli. “È la fine”, dicono i primi; “Non è niente”, dicono gli altri. E si danno del buon tempo (“Come se non ci fosse un domani”: non è così che si dice?), organizzando feste, shopping e luminarie in grande stile, anzi, grandissimo. «Nessuno voleva smettere di ridere, come se si fosse imposta la certezza che finché durava il riso quel mondo nel quale erano rinchiusi non sarebbe sparito».
Poi però comincia a serpeggiare il sospetto che la “malattia” non sia più solo un affare degli esanimi, ma che possa colpire chiunque, indiscriminatamente. «L’uguaglianza nella minaccia portò con sé la comunione nella paura» (come dire: una malattia “democratica”. Non l’abbiamo sentito dire mille volte a proposito del virus? C’è anche chi lo ha scritto, parlando di «malattia assurdamente democratica»: Pierre Dalla Vigna, I non-luoghi del Coronavirus). Si comincia a temere che gli esanimi già ricoverati possano contagiare altri, “sani”. Si scatena il panico e non mancano episodi di violenza, con assalti agli ospedali. Ma è la distorsione nei rapporti sociali ordinari a colpire di più: «Nelle case i vicini si guardavano con sospetto, per le strade i passanti si osservavano con diffidenza. Ogni cittadino si impose il dovere di diventare guardiano dell’altro». E inizia la danza delle colpe, da dare a questo o a quell’altro: «La nuova miseria, sottoposta alla disciplina, conduceva alla mansuetudine ma, allo stesso tempo […] in modo febbrile si cercava l’origine del male che aveva falciato l’opulenza della vita e, ogni volta con maggior disprezzo, si respingevano tutte le spiegazioni ragionevoli che le autorità cercavano di dare». A seguire, bar, ristoranti e cinema iniziano a chiudere per mancanza di clientela; concerti, spettacoli teatrali ed eventi di ogni tipo vengono rimandati. Niente sport. E la gente prende a uscire di casa «solo per andare alla ricerca dello stretto indispensabile [:] il cibo e lo stipendio». Con tanto di accaparramento di provviste per «il timore di una possibile carenza». Così, unitamente alla «costante presenza di pattuglie di polizia e la comparsa sempre più insopportabile di ambulanze» si rafforza nei cittadini l’idea di trovarsi al centro di «una battaglia che, però, non lasciava segni di distruzione. Tutto era intatto. Non c’erano rovine né altri segni di devastazione. Non si vedevano forze contrapposte. Nessuno si faceva la guerra e, nonostante ciò, si rafforzò la certezza che una guerra, in effetti, fosse in corso». Fino a che le passeggiate non vengono abolite del tutto, non senza conseguenze: «I blocchi fecero infuriare la folla di persone, i cui animi si andarono infiammando via via che si riduceva la loro libertà di movimento». C’è chi agita lo spettro della dittatura, chi quello della bancarotta collettiva e del licenziamento di massa, chi profetizza che l’economia avrà l’ultima parola su ogni cosa. «In tali circostanze i messaggeri della sventura agirono con indiscutibile efficacia, scaricando le voci nelle orecchie avide della popolazione. Quanto più il messaggio era oscuro, tanto più il successo del suo impatto era grande. Ecco perché, mentre alle informazioni ufficiali si dava scarso valore, a quelle dei messaggeri, ricche di congetture, si prestava ascolto con morboso interesse» (di questo parleremo più in dettaglio nel prossimo paragrafo). «Manca una mistica all’altezza dei tempi» osserva in confidenza il ministro Penalba, della “task force” per la censura, nel corso di una cena; e, qualunque cosa abbia inteso con quelle parole, potrebbe quasi sembrare che abbia ragione.
Ora, al di là delle mille similitudini, ci si potrebbe domandare: gli esanimi sono come i nostri sfaccendati? Certamente no: foss’anche solo perché essi non passano la giornata a lamentarsi. Ma, soprattutto, perché sono le vere vittime dell’“epidemia”. Tuttavia, a questo riguardo, l’incredibile storia dello scrittore spagnolo ci aiuta a rispondere alla domanda che abbiamo lasciata inevasa alla fine del paragrafo precedente: come è possibile che siano diventati tutti di colpo degli sfaccendati?
Ora, se è vero che «la verità è di rado pura e mai semplice»[12], pretendere una spiegazione esaustiva e a buon mercato è forse eccessivo. Ma un elemento molto significativo può fornircelo, appunto, Argullol: «“Come vedi, tutto resta come prima — dice ancora Max Bertrán al protagonista, Victor. — Se vuoi che ti dica la verità, credo che in fondo abbiano ragione quelli che insinuano che non è successo nulla: non è successo nulla che non stesse succedendo già da un anno, e anche molto prima». È questa probabilmente la miglior chiave di lettura, poiché giace in un’impressione che abbiamo spesso avuto e della quale solo ora, di fronte al virus, riceviamo una conferma: l’impressione, evidentemente corretta, che queste persone fossero sfaccendate anche prima. Che il loro esser tanto impegnate fosse solo una parvenza e che oggi non abbiano niente da fare, proprio come ieri. Scopriamo che probabilmente la loro apparenza di persone impegnate non era una caratteristica ontologica: non un tratto della loro personale essenza, ma una modalità di quella stessa inerzia che vivono oggi. Se fai mille cose solo per inerzia — solo perché, per così dire, ti trovi nel ballo e adesso continui a ballare — è più facile che tu passi al non far niente, per la stessa inerzia, anziché cambiare il motore delle tue giornate (l’inerzia, appunto). Insomma: uno che ha tanto da dire non è che possa smettere all’improvviso; ché, anche quando accadesse, ti chiederesti perché stia tacendo e cosa tirerà fuori dal cilindro appena ricomincerà. Questi invece straparlavano prima, all’aperitivo in piazza e straparlano adesso, davanti alla teglia di lasagne; di concreto, niente. È solo caduto il velo del loro contegno e adesso tutti li vediamo per quello che sono realmente: vacuo chiacchiericcio di chi, invece di vivere la propria vita impugnandola giorno per giorno con determinazione, se la lascia scorrere addosso in attesa di… di che? Di Itaca, caro Kavafis?
E adesso: pubblicità.
[12] È la sentenza di Algernon nell’Importanza di chiamarsi Ernesto.