
Sintomi
Uomini e donne che devono muoversi se no impazziscono. C’è chi ha rifiutato il lavoro agile per poter uscire di casa “per necessità lavorativa”. Gente che, per lo stesso motivo, è andata a lavorare senza retribuzione. Sembrano boutade ma non lo sono.
Quattro secoli fa Pascal scriveva[4]:
Quando, a volte, mi sono messo a considerare le varie agitazioni degli uomini, i pericoli e le sofferenze a cui si espongono, nella Corte, in guerra, da cui nascono tanti litigi, passioni, imprese coraggiose e spesso ingiuste, ecc.; ho scoperto che tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola cosa: l’incapacità di starsene tranquilli, in una camera. Un uomo, che ha abbastanza mezzi per vivere, se sapesse starsene con piacere a casa sua, non ne uscirebbe per andare sul mare, o all’assedio di una fortezza. Non si comprerebbe così a caro prezzo un grado nell’esercito se non si trovasse insopportabile non muoversi dalla città, e si cercano le conversazioni e i divertimenti dei giochi soltanto perché si è incapaci di starsene con piacere a casa propria.
Non è certo una novità di questi tempi, quindi, anche se nessuno è riuscito a scoprire quali siano le radici di tale incapacità, a causa della quale gli uomini sono disposti a mettere a repentaglio la loro stessa incolumità. Condizione che è arrivata ad alterare la percezione della situazione generale: di fronte al sacrificio di professionisti, in primo luogo quelli del personale sanitario, è assurdo che chi resta a casa possa lagnarsi senza al contempo vergognarsi per la propria posizione privilegiata.
Con un meccanismo simile, molti non hanno mai smesso di lamentarsi della restrizione della libertà. D’un colpo gli italiani hanno scoperto di essere un popolo di runner, termine fino a un giorno prima ignorato dai più. Il baretto, la corsa, l’incontrarsi con gli amici o anche il semplice “prendere una boccata d’aria” diventano simboli di una normalità mortificata da ripristinare al più presto. Ma è veramente questa la normalità? ci si chiede. Solo questa, nient’altro? Sarebbe forse legittimo aspettarsi qualcosa di più, soprattutto quando se ne rivendichi la necessità. Ma la percezione è così alterata che non si capisce quanto di poca cosa si tratti. Paradossale che ad affliggersi non siano tanto i bambini — che più di chiunque altro risentono certamente della reclusione e del non poter correre con gli amici o in bicicletta, in specie all’arrivo della primavera e che per la loro età potrebbero meglio venir giustificati — ma proprio quegli adulti che dovrebbero rasserenarli[5]. Eppure, dovrebbe essere evidente che non si può certo pretendere la normalità nel bel mezzo di un’emergenza che ha investito il mondo intero. Questo, sì, lo capisce anche un bambino.
Non ha aiutato, come sempre, il cattivo uso delle parole. Parlare di “quarantena” è stato fuori luogo e ha contribuito ad alimentare il senso di costrizione: in quarantena viene messo chi si ipotizza possa avere una malattia infettiva contagiosa. Ma tutti quelli che rimangono a casa sono convinti di star bene: convinzione che diviene certezza col passare dei giorni. (Non si tratta di una sottigliezza linguistica: chiunque, indipendentemente dal livello di istruzione e di raffinatezza lessicale, associa mentalmente “quarantena” a “malattia”). L’intento della legge che ha stabilito l’isolamento era invece opposto: tutelare la salute di chi rimane a casa non evitando che potesse diffondere il virus, ma che potesse contrarlo. Cosa che è stata chiarita fin da subito. Ma, come ben sanno i creativi delle réclame, una sola parola ad effetto vale più di mille spiegazioni.
Similmente, il «Siamo in guerra», uno dei tanti slogan di questo periodo, ha contribuito a peggiorare la situazione: sbagliato di diritto — in quanto in guerra non siamo — è stato solo un modo per esasperare una percezione già falsata della reale entità del problema. Martina Carone e Giovanni Diamanti annotano[6] che la politica si è servita della retorica della guerra (Macron ha citato la parola guerre sette volte nel suo discorso alla nazione) per creare un «clima d’opinione da unità nazionale». Clima che, manco a dirlo, «non durerà».
C’è gente che — si ribadisce, con tutto il rispetto per chi ha sofferto e soffre sul serio — sostiene di “non riuscire più a leggere”, come in preda a una specie di sindrome da stress post-traumatico[7]. Disturbo che, con un minimo di disincanto e di distanza critica, non può non apparire velleitario: di uno che, di fatto, ignori cosa la guerra sia davvero. Com’è diversa la loro voce da quella del vecchio in La ragione del male di Rafael Argullol (ne parleremo fra poco): «Stanotte, dopo ciò che le ho raccontato, sono rimasto sempre sveglio. All’inizio non potevo dormire per la paura e la rabbia, ma poi mi sono tranquillizzato. Allora mi sono reso conto che non volevo dormire. Non perché avessi paura, ormai non ce l’avevo più, ma perché trovavo gradevole pensare. Ho pensato e ripensato a molte cose e ho finito col ringraziare di essere vivo. Ho pensato anche alla morte, che sicuramente mi è vicina sebbene io non l’avverta. Le assicuro che non ho un timore speciale, ma mi disturba perdermi lo spettacolo della vita. Soprattutto le sue piccole sfumature. Man mano che invecchio trovo le sfumature sempre più importanti. Aiutano molto. Forse per questo vedo con una certa serenità ciò che ci sta accadendo. Le sfumature possono arrivare a compensare un po’ la parte più negativa delle cose. Lo so che potremmo vivere tempi migliori, non lo nego. Ma io mi ci sono adeguato». Quant’è giovane quell’uomo al loro confronto.
In fondo, basta pensare che Anna Frank — vissuta e prematuramente perita durante una guerra vera, che includeva peraltro una persecuzione esplicitamente mirata al suo popolo — scriveva il suo diario e viveva la sua più bella storia d’amore… e tutto torna ad apparire nella sua luce più giusta.
[4] Pascal, Pensieri, n. 139, p. 57.
[5] Anche i bambini hanno infatti risentito della “perdita di socialità”, anzi “per primi”, manifestando «il desiderio di tornare a scuola» (come annota Marco Aime nel saggio “Ricostruire relazioni”, in Aa.Vv., Dopo il virus). Non a caso molte delle pubblicazioni “instant” di questo periodo sono rivolte ai bambini. Si segnalano i due libri di Francesca Dell’Ara per Erickson, uno dei quali (Storia di un coronavirus) «pone un’attenzione specifica ai bambini con bisogni comunicativi complessi e disturbi del neurosviluppo, attraverso una versione adattata e tradotta in simboli con gli strumenti della comunicazione aumentativa, secondo il modello inbook». A testimonianza del grado di attenzione riservato alla fascia dei più piccoli in questo periodo.
[6] Nel saggio “La comunicazione politica dopo il coronavirus. Il caso italiano”, in Andrea Ferrazzi (a cura di), Il mondo che (ri)nasce.
[7] L’Osservatorio AIE (Associazione Italiana Editori) ha reso noto che, nel primo semestre 2020, la lettura in Italia è calata significativamente nel nostro Paese rispetto ai dodici mesi precedenti (dove già era, come noto, bassa). I dati sono sintetizzati qui: https://tinyurl.com/calolettura. È interessante osservare che la motivazione “Le preoccupazioni e il timore generato dall’emergenza mi hanno tolto molto la voglia e il piacere di leggere” è stata indicata tra le altre motivazioni da 1 persona su 3 (33%), mentre il 14% l’ha indicata come causa principale. Ancora più interessante è che il 47% abbia indicato tra le cause di “aver avuto poco tempo libero da dedicare alla lettura”. Praticamente 1 persona su 2. Poco tempo. Durante il lockdown.