A Raimon Panikkar e Maurice Bellet
maestri della durezza e della pienezza della vita

Entriamo in un mondo strano, un mondo a testa in giù. Nelle aziende, l’assenteismo assunse proporzioni catastrofiche. Il personale non contestava né rivendicava alcunché. Semplicemente, non ci andava più. Non era uno sciopero, era una fuga. […] Chi contemplava la natura, chi scriveva poemi in prosa, chi imparava il greco antico, o la matematica, o a suonare l’organo, chi faceva pesca a spinning, scriveva un diario o corteggiava sua moglie, chi allevava i suoi figli, chi passeggiava in campagna ascoltando i suoi pensieri. […] Ora cominciamo a prendere consapevolezza, piuttosto diffusamente, ciò che fino a quel momento si era tenuto accuratamente nascosto: cioè che l’80% del lavoro umano non serve a niente, se non a mantenere la gente al lavoro.
(Maurice Bellet, Octone, pp. 12-13)
La condizione di segregazione coatta della maggior parte della popolazione mostra con evidenza, almeno nelle società a capitalismo avanzato d’Occidente, un dato ben noto agli analisti dei sistemi produttivi. Ovvero, che il lavoro sociale necessario al funzionamento del sistema generale, grazie allo sviluppo dell’automazione, rende sempre meno necessario il coinvolgimento nella produzione della maggioranza della popolazione, e anzi, è sufficiente una quota molto limitata dei lavoratori per garantire la sussistenza di ampi strati di popolazione.
(Pierre Dalla Vigna, I non-luoghi del Coronavirus)
Marzo 2020
A causa dell’incipiente epidemia di “coronavirus”[1] (di seguito “virus”) cominciano le restrizioni al movimento, stabilite per legge, con le quali i cittadini italiani vengono sostanzialmente confinati in casa propria al fine di evitare il diffondersi del contagio.
Con le dovute eccezioni: il personale sanitario (medici, infermieri…) resta in servizio, così anche quello addetto alla sicurezza (forze dell’ordine, protezione civile ecc.). L’industria si ferma, salvo quella essenziale (come nel caso delle aziende riconvertite alla produzione sanitaria), così anche la distribuzione (anche qui con l’eccezione di farmacie, alimentari ecc.). Il lavoro agile — o smart working, all’inglese — svolto da casa propria, diventa la modalità ordinaria di lavoro per la pubblica amministrazione[2] e molte aziende private vi fanno ricorso scoprendone i vantaggi. Insomma: di casa esce solo chi vi è costretto, dal lavoro o dalla indifferibile necessità.
L’insofferenza comincia a montare da subito. I primi giorni, in molti semplicemente ignorano le disposizioni di legge, continuando a uscire di casa più volte al giorno, privi di qualunque dispositivo di protezione individuale (mascherine ecc.), senza il benché minimo rispetto delle prescrizioni per la sicurezza (in primo luogo il metro di distanza). Giovani e allegroni di ogni età vengono ripresi mentre si affollano nei locali ancora aperti, menando vanto al microfono di non voler rinunciare alla normalità, di fregarsene di quello che considerano un inutile allarmismo, di “bere alla faccia del virus”. Contro questa deriva, partono subito le iniziative online: molti personaggi pubblici, non solo uomini di spettacolo, mettono in rete video in cui si mostrano alle prese con le più svariate attività. L’hashtag #iorestoacasa impazza sui social network e diventa un mantra che perdura fino a quando di fatto, più di un mese dopo, già non ce n’è più bisogno da un pezzo; infatti, alla metà di marzo, la cosa si è fatta molto seria: le misure di contenimento crescono parallelamente al numero delle vittime e quegli stessi locali — fino a poco prima autorizzati all’apertura fino alle 18 — vengono subito chiusi. I controlli a tappeto sul territorio diventano serrati e chi viene fermato per strada è tenuto ad autocertificare la propria necessità. Chi non ha un motivo valido viene sanzionato anche penalmente.
Qui l’insofferenza arriva a uno stadio successivo: la gente inizia a comprendere che a casa deve rimanerci per legge e che non sarà una questione di pochi giorni. E il problema, che inizialmente era legato al divieto di uscire e di svolgere attività all’esterno, si sposta di colpo su un altro versante. Ciò che inquieta i tanti non è più ciò che non si può fare ma, al contrario, ciò che si può fare. Perché c’è stato un capovolgimento repentino di prospettiva che è arrivato a tutti: svanita la routine, e ogni dovere sociale, ciascuno è libero di fare letteralmente ciò che gli pare del suo tempo. Soprattutto coloro che non devono tornare al lavoro né svolgerlo in modalità agile. È il momento in cui la difficoltà mostra il volto dell’opportunità. Eppure l’inquietudine continua a dilagare. Ben presto il motivo si fa chiaro: molti stanno scoprendo che non sanno che farsene della loro giornata. Tolte le abitudini, le convenzioni, gli obblighi, non si ritrovano nulla per le mani. Questa libertà, come dire, li soffoca.
«Quando una società è malata — scrive Maurice Bellet, filosofo e teologo francese scomparso due anni fa all’età di 94 anni, tratteggiando il passaggio dagli anni del boom industriale a quelli odierni del liberismo di stampo anglosassone — il sintomo diventa evidente in un certo tipo d’uomo. Molti anni fa, nel contesto operaio, l’uomo-sintomo era lo “sfruttato”. Ora non si usa più questo termine, si parla di “escluso”, che “aspira” a essere sfruttato». Farò uso di questa categoria del pensiero di Bellet per porre la domanda: qual è l’uomo-sintomo di questo passaggio che è ancora troppo presto per definire “epocale” ma che può già essere detto globale, in cui il virus ha messo l’uomo faccia a faccia con la propria incapacità di gestire la libertà?
L’uomo-sintomo di questi giorni è lo sfaccendato. Affermazione che mi propongo di seguito di argomentare, mostrando che questo uomo è a sua volta malato (proprio come nel caso degli sfruttati e degli esclusi appena citati); illustrandone i sintomi; e provando a gettare infine uno sguardo su ciò che potrà essere del futuro una volta che l’emergenza sarà rientrata del tutto.
È necessaria una premessa. Sono stati giorni difficili per molti, per qualcuno in particolare. C’è chi ha pianto i proprio morti senza poterne nemmeno celebrare il funerale. C’è chi ha dovuto affrontare l’emergenza in solitudine o in povertà. Altri hanno avuto problemi opposti: costretti a stare in molti negli angusti spazi di una dimora insufficiente o inospitale, come nel caso delle donne vittime di violenza domestica chiuse in casa con i loro aguzzini; sofferenza multiforme che sconfina anche nel sonno, recando disturbi fino ad arrivare nei sogni[3]. D’altro canto, per un certo tipo d’uomo la difficoltà è stata diversa: quella di dover fare i conti con se stesso e con la propria essenza. Come ha scritto Marco Senaldi in L’astuzia del Coronavirus, «l’epidemia […] ha costituto il banco di prova del carattere morale di ciascuno: i truffatori non sono mancati, il popolo si è lasciato sopraffare dalla paura […] qualcuno ha invocato Dio e la sua misericordia, qualcun altro si è rivelato eroe nel momento del bisogno. Per tutti il virus ha costituito il momento della verità, la pietra di paragone che svela la vera stoffa di cui è fatto un uomo».
È sulla questione del carattere morale che si andrà a riflettere di seguito. È il momento della verità.
[1] Il termine “coronavirus”, generalmente utilizzato in riferimento al virus SARS-CoV-2 (Severe Acute Respiratory Syndrome – Coronavirus – 2), è in realtà il nome di una sottofamiglia di virus cui il SARS-CoV-2 fa parte. COVID-19 (COronaVIrus Disease 19), termine generalmente trattato come sinonimo di SARS-CoV-2, è invece il nome della malattia generata dal virus.
[2] Articolo 87, comma 1 del Decreto-Legge “Cura Italia” numero 18 del 17 marzo 2020. Cfr. la Circolare n. 2/2020, art. 2 e la Direttiva n. 3/2020, entrambe del Ministro della Pubblica Amministrazione.
[3] Come raccontato da Alessia Marconcini nel suo “Mi ritrovo dinanzi a uno specchio”.
22 agosto 2021 alle 13:52
“Questa libertà, come dire, li soffoca”. Interessante questo rovesciamento riguardante il mai troppo indagato tema della Libertà. Rovesciamento che si collega direttamente con la responsabilità dell’agire. Attendo con ansia le prossime parti.
24 agosto 2021 alle 07:20
È questo il punto di arrivo: abituarsi a scagliarsi contro ciò che non si può dominare (cosa c’è di meglio che una pandemia?), lagnandosi della mancanza di libertà, per potersi infine deresponsabilizzare del tutto (i complotti, i poteri forti…) Meno azione, più informazione (di modo che nulla cambi). Mi sembra una tendenza in crescita.