Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

“La scienza non pensa”. Scienza e verità all’epoca della pandemia.

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“La scienza non pensa. Non pensa perché – in conseguenza del suo modo di procedere e dei suoi strumenti – essa non può pensare. Che la scienza non sia in grado di pensare non è per nulla un difetto, ma un vantaggio. Solo in virtù di questo la scienza può dedicarsi alla ricerca sui singoli ambiti di oggetti e stabilirsi in essa. La scienza non pensa.”

Ogni ricercatore, sfuggendo al riflesso condizionato del fastidio, dovrebbe riflettere a fondo sul senso di questa scandalosa affermazione. Cosa intende dire Heidegger? Per comprenderlo è necessario interrogarsi sulla domanda che dà il titolo al manoscritto in cui essa è contenuta: “Che cosa significa pensare?”[1].

Pensare (pensare in primo luogo cosa sia essere e cosa sia nulla) è una necessità vitale. L’uomo ha bisogno di salvarsi. Da cosa? Da quello che Nietzsche chiama il grande abisso. “Non è l’uomo in ogni istante di fronte all’abisso? Non è la vista stessa, vedere abissi?” chiede Zarathustra[2]. Secoli prima, originariamente, il pensiero greco fonda la cultura dell’Occidente a partire dal bisogno di salvezza da ciò che appare come l’evidenza suprema: le cose, tutte le cose, noi stessi e ciò che amiamo in primo luogo, nascono e muoiono, annientandosi. Pensare significa pensare l’essere che salva. All’origine del pensiero, porre la verità dell’essere di fronte all’uomo è la forma primordiale di salvezza dal divenire. Nel pensare la salvezza dal divenire, la volontà pone la verità immutabile di fronte ai mortali, per consentire loro di vivere. La verità assoluta, traendo salve dal nulla tutte le cose, è la forma suprema di salvezza. Con la verità immutabile l’uomo stabilisce la sua Sacra Alleanza, uniformandosi all’eterno e vincendo l’annientamento e la morte. Anche il Cristianesimo è una declinazione dello sviluppo di questa sacra alleanza fra cielo e terra. Al culmine del Nuovo Testamento, e sono le parole ripetute ogni giorno nella Liturgia, Gesù dice: “Questo è il mio sangue, versato per voi per la nuova ed eterna alleanza”. A Pilato che chiede che cos’è la verità (il sublime scetticismo della migliore nobiltà romana, direbbe Nietzsche) nel Vangelo di Giovanni non c’è risposta, ma nel Vangelo di Nicodemo Gesù risponde: “la verità è del cielo”[3].

Cosa c’entra questo con la scienza e con i ricercatori? C’entra molto. Perché finché il pensiero ha detto alla scienza che esiste la verità assoluta, la scienza ha definito le leggi eterne della fisica, i principi immutabili del diritto naturale, i canoni fissi dell’estetica e dell’arte.

Ma se il cielo è troppo avvinghiato alla terra, allora la terra non respira e, come è splendidamente rappresentato dal mito di Urano, Gea e Crono, è necessario liberarsi dall’abbraccio mortale[4]. Crono deve evirare e uccidere il padre Urano, perché la madre terra viva[5]. Se ogni cosa del mondo non può che essere conforme alla verità immutabile, allora non c’è posto per la volontà dell’uomo. “Come potrebbero gli uomini essere creatori, se esistessero gli dei?” chiede Zarathustra[6]. La verità assoluta, il sacro onnipotente, il dio onnisciente che la volontà ha creato come rimedio di fronte all’abisso, diventa vincolo insopportabile e negazione dell’evidenza suprema: il divenire. È necessario rompere la barriera che la stessa volontà ha costruito come salvezza dal dolore imprevedibile, proprio per consentire al divenire di esistere. Frantumare la cappa asfissiante della verità eterna e lasciare che irrompa il mare aperto del divenire. “Il mare è in tempesta, … adesso siate navigatori coraggiosi e pazienti” esorta Zarathustra[7]. È il tempo dell’ospite inquietante[8]. E’ l’essenza del nichilismo[9]. È il cuore del tempo che viviamo, in cui ciò che esiste è solo il divenire, la storia, il nascere e il morire di ogni cosa. Non si tratta di una moda, di una scelta o di una inclinazione contingente. Ma dell’inevitabile luogo dove conduce “il pensiero che pensa l’essere, e che nell’essere pensa il niente”[10].

Cosa c’entra questo con la scienza e con i ricercatori? C’entra molto. Perché da quando il pensiero ha detto alla scienza che non esiste la verità assoluta, che non esiste alcun immutabile, la scienza ha ridefinito i principi che la regolano come statistico probabilistici e si è trasformata in esercizio ipotetico deduttivo, in machine learning, nel “crepuscolo della probabilità”[11].

Oggi al culmine del dominio della tecnica, quando l’Angelus Novus dipinto da Klee sembra guardare non più le macerie della Storia, come nell’interpretazione di Walter Benjamin[12], ma le rovine del pensiero che voleva l’immutabile, la scienza riconosce di avere rinunciato alla verità. Come spiegava Heidegger, lungi da essere un limite, questa è la forza della scienza contemporanea. La distruzione dell’immutabile rende tutto disponibile alla scienza, aumentandone smisuratamente la potenza. Ma allo stesso tempo la trasforma in un apparato super potente, senza limiti, ma privo della verità.

In questo contesto, inevitabilmente, la scienza contemporanea passa da un paradigma per il quale da un’osservazione sperimentale è possibile inferire una legge naturale generale (immutabile e incontrovertibile), ad un paradigma nuovo ed all’apparenza più debole. Quello per il quale l’osservazione di un fenomeno nel campione può consentire di inferire cosa accada nella popolazione generale, in probabilità. Ogni risultato scientifico vale in probabilità e il dibattito scientifico consiste nello stimare, correggere, ridefinire tali stati di probabilità. La verità scientifica è semplicemente un provvisorio stato di conoscenze a cui provvisoriamente la comunità scientifica tende ad attribuire un elevato livello di probabilità. Nelle vicende legate all’attuale pandemia, questo dibattito non si è svolto, come di consueto, per i più svariati ambiti scientifici, nelle aule delle università, nei convegni e nei seminari specializzati o sulle riviste impattate, ma direttamente sui canali di comunicazione di massa. Ma su tali canali la consapevolezza del carattere ipotetico deduttivo della scienza contemporanea non è per nulla acquisito e la conseguenza è stata una immagine di debolezza dei risultati scientifici. In realtà, come già mostrato con forza da Thomas Kuhn, il vero avanzamento scientifico è per sua natura sempre una rivoluzione[13]. Cioè un processo di distruzione e di sovvertimento dell’ordine precedentemente dato, e non può quindi che costituirsi in modalità dialettiche e conflittuali. Se ciò vale per l’insieme delle discipline scientifiche (riguardando la questione del processo che conduce ad acquisire elementi di conoscenza), vale in modo determinato per l’epidemiologia che per sua natura si muove sul terreno del rapporto che esiste fra osservazione di fenomeni collettivi e scienza dell’individuo. Può succedere di ascoltare dispute fra clinici e epidemiologi nei quali si intravedono riferimenti culturali per cui, da un lato, si ha la tendenza a sostenere che ciò che è misurato in una collettività (per esempio una misura del rischio, 0<p<1) non possa dire nulla per un soggetto determinato (che può essere solo sano (0) o ammalato (1)), dall’altro che ciò che può essere misurato in un campione non può non valere (così com’è e per intero) per il singolo soggetto. E’ straordinariamente stimolante riflettere su come lo stesso paradigma concettuale del senso della probabilità come strumento di interpretazione degli stati del mondo “prima” dell’osservazione (perché nel momento dell’osservazione, si realizza un solo stato determinato del mondo), sia rintracciabile nei principi cardine della fisica quantistica. Per cui un gatto può essere contemporaneamente sveglio e addormentato ed il suo stato dipende esclusivamente dalla relazione che si instaura con l’osservatore al momento dell’osservazione[14].

Il corto circuito tocca il vertice più critico nelle aule giudiziarie, dove sempre più spesso le consulenze degli epidemiologi sono essenziali all’accertamento delle responsabilità. Succede quindi regolarmente che agli epidemiologi vengano poste domande che sono utili all’accertamento di responsabilità penali individuali. Ma in che modo le osservazioni epidemiologiche, che sono per lo loro natura relative a fenomeni collettivi, debbano essere utilizzate per definire in maniera certa responsabilità individuali rispetto ad effetti sulla salute che riguardano singoli soggetti, è questione in larga parte ancora scarsamente o inadeguatamente trattata. Non solo perché è insufficiente la riflessione sul significato della teoria delle probabilità e sui metodi del suo utilizzo nelle aule di tribunale, ma perché è spesso assente la comprensione del carattere statistico probabilistico della scienza contemporanea ed ancor di più della ragione ontologica di tale caratteristica. In altri termini se si chiede ad una scienza dei fenomeni collettivi (come l’epidemiologia) di rispondere su questioni che riguardano il singolo soggetto (come quelle trattati in ambito di responsabilità penale), allora ci si deve dotare di strumenti concettuali in grado di trattare adeguatamente le nozioni di probabilità, incertezza, rischio e si deve comprendere che la scienza contemporanea, per ragioni essenziali che riguardano il suo sviluppo storico e le ragioni ontologiche che si ricordavano prima, può esprimersi unicamente in termini ipotetico deduttivi e con strumenti probabilistici. Altrimenti di fronte alle domande rivolte ai consulenti epidemiologi in tribunale, sarebbe assai più rigoroso attestarsi sulla risposta con la quale si chiude la riflessione sul significato della metafisica e sulle proprietà del linguaggio in Wittgenstein: “su ciò di cui non si può parlare, bisogna tacere”[15].

“Orbene io ti dirò e tu ascolta attentamente le mie parole, quali vie di ricerca sono le sole pensabili: l’una “che dice” che è e che non è possibile che non sia, è il sentiero della Verità; l’altra che dice che non è e che non è possibile che non sia, questa io ti dichiaro che è un sentiero del tutto impraticabile: perché il non essere né lo puoi pensare, né lo puoi esprimere. Perché il pensare implica l’esistere”[16].

La scienza contemporanea si è trasformata da strumento di ricerca delle leggi eterne della natura a strumento di interpretazione statistico probabilistica degli eventi osservati. Ma per comprendere la ragione profonda di tale percorso e la sua inevitabilità, è necessario ripercorrere e tenere sempre alla luce i passi essenziali della riflessione sul senso dell’essere e del divenire che origina in Occidente dalle magnifiche parole di Parmenide appena ricordate. In ambito scientifico, anche quando la consapevolezza della natura della scienza contemporanea è completa, si tende spesso ad identificare nello sviluppo intrinseco della ricerca scientifica il motore del percorso di distruzione dell’immutabile. Il progredire della tecnica e della scienza avrebbe di per sé e per sua forza endogena mostrato via via l’impossibilità delle grandi costruzioni metafisiche. Al contrario si tratta di comprendere come i risultati della ricerca scientifica non sono la ragione del rifiuto dell’idea della verità eterna ed incontrovertibile, ma la conseguenza di un percorso determinato ed inevitabile del pensiero metafisico. La natura dei metodi della ricerca scientifica (e quindi il carattere dei suoi risultati) è stata determinata storicamente dall’idea del senso ontologico di essere e divenire, È lo stato della riflessione sull’essere a determinare le prassi scientifiche. La potenza senza limiti della tecnica è resa possibile dal rifiuto epistemico dell’incontrovertibile e in questo senso si deve avere cautela nell’interpretare le grandi costruzioni metafisiche della tradizione (pensiero filosofico positivo, cristianesimo, comunismo, capitalismo e democrazia) sconfitte dalla tecnica e da una sua intrinseca volontà di potenza. L’abbandono del senso della verità incontrovertibile e definitiva non deriva dallo sviluppo tecnologico e scientifico e non rappresenta un percorso casuale o reversibile, ma è l’inevitabile conseguenza della riflessione sull’essere e sul divenire che è costitutiva dell’identità dell’Occidente a partire dal momento in cui in Grecia i grandi pensatori prima di Socrate pongono originariamente la domanda inaudita: cos’è essere e cos’è nulla[17]?

Di fronte alla dicotomia essenziale di essere e divenire, Parmenide, all’origine del pensiero occidentale, dà la risposta più potente ed implacabile. Le parole del “padre venerando e insieme terribile” (così Platone definisce Parmenide, maestro amatissimo ma terrificante e da cui bisognerà emendarsi, come in un parricidio) sono la risposta più poetica ed allo stesso tempo più profonda che sia possibile immaginare. Di fronte a questa potenza immaginifica che vuole l’essere come un macigno inflessibile e intangibile come il monolite di Kubrik e che impedisce di concepire il divenire, nella storia del pensiero si è posta la necessità di spiegare lo svolgersi del tempo, della storia, della volontà e di dare senso alle scelte dell’uomo. Platone non vedrà altre uscite che uccidere il “padre”, che ha negato l’esistenza del divenire[18]. Come nel mito di Urano, di nuovo un parricidio all’origine del mondo.

Da allora, attraverso le pagine fondanti del pensiero e delle opere dell’Occidente, è stato evocato un senso inaudito del nulla da cui le cose nascono e del nulla in cui si annientano[19]. Il divenire è reso possibile se si introduce la nozione di come un ente diviene nel senso che un altro ente cede ad esso ciò che costituiva il suo essere, perdendolo per sempre. Come ha mirabilmente mostrato Emanuele Severino con profondità inarrivabile, questa idea del divenire che oggi è data per acquisita, come l’evidenza suprema e mai messa in discussione è all’origine dell’alienazione contemporanea[20]. L’angoscia insopprimibile che ne deriva deve trovare salvezza e la volontà crea la verità immutabile e incontrovertibile come rimedio supremo, ponendo le cose (le opere degli uomini e noi stessi in primo luogo) al riparo dalla potenza del divenire. Le grandi costruzioni metafisiche dell’Occidente sono le espressioni di tale rimedio. Ma nel momento in cui l’uomo vuole la verità immutabile altro da sé, essa domina non solo il presente, ma il passato e il futuro. Lo spazio per la volontà dell’uomo si annienta anch’esso e per riconquistarlo c’è un’unica strada: uccidere la verità. “Dio è morto e il nostro mare è di nuovo aperto, forse non ci fu mai un mare così aperto” dice il viandante di Nietzsche nella Gaia Scienza. E subito dopo riflette impaurito: “Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione?”[21]. Ancora oggi la riflessione sulla grandezza, sulla inevitabilità e sulle conseguenze di questa azione per la scienza contemporanea è un tema aperto. Anche per l’epidemiologia.


[1] M. Heidegger, (1952), Che cosa significa pensare? traduzione italiana di U. Ugazio e G. Vattimo, Sugarco edizioni, Milano 1988

[2] F. Nietzsche, (1885), Così parlò Zarathustra (libro per tutti o per nessuno), Della visione e dell’enigma, Edizioni Ghelfi, Milano.

[3] G. Agamben, (2013), Pilato e Gesù, Nottetempo, Milano

[4] Esiodo, Teogonia, in Graziano Arrighetti (a cura di), Esiodo, Opere, Mondadori, Milano, 2007., Collana Bur, Milano, Rizzoli, 1959.

[5] J.P. Vernant, (2005), L’universo, gli dei, gli uomini, Einaudi, Milano

[6] F. Nietzsche, (1885), Così parlò Zarathustra (libro per tutti o per nessuno), Nelle isole beate, Edizioni Ghelfi, Milano.

[7] F. Nietzsche, (1885), Così parlò Zarathustra (libro per tutti o per nessuno), Di antiche tavole e nuove, Edizioni Ghelfi, Milano.

[8] U. Galimberti, (2007), L’ospite inquietante, Feltrinelli editore, Milano

[9] E. Severino, (1997), L’essenza del nichilismo, Adelphi, Milano

[10] M. Heidegger, Essere e tempo. Edizioni Longanesi Milano, 1976

[11] P. Vineis, (1999), Nel crepuscolo della probabilità, Einaudi editore, Milano

[12] W. Benjamin, (1962), Angelus Novus, Einaudi editore, Milano

[13] Kuhn T, (2009) La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi editore, Torino

[14] Rovelli C, (2020) Helgoland, Adelphi edizioni, Milano

[15] Wittgenstein L, (1962) Tractatus logico-philosoficus, Einaudi Editore, Torino

[16] Parmenide, Della Natura, frammenti; in H. Diels e W. Kranz, (2006), I presocratici, frammenti. Traduzione Giovanni Reale. Laterza, Milano

[17] H. Diels e W. Kranz, (2006), I presocratici, frammenti. Traduzione Giovanni Reale. Laterza, Milano

[18] Platone (2000), Parmenide in Tutti gli scritti. Curatore Giovanni Reale. Bompiani, Milano.

[19] E. Severino, (2012), Nichilismo e destino, Book time, collana Vale Philosophia! A cura di L. Tellaroni, Circolo filologico milanese.

[20] E. Severino, (2010) Ritornare a Parmenide in Essenza del nichilismo, Adelphi edizioni, Milano

[21] F. Nietzsche, (1882), La Gaia Scienza, Adelphi edizioni, Milano

One thought on ““La scienza non pensa”. Scienza e verità all’epoca della pandemia.

  1. Un guazzabuglio di frasi fatte e orecchiate. Severino non aveva dimestichezza con la scienza. La scienza non è interpretazione statistico-prob. di eventi osservati: non si occupa dell'” essere” ma piu’ modestamente di enti che definisce operativamente

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