PER UNA DEFINIZIONE DELLA CULTURA
Propriamente parlando, esiste solo un aspetto della filosofia per Nietzsche, e questo è la cultura o, più precisamente l’essere umano come produttore di cultura 1.
Con questa osservazione, posta da Tongeren in una delle pagine iniziali del suo lavoro su Nietzsche Reinterpreting modern culture, viene centrato uno degli aspetti fondamentali della filosofia nietzscheana che viene, però, a porre anche un problema fondamentale per la comprensione stessa del quesito: cosa bisogna intendere per cultura? A cosa si fa riferimento quando incontriamo in Nietzsche il termine cultura? La cultura viene intesa semplicemente come la raccolta totale dei prodotti umani che determinano il pensiero fino ai giorni nostri o in questo termine si nasconde un qualcosa che allude ad un movimento peculiare dell’uomo, ad un aspetto dinamico in continua fermentazione?
La risposta di Nietzsche non è immediata e tanto meno definitiva: già dal primo comparire di questo dilemma, esposto nella terza delle Considerazioni inattuali, Schopenhauer come educatore, e messo a fuoco con maggiore sistematicità in Sull’avvenire delle nostre scuole, risulta palese la mancanza di una soluzione definitiva al problema, ma più che altro l’intima contraddizione dovuta al fatto che «si attacca la cultura universitaria parlando da dentro l’università. Se si accetta quel linguaggio, come evitare la pedanteria, proprio quando si parla contro la pedanteria?»2.
Quelle problematiche, sollevate in un paradigma di pensiero nutrito dall’alimento schopenhaueriano, si ripresenteranno allorquando, nella Genealogia della morale, Nietzsche potrà ripensare la cultura su basi diverse, genetiche, storiche, sgomberate dal peso di un presupposto etico della cultura e ricomprese nel panorama del rapporto delle forze.
La raccolta di conferenze Sull’avvenire delle nostre scuole si inserisce nel travagliato periodo basileese di Nietzsche, quando egli avverte l’influenza del pensiero schopenhaueriano e wagneriano, ma agisce in lui comunque una spinta, già presente nella Nascita della tragedia, che lo porta piano ad allontanarsi dal maestro di Danzica, e sorgono i primi dubbi sul progetto wagneriano. Eppure, come nota Colli, queste conferenze «sono la testimonianza più ortodossamente schopenhaueriana che Nietzsche abbia lasciato»3: nella trattazione viene a rivelarsi un Nietzsche «stranamente arrendevole di fronte al maestro: non ci sono discussioni teoretiche, neppure morali, è vero, ma tutti i riferimenti a una visione del mondo di base sono univoci e ortodossi»4. La stessa cornice in cui si inseriscono i temi centrali delle conferenze, la narrazione dell’incontro di due amici, in gita presso Rolandseck per la celebrazione di una ricorrenza, con il vecchio filosofo burbero, iracondo e autoritario, che sembra essere la trascrizione letteraria di Schopenhauer, e con il suo discepolo, sembra quasi voler alludere all’entrata del filosofo con i suoi pensieri nei luoghi più cari a Nietzsche, quei luoghi dell’adolescenza all’epoca della formazione della società culturale La Germania con gli amici Krug e Pinder, a una specie di passaggio del testimone del modo di intendere la cultura e la scuola: nonostante nelle conferenze non vengono aperte parentesi di discussione teoretica particolarmente ampie, poiché la valutazione della cultura sembra essere svolta da un punto di vista storico che fa intravedere i pilastri teoretici della filosofia schopenhaueriana soprattutto nella difesa del genio, l’interezza dell’impianto poggia su una serie di elucubrazioni legate alla natura della cultura e del genio affidate agli appunti e ai frammenti che vanno dal 1870 al 1873 e che contengono una serie di pensieri ma anche di formule e frasi ad effetto poi non utilizzate nella stesura delle conferenze, depositate velatamente nel corpo del testo.
Ciò che colpisce è che la discussione resti a livello di contrapposizione di due tipi di cultura profilati a seguito dell’osservazione che «due correnti apparentemente contrapposte, egualmente dannose nella loro azione e infine concordanti nei loro risultati, dominano nell’epoca presente le nostre scuole, che in origine erano fondate su basi del tutto diverse: da un lato, l’impulso alla massima estensione della cultura, e dall’altro lato l’impulso a sminuirla indebolirla»5, e che la discussione della natura della cultura non si spinga oltre fino a profilare la cultura come «l’attività generica, “il vero lavoro dell’uomo su se stesso nel più lungo periodo di tempo della specie umana, tutto il travaglio preistorico … Qualunque sia d’altronde il grado di crudeltà, di tirannia, di stupidità e di idiozia che gli è proprio”»6. Naturalmente tale limite è dato da una coloritura etica, tecnica e funzionale, dei toni in cui vengono affrontate le questioni e che nel proporre «istituti di cultura che siano a vantaggio solo per quegli eletti»7mette in campo una dialettica tra la massa e il genio che tende ad offuscare proprio il carattere di attività generica della cultura spostando l’attenzione sul suo scopo: «perpetuare gli spiriti supremi: cultura è immortalità dei più nobili spiriti»8. Questa dialettica viene alla luce grazie alla discussione della contrapposizione, di impronta burckhardtiana, tra cultura e Stato, cultura e civilizzazione. Dalla lettera che Burckhardt invia ad Arnold von Salis si scopre l’apprezzamento che le conferenze riscuotono da parte di questa figura il cui appoggio Nietzsche sembra ricercare vivamente: «avrebbe dovuto sentirlo! In certi momenti la cosa era assolutamente entusiasmante; ma poi si percepiva nuovamente una profonda tristezza»9. La riflessione che Nietzsche intraprendeva sui problemi dell’educazione dei giovani, sulla funzione degli istituti di cultura, sulla necessità di una riforma degli studi e degli istituti, si inserivano in un piano più vasto di riforma della cultura che poggiava le sue basi su premesse schopenhaueriane e, in virtù della comune passione per il filosofo di Danzica, si accostava alle analisi di Burckhardt, nella speranza di convogliare gli sforzi per dar vita ad una riforma effettiva. Ma questo progetto rimase una velleità del giovane Nietzsche poiché, pur apprezzando le proposte del giovane professore, Burckhardt restò in una posizione piuttosto statica. Colli nota: «è forse questa l’occasione in cui Burckhardt comprese di più Nietzsche, gli fu vicino (Nietzsche per contro sentì il fascino di Burckhardt per molti anni). E nei corsi universitari che comincerà subito dopo sulla civiltà greca la traccia di Nietzsche è più incisiva – quasi una coloritura di fondo – di quanto possa apparire dal banale riconoscimento della Nascita della tragedia, che Burckhardt inserisce nelle sue lezioni. Per parte sua anche Nietzsche subisce l’influsso di Burckhardt, e ciò si esprime nel modo più chiaro e rilevante proprio in queste conferenze Sull’avvenire delle nostre scuole»10. Nella cornice della narrazione in cui si inseriscono le considerazioni sulle scuole, le posizioni di matrice schopenhaueriana e d’ispirazione burckhardtiana sono espresse dall’amaro discorso del discepolo del vecchio filosofo che afferma: «troppo a lungo le sono rimasto vicino, per potermi ancora abbandonare con fiducia all’ordinamento vigente della cultura e dell’educazione»11. In questa frase è racchiusa l’amarezza per un sistema vigente considerato scadente produttore di pseudocultura e, insieme, la speranza, mista alla certezza, che esista almeno un altro tipo di sistema, un altro modo di intendere e fare cultura che si può apprendere a contatto con il vecchio filosofo. Il motivo della sfiducia nei confronti della cultura odierna è dato dal fatto che le due tendenze caratterizzanti la cultura, l’estensione e la diminuzione/indebolimento, portano, a causa della sua estensione provocata dalla convinzione che essa «deve essere portata in ambienti sempre più vasti»12, la cultura stessa a «sottomettersi al servizio di un’altra forma di vita, a quella cioè dello Stato»13. L’intervento dello Stato all’interno della cultura porta quest’ultima a sviluppare dei tratti peculiari così definiti da Nietzsche:
« Carattere della cultura odierna.
1) Fretta e il non diventare maturi.
2) L’elemento storico, il non voler vivere, l’inghiottire il presente appena nato. Il copiare. Storia della letteratura.
3) Il mondo cartaceo. Scrivere e leggere assurdamente.
4) Marciare in fila. Avversione per il genio. L’uomo «sociale» e il socialismo.
5) L’uomo corrente.
6) Lo specialista. Vivere meglio, non più conoscere.
7) La mancanza di una filosofia seria.
8) L’intristirsi dell’arte. «Cultura parlamentare».
9) Il nuovo concetto di tedesco»14.
Quei tratti di specialismo, velocità di formazione che sfocia nella fretta, di omologazione nella creazione dell’uomo corrente, di avversione per la figura di spicco del genio vengono condensati in quel centrale marciare in fila che esprime la tendenza al carattere d’esercito controllato dalle direttive statali, di strumento pronto all’uso di una cultura della quale è possibile rintracciare una prima definizione: «in base a questa tendenza, la cultura sarebbe pressappoco da definire come l’abilità con cui ci si mantiene “all’altezza del nostro tempo” […] il vero problema della cultura consisterebbe perciò nell’educare uomini quanto più possibile “correnti”, nel senso in cui si chiama “corrente” una moneta»15. Con questa definizione si viene messi dinanzi alla circolarità della produzione della cultura soggiogata ai fini dello Stato poiché la produzione da parte di tale cultura di “uomini correnti” non può non comportare il successivo rafforzamento di una cultura che educa all’obbedienza insegnata da quella stessa classe di uomini che sono stati formati secondo la cultura odierna. Questa circolarità diviene ancora più vertiginosa quando Nietzsche afferma, in uno dei suoi appunti, che proprio dalla subordinazione della cultura allo Stato, alla società, al guadagno, alla scienza, alla chiesa, «risultano due direzioni: estensione e diminuzione»16. Le tendenze che sembrano produrre la subordinazione diventano contemporaneamente prodotto di questa subordinazione. Approfondendo i caratteri di tali direzioni Nietzsche apre la strada alla possibilità di uscita da tale circolarità: «in comune hanno di non aver fede nel genio: in ciò tradiscono la loro mancanza di naturalezza: e al tempo stesso un grande ottimismo»17. La possibilità di poter seguire una cultura che si distacchi da quella odierna malata e subordinata, che venga vista come una potenza essenzialmente antagonistica rispetto allo Stato e in genere a tutti i poteri pubblici costituiti, passa per l’annullamento di un carattere considerato contro natura, ovvero la mancanza di fede nel genio. L’uscita dalla cultura odierna verso una cultura suprema contempla un atto di sottomissione al genio, il riconoscimento di una aristocraticità della cultura che deve «perpetuare gli spiriti supremi: cultura è immortalità di più nobili spiriti»18. In queste affermazioni si coglie il carattere più eminentemente schopenhauerianno come comprensione e propensione per ciò che è grande e fecondo: una cultura capace di opporsi alla tendenza funzionalizzante, svilente e omologante dello Stato è solo una cultura in grado di privilegiare quegli spiriti capaci non di semplice erudizione, ma di raggiungere scopi ben più alti, ovvero quello di far vivere in sé il compito della cultura inteso come il vivere e agire secondo le più nobili aspirazioni del proprio popolo. Si può parlare, a questo punto, di una vera e propria dialettica tra il genio e il non genio, poiché quest’ultimo non è fatto cadere, ma gli viene affidato un compito e un fine educativo: «ciò comporta come fine educativo per il non genio:
1) Ubbidienza e modestia.
2) Conoscere esattamente i limiti ristretti di ogni professione.
3) Essere disposti a servire il genio, a raccogliere il materiale»19.
Con il fiorire della cultura suprema non viene annullata una certa attenzione per l’utile e il funzionale: il non genio lavorerà comunque in funzione di uno spirito superiore che, però, al contrario dello Stato, non reindirizza la cultura verso i propri fini e utilità, capace di lasciar fiorire quella cultura guadagnando il diritto all’esistenza di un popolo: «la caratteristica di questa cultura suprema è l’inutilità dal punto di vista dell’egoismo, della temporalità. D’altro canto è proprio con i suoi geni, che un popolo conquista il suo diritto all’esistenza: utilità suprema»20. Da ciò deriva che quel che si deve intendere per cultura è «la vita nel senso dei grandi spiriti, con la tendenza ai grandi fini»21.
Se ci si chiede grazie a cosa è possibile perseguire questi grandi fini si risponderà che questo compito è attribuito a quell’arte risanatrice della metafisica d’artista poiché «l’opera d’arte stimola alla produzione del genio»22, e ancora: «l’arte significa per noi eliminazione dell’innaturalezza, significa fuga dalla civiltà e dalla cultura»23. In una lettera del 21 giugno 1871 a Carl von Gersdorff, Nietzsche scrive: «io so che vuol dire: lotta alla cultura. Quando ebbi notizia dell’incendio a Parigi, per alcuni giorni fui completamente annientato e sciolto in lacrime e dubbi: l’intera esistenza scientifica e filosofico-artistica mi apparve come qualcosa di assurdo, se un sol giorno poteva bastare a distruggere le opere d’arte più splendide, anzi interi periodi dell’arte: mi aggrappai con profonda convinzione al valore metafisico dell’arte, che non può essere solo per i miseri uomini, ma deve adempiere a missioni più alte»24. Già qui sembra profilarsi l’idea che l’arte non consiste solo nella produzione di opere che possono essere distrutte e perdute per i miseri uomini, come aveva fatto credere la falsa notizia dell’incendio del Louvre durante la Comune parigina, ma che essa racchiude uno scopo superiore, un valore che rimanda alla costruzione dell’individuo e della sua cultura che vada al di là delle opere e che risiede nella sua capacità di plasmare la materia bruta della vita, accostandosi sempre di più all’immagine della «cultura come trasfiguratrice»25, come elemento completamente produttivo a tal punto che Nietzsche può affermare, spingendosi verso un nuovo orizzonte per la definizione della cultura: «cultura – dominio dell’arte sulla vita. I gradi di valore di una civiltà dipendono anzitutto dal grado di questo dominio, e in secondo luogo dal valore dell’arte stessa»26. Se pure in termini nettamente diversi rispetto alla Genealogia della morale, ciò che si viene a scoprire qui è un principio fondamentale che guiderà le riflessioni del Nietzsche maturo della Genealogia, ovvero che l’arte tende a stabilire un dominio sulla vita che viene chiamato cultura, e l’arte è un termine ampio che può indicare non solo l’arte della metafisica d’artista, ma anche quella del prete ascetico presente nella terza dissertazione della Genealogia della morale, che fornisce una direzione alle forze dell’individuo, le piega grazie alla sua arte morale. Nell’opera del 1887 la cultura e l’opera del genio vengono inserite in una più vasta teorizzazione e valutazione delle forze portando Nietzsche allo sviluppo del concetto di cultura come violento addestramento degli istinti dell’uomo, come una «violenza sul pensiero, una formazione del pensiero sotto l’azione di forze selettive»27, e che tende a far saltare ogni distinzione tra cultura e civilizzazione: diventando selettiva, la cultura dispone, grazie all’opera del genio morale, atteggiamenti che portano l’uomo ad essere già uomo utile, inserito in una determinata rete di rapporti già culturalmente previsti, uomo corrente, escludendo ogni sorta di eccezionalità. Questi rapporti tenderanno a costituire, allo stesso tempo, sia l’ideale culturale a cui si riferisce il genio morale, il genio ascetico, sia gli strumenti per l’esercizio del potere moralmente coercitivo che la società stabilitasi su questi principi andrà esercitando: «il prete ascetico ha in quell’ideale non solo la sua fede, ma anche la sua volontà, il suo potere, il suo interesse»28.
CULTURA/CIVILIZZAZIONE
In un lungo frammento degli inizi del 1871 titolato Frammento di una versione ampliata della nascita della tragedia Nietzsche scrive: «lo Stato, di nascita infame, è per la maggior parte degli esseri una fonte ininterrotta di affanni»29. L’affermazione acquista una particolare valenza se essa viene messa in relazione all’intero frammento e contestualizzata in quel raffronto tra lo Stato greco e lo Stato moderno che in esso si sviluppa. Di fronte alla valutazione della «vita greca, nei sui fenomeni essenziali, come preparazione del manifestarsi supremo di quegli impulsi, cioè della nascita del genio »30in cui il genio-artista influisce ancora sulla società con la sua attività non contrastata da gli interessi dello Stato, lo Stato moderno si presenta come il luogo in cui germoglia una «pericolosa decadenza, egualmente dannosa sia per l’arte che per la società, della sfera politica»31. La progressiva evoluzione dello stato nel corso della storia moderna ha fatto sì che la situazione di ostilità iniziale e naturale tra gli uomini, qui accettata da Nietzsche senza molte discussioni, sia stata assorbita e trasferita ad un livello più alto per cui «quell’impulso del bellum omnium contra omnes si concentra nella terribile tempesta della guerra fra i popoli»32 e, in questa situazione, è lo Stato a prendere in mano le redini di un popolo ed a disporne l’organizzazione per la propria sopravvivenza. Disporre l’organizzazione significa per lo Stato la necessità di penetrare, perseguendo i propri fini di sopravvivenza e sopraffazione il cui esempio più lampante è stata la guerra franco-prussiana combattutasi proprio in quegli anni, quel terreno fertile della cultura e di modificarlo in modo tale che, dopo un suo primo intervento, esso possa riprodursi da sé grazie ai modelli ad esso imposti. Quella vertiginosa circolarità precedentemente notata33, che porta lo Stato a poggiare la sua azione sulle due tendenze della cultura odierna, ovvero estensione e diminuzione/indebolimento, e contemporaneamente, il rafforzarsi di queste due tendenze grazie all’intervento fisico dello Stato che le favorisce con peculiari organizzazioni degli istituti e delle scuole, basano la forza della loro azione su una caratteristica peculiare della cultura: il crescere, il concrescere su se stessa. La cultura si riproduce e amplia sulla base di modelli costruiti nel corso del tempo e che intervengono nella fattualità della storia attraverso il rapporto tra le generazioni di insegnanti e studenti: grazie alle prime istruzioni dei maestri, gli allievi vengono proiettati in una rete di simboli ed esperienze canonizzati e accettati che nel loro insieme vanno a costituire le coordinate di ciò che viene definito come cultura. É, dunque, nel totale interesse dello Stato il mostrarsi come “mistagogo della cultura”34, dove il termine fa riferimento all’antica figura sacerdotale greca che dà le prime istruzioni agli iniziandi, gli aspiranti misti. L’intervento dello Stato nella sfera della cultura si presenta, quindi, come uno stabilire prime istruzioni, modelli e paradigmi di riferimento che vanno a sostituirsi a quelli di una cultura altrimenti non statalmente controllata e direzionata (ma che comunque subisce un’altra sorta di controllo e subordinazione come quella accademica o quella del genio), e nel piegare la cultura, sia nella sua formazione che nel suo utilizzo, ai propri fini: «qui lo Stato ha addirittura applicato il suo mezzo più potente, cioè la concessione di certi privilegi in riferimento al servizio militare, con il risultato che, secondo l’imparziale testimonianza di funzionari statistici, sono proprio soltanto questi accorgimenti a poter spiegare la completa saturazione di tutti i licei prussiani, e l’impellente e continuo bisogno di nuove scuole»35. Tale bisogno di nuove scuole, impostate secondo l’intenzione di uno Stato che «vuole una misura uniforme di formazione per i suoi funzionari»36, deriva da «gli impieghi statali, l’università, i privilegi militari»37 e innerva tutto il sistema scolastico dal liceo all’università giungendo allo «Stato come guida della cultura. In esso agiscono forze contrarie alla vera cultura»38.
Nel corso della quarta e della quinta conferenza il tema che viene ad essere affrontato è proprio la situazione in cui versano il liceo e l’università soggiogate dal sistema statale. Come già notato, lo Stato influisce su tali istituti grazie a delle istruzioni iniziali che tendono a formare dei paradigmi con i quali affrontare il percorso culturale che lo studente si trova a compiere e uno di questi paradigmi «nel liceo, non è altro se non uno strumento necessario per produrre, in un’età così giovanile, una specie di autonomia, o perlomeno la fede in essa»39. La critica al concetto di autonomia, alla fede che il liceo vorrebbe instillare in ciò che si rivela una vera e propria illusione, è tutta legata al proselitismo a favore del genio che il Nietzsche delle conferenze svolge seguendo la figura del genio schopenhaueriano: la tendenza a favorire un’autonomia che si configura come disordine a causa della mancanza di una guida vera segue una strada che va «contro la gerarchia naturale dell’intelletto»40, gerarchia che salvaguarda, grazie alle forze scaturenti da un popolo e dalla cultura, «la loro destinazione materna nel generare il genio»41. La guida di quegli insegnanti liceali che preparano e abituano il discepolo affinché egli possa in seguito continuare a vivere e imparare autonomamente portano lo stesso allievo a deviare da quella gerarchia naturale, a formarsi e successivamente a formare all’autonomia, conculcata come paradigma culturale, altri allievi42 che, in assenza della guida del genio formatosi lontano dalle utilità dello Stato, si rendono disponibili ad un riempimento di contenuti di questa forma/autonomia che coincidono con gli scopi dello Stato stesso. Nello stile asciutto e secco dei suoi appunti Nietzsche segnala: «la pretesa di giungere alla cultura nel liceo è una menzogna. La massa di coloro che sono costretti a studiare ha completamente rovinato il liceo. In origine si tratta soltanto di una scuola di erudizione, non già di una scuola di cultura. Erudizione e cultura non si connettono tra loro»43. La contrapposizione che risulta da questo appunto è quella tra una cultura superiore, una cultura che mira alle punte più alte del pensiero di un popolo, la cultura che produce il genio, e un erudizione che si ricopre solo di un sottile strato di cultura, ma che ad essa non si connette intimamente poiché questa erudizione è tale che di essa si può disporre, può essere piegata alle utilità dello Stato, e che ciò sia possibile è dimostrato dal fatto che ciò che ha rovinato il liceo è “la massa di coloro che sono costretti a studiare” ovvero di quella schiera che ha bisogno di una spolverata di cultura come di uno strumento per diventare un erudito, ovvero un soggetto a cui è stato fornito un bagaglio di istruzioni e paradigmi per inserirsi nel variegato tessuto dello Stato. Ironicamente Nietzsche nota: «non c’è mai stata un’epoca così ricca delle più belle autonomie, e mai si è odiato così fortemente ogni schiavitù, fra cui certo la schiavitù dell’educazione e della cultura»44. L’insofferenza a sottomettersi alla guida dei geni avvertita come schiavitù porta gli allievi ad accostarsi a ciò che lo Stato può spacciare come autonomia sfruttando gli anni più floridi della gioventù per allevare quanto prima possibile utili impiegati45. La capacità di intervento nella sfera della cultura e della preparazione del singolo da parte dello Stato non si esaurisce nella fede dell’autonomia instillata al liceo, ma trasforma questa autonomia nella base per la formazione di quello specialismo di impronta storica e filologica che avviene nell’università, a maggior ragione se tale autonomia e tale erudizione pretendono di presentarsi come un tutto completo: «la cultura instillata attraverso il liceo si presenta come un tutto completo, con pretese di scelta, alle porte dell’università»46. La degenerazione dell’università trova le sue radici nella pretesa di scelta dello studente del liceo dettata dalla convinzione che la formazione ricevuta sia un tutto completo che non abbia bisogno di guide, mentre proprio tale convinzione espone il giovane all’intervento dello Stato nella sfera della sua personale cultura che ha agito già una volta attraverso la formazione ad opera dei professori che seguono le sue direttive, e agisce una seconda volta indirizzando il giovane nell’università verso quei metodi storiografici e filologici nemici di ogni vera cultura; quindi Nietzsche ammonisce: «non ingannatevi dunque, riguardo allo studente coltivato: costui, appunto perché crede di aver ricevuto la consacrazione della cultura, è ancora sempre il liceale formato dalle mani dei suoi insegnanti»47. Come un prodotto che viene passato al tornio da una serie di artigiani specializzati affinché esso assuma una precisa forma, così lo studente salta dal tornio del liceo a quello dell’università che lo porterà a divenire uno specializzato storico e filologo della cultura con il risultato di «paralizzare mediante la cosiddetta “cultura storica” quell’impulso filosofico conforme a natura»48. Questa paralisi consiste in quella che Nietzsche, in Sull’utilità e il danno della storia per la vita, definirà la storia antiquaria49 intesa come la gran massa di dati che l’uomo si porta dietro, che non produce vera e propria cultura, ma solo l’apparenza della cultura poiché si appoggia sul dato secco, ad un interesse neutrale50, alla ricerca incolore priva di slancio che un’erudizione specializzata, settoriale, funzionale può e deve dare e per cui «al posto di una profonda interpretazione dei problemi eternamente eguali, è intervenuta lentamente una valutazione storica, anzi addirittura una ricerca filologica»51. Il panorama che ne deriva è quello degradante, intristito, miserevole e occludente che situa l’uomo in un paesaggio in cui «la cultura “generale” degrada la “cultura”, in sé eccezionale»52, e prospetta una cultura comune a tutti e a misura dell’uomo comune, del giornalista e dello specialista, in cui l’individuo eccezionale, colui che accetta lo «stato naturale di estrema indigenza»53 nemico di ogni odierna autonomia, colui che grazie a questa indigenza segue la guida di individui geniali preparandosi per la fioritura della propria genialità, è emarginato e messo a tacere.
Eppure in quella visione secondo la quale «questa età, che vede per così dire le sue esperienze avvolte da arcobaleni metafisici, l’uomo è supremamente bisognoso di una mano che lo guidi»54 viene a svelarsi un segreto del rapporto tra lo Stato e il genio, che li accomuna così come vengono accumulate due Nazioni che possono scontrarsi al fronte solo perché possiedono un medesimo territorio comune di contesa: entrambi, e il genio e lo Stato, devono presentarsi come mistagoghi della cultura. Il loro contendersi l’energia degli individui è dato dal loro agire nel medesimo modo, fornendo le prime istruzioni che porteranno il singolo a imprimere nella memoria schemi che lo renderanno capace di compiere determinate azioni su determinati canali, di codificare anche le eventuali azioni future secondo certi parametri che lo rendono capace di «rispondere di sé in quanto avvenire »55, che lo rendano «un animale che possa fare promesse »56. In virtù di questa radice comune, sembra doversi erodere fino alla progressiva e totale eliminazione quella differenza che separerebbe la Cultura dalla Civilizzazione poiché, se si tratta di addestrare un animale fino a farne un uomo, Cultura e Civilizzazione sono due binari paralleli che corrono fino a confondersi nell’unico movimento che porta l’uomo ad essere quell’animale che possa fare promesse, mentre i loro due campioni, il genio e lo Stato, che in una cultura avanzata nel tempo tendono a separarsi, originariamente nascono dalla medesima radice fino a divenire il medesimo soggetto in lotta con i propri istinti per la creazione di codici ed esperienze di comportamento che vanno sotto il nome di Cultura/Civilizzazione.
LA CAPACITÀ DI FARE PROMESSE
Nonostante il giovane Nietzsche delle conferenze Sull’avvenire delle nostre scuole sia completamente entusiasmato dal recupero di una vera cultura capace di soppiantare la “cultura odierna” parziale e specializzata, non sfugge alla sua acutezza di sguardo un tassello che, come già notato precedentemente57, si rivelerà fondamentale per lo sviluppo delle successive riflessioni sulla cultura e che, allo stesso tempo, sembra fermare Nietzsche dal continuare la stesura di una sesta conferenza mai tenuta che proseguisse la strada delle altre cinque. Negli appunti del 1872-73, infatti, si legge: «cultura – dominio dell’arte sulla vita»58: questa riflessione affidata ad un frammento di appena poche righe, sembra porre il freno a qualsiasi aspirazione alla costruzione di una cultura superiore a quella odierna che vede nel genio-artista la sua forma più elevata. Viene, inoltre, qui quasi scoperta la caducità di quell’arte propugnata nella Nascita della tragedia come capace di giustificare la vita tutta poiché, quest’arte, letta in termini di cultura, risulta essere un modo attraverso il quale si tende a stabilire, più che una liberazione dei caratteri della vita al fine di giustificarla nella sua innocenza, un dominio su di essa. A rafforzarne ancora di più il concetto Nietzsche scrive nel resto dell’appunto: «i gradi di valore di una cultura dipendono anzitutto dal grado di questo dominio, e in secondo luogo dal valore dell’arte stessa»59; l’arte, prima di avere valore in quanto arte, ha valore in quanto strumento capace di assicurare il dominio dell’arte sulla vita, dell’arte intesa nel senso largo dell’artificio, dell’arte e del mestiere capace di trasformare, di plasmare, di modellare la materia grezza di un’umanità nascente e affacciantesi sulle strade della civiltà il cui valore può essere misurato solo in base a tale dominio. In nuce sono qui contenuti tutti quegli elementi che porteranno Nietzsche a formulare, affrontando l’interezza della questione con metodo storico-genetico, la domanda che apre la seconda dissertazione delle tre totali di cui è composta la Genealogia della morale: «allevare un animale che possa fare promesse – non è esattamente questo il compito paradossale che la natura si sia assegnata riguardo all’uomo?»60. Come nota Colli61, la Genealogia della morale rappresenta il risultato e la riunificazione delle analisi sulla moralità che Nietzsche aveva condotto da Umano, troppo umano a La gaia scienza ma legate insieme dal tentativo di unificare il tutto sotto un sistema della volontà basato sull’analisi della realtà come rapporto di forze, in cui il metodo storico-genealogico rappresenta il perno su cui ruota e lo strumento con cui viene condotta l’interezza delle analisi su quei comportamenti morali di cui ora viene ricercata l’origine in ciò che Nietzsche definisce «l’enorme lavoro di quella che è stata da me chiamata “eticità dei costumi”»62. Il richiamo esplicito ad Aurora e a «quegli immensi periodi di tempo dell’«eticità del costume», i quali precedono la «storia universale», sono la reale decisiva storia primaria che ha stabilito il carattere dell’umanità»63 avverte che la domanda a proposito dell’animale che possa fare promesse si pone sulla stessa lunghezza d’onda di quella riflessione del 1872 -73 riguardo al dominio dell’arte sulla vita proprio perché si sposta l’attenzione su quella storia primaria che ha visto l’uomo passare attraverso il fuoco del «farsi una memoria»64, affinché l’uomo possa giungere a «rispondere di se in quanto avvenire, come fa uno che promette»65. In questa “eticità dei costumi” che precede la storia universale si tratta di rintracciare l’impronta dell’attività della cultura in quanto attività generica dell’uomo preistorico intesa come obbedire alla legge: la capacità di fare promesse dell’uomo, di disporre di sé in quanto avvenire, non è altro che la capacità di costringere e addestrare l’uomo all’utilizzo di determinati paradigmi del comportamento e del pensiero, «affinché tutto il sistema nervoso intellettuale sia ipnotizzato da queste “idee fisse”»66, ovvero affinché la cultura in lui diventi natura. «Disporre in anticipo del futuro»67 significa indirizzare l’uomo istintivo e primitivo ad uno specifico calcolare e valutare, a pensare un pensiero attraverso le “parole” di quel pensiero (dove il termine “parole” deve essere preso in un senso lato poiché in un terreno così primordiale ci si trova in difficoltà a trovare un posto anche angusto per la parola), affinché anche egli diventi calcolabile, regolare e necessario68; Deleuze chiarisce così la questione: «preistorico significa generico. La cultura è attività preistorica dell’uomo. In che consiste questa attività? Si tratta sempre di imporre abitudini all’uomo, di renderlo ubbidiente a leggi, di addestrarlo»69. Addestrare non è altro che plasmare imponendo una cultura sulla natura, l’arte sulla vita. Addestrare è la capacità di creare una memoria, ma non una «memoria delle tracce»70, ma una memoria della volontà: non una memoria del passato, ma una per l’avvenire, una memoria in funzione del futuro. Ma com’è possibile crearsi una memoria? Nietzsche risponde: «questo antichissimo problema non è stato risolto, come si potrebbe pensare, esattamente con risposte e mezzi delicati; forse addirittura in tutta la preistoria dell’uomo non v’è niente di più terribile e sinistro della sua mnemotecnica. “Si incide a fuoco qualcosa perché rimanga nella memoria; solo ciò che non cessa di far male rimane nella memoria”»71. Dunque l’ausilio più potente per la mnemotecnica è costituito dal dolore, vero perno della possibilità di addestrare un individuo ad una cultura fatta di riti, divieti, regole e formule alle quali l’uomo deve sottomettersi anche a costo della sua integrità, soprattutto a costo della sua integrità. «La cultura si è servita sempre di questo mezzo: fare del dolore un mezzo di scambio»72: il sangue, i martiri, i sacrifici evocati quando si tratta di farsi una memoria segnalano la centralità di una pratica cruenta, sistematica, che tende ad eliminare con pratiche sistematiche gli elementi devianti attraverso il mezzo che si chiama giustizia, attraverso il castigo. L’equivalenza danno provocato=dolore sofferto si appoggia su quello stesso utilizzo del dolore come mezzo di scambio, dato dal fatto che «veniva concessa al creditore, a titolo di rimborso e compensazione, una specie di soddisfazione – la soddisfazione di poter sfogare senza scrupoli il suo potere sulla persona senza potere, la voluttà “de faire le mal pour le plaisir de le faire”, il godimento di fare violenza»73, e che fa in modo da far risuonare, sulle stesse corde battute dalla società per punire il reo, la melodia della cultura che ricomprende sotto la propria ala un elemento deviante. E lo fa con l’accordo del dolore. Deleuze nota come Nietzsche identifichi l’archetipo dell’azione sociale non nello scambio, ma nel credito, per cui «la giustizia è l’attività generica che addestra le forze reattive dell’uomo, le dispone ad essere agite e considera l’uomo responsabile di questa attitudine stessa»74; è un unico filo quello che collega dolore, colpa e pena e infine la moralità che viene a costruirsi sull’ipostatizzazione delle obbligazioni, il filo della cultura in quanto addestramento di un uomo reso responsabile, di un uomo che giunge a quella ragione che però nasconde quelle sue crudeli e violente fondamenta: «con l’ausilio di tali immagini e procedimenti, si finisce col trattenere nella memoria cinque o sei “io non voglio”, in relazione ai quali si è fatta la propria promessa, per vivere le comodità della società – e veramente! con l’aiuto di questa specie di memoria si giunse infine “alla ragione”»75. Anche qui ci troviamo di fronte ad un lavoro da mistagogo: si individuano quelle istruzioni primarie sulla base delle quali vengono ad essere istruiti tutti gli altri per tramite di un laborioso e sanguinoso addestramento che assume tutti i caratteri della coercizione e che, come ogni coercizione ben riuscita, finisce per far scomparire lo strumento nel prodotto e per presentare una necessità dell’inizio come una necessità della fine: «questo è il movimento generale della cultura: lo scomparire dello strumento nel prodotto. La responsabilità in quanto responsabilità di fronte alla legge, la legge come legge della giustizia, la giustizia come strumento della cultura, tutto scompare nel prodotto della cultura stessa»76. Risulta ora ben chiaro in che termini si può parlare di una cultura in quanto dominio dell’arte sulla vita, ma, se il valore della civiltà dipende dal grado di questo dominio, come espresso nell’appunto del 1872 -73, e questo dominio mostra le sue radici violente e costrittive, inizia a sorgere il dubbio che la riserva riguardante il «valore dell’arte stessa»77 investa l’attività del genio in quanto collaboratore ed espletatore di politiche coercitive sulla libera materia della vita e della natura, o addirittura sulla materia della cultura stessa. Questa figura compare, nella Genealogia della morale, all’altezza della terza dissertazione quando, discutendo il significato degli ideali ascetici, Nietzsche nota che nei preti l’ideale ascetico è «il loro migliore strumento di potere e anche la “suprema” legittimazione del potere»78; il genio compare qui nei panni del prete ascetico. Ancora una volta l’elemento di raccordo tra l’attività del prete ascetico e l’aspetto di trasmissione e creazione di cultura, è dato dall’elemento del dolore, o meglio dal suo horror vacui: «ciò che propriamente fa indignare contro la sofferenza non è il soffrire in sé, bensì l’insensatezza del soffrire»79. È proprio su questa insensatezza che il prete ascetico va ad agire, ma la modalità di tale azione tradisce la stessa violenza del moto della cultura: «lo fecero, come uomini di età terribili, con mezzi terribili: la crudeltà contro di sé»80. Tale violenza, che si rivela doppia in quanto condotta contro se stessi e contro gli altri perché agiscano al medesimo modo contro se stessi, risulta efficace poiché «il prete ascetico ha in quell’ideale non solo la sua fede, ma anche la sua volontà, il suo potere, il suo interesse»81: proprio questa fede che si trova ad essere immediatamente volontà e potere è il rispecchiarsi del movimento della cultura che fa scomparire lo strumento nel suo prodotto. Il prete ascetico diviene capace di produrre cultura in quanto ha interiorizzato non solo l’attitudine al dolore quale strumento, ma anche il suo movimento di riproduzione: la sua volontà in quanto volontà dinanzi a una fede, la fede come fede nell’ideale ascetico, l’ideale ascetico come strumento della cultura. Il prete ascetico ridireziona il dolore contribuendo, in ciò, alla stabilizzazione di una società che è basata su un rapporto di equivalenza e scambio tra dolore inflitto e pena, innestandosi e lavorando su tale snodo.
Fino a che punto è scomparso lo strumento genio nella cultura per giungere a vederlo come araldo di un opposizione alla civilizzazione, di una lotta tra la cultura e la sua degenerescenza? Le cinque conferenze del giovane Nietzsche sembrano esserne la non ancora consapevole testimonianza.
Note
1 Tongeren P. V. Reinterpreting modern culture: An Introduction to Friedrich Nietzsche’s Philosophy , Purdue University Press 1999, p. 3
2 Sull’avvenire delle nostre scuole, Introduzione di Giorgio Colli XIIIAdelphi, Milano 2012
3 Ivi p. XI
4 Colli G. Scritti su Nietzsche, Adelphi, Milano 2008 p. 57
5Sull’avvenire delle nostre scuole, Adelphi, Milano 2012 p. 7
6 Deleuze G. Nietzsche e la filosofia, Colportage 1978 p. 191
7Sull’avvenire delle nostre scuole, Adelphi, Milano 2012 p. 95
8 Frammenti postumi, inverno 1870-1871, Primavera 1872, 8[92] Adelphi, Milano 2004 p. 57
9 Montinari M. (a cura di) Carteggio Nietzsche-Buckhartdi, Editore Boringhieri, Torino 1961 p. 54
10Colli G. Scritti su Nietzsche, Adelphi, Milano 2008 p. 56
11Sull’avvenire delle nostre scuole, Adelphi, Milano 2012 p. 37
12Ivi p. 7
13Ibidem
14 Frammenti postumi, inverno 1870-1871, Primavera 1872, 8[93] Adelphi, Milano 2004 p. 58
15Sull’avvenire delle nostre scuole, Adelphi, Milano 2012 p. 31
16 Frammenti postumi, inverno 1870-1871, Primavera 1872, 14[12] Adelphi, Milano 2004 p. 216
17 Ibidem
18 Ivi 8 [92], p. 57
19 Ivi 28[3], p. 263
20 Ibidem
21 Ivi 8[92], p. 57
22 Ivi 9[94], p. 120
23 Ivi 9[85], p. 57
24 Montinari M. Che cosa ha detto Nietzsche Adelphi, Milano 2008 p. 79
25 Frammenti postumi, inverno 1870-1871, Primavera 1872, 8[92] Adelphi, Milano 2004 p. 57
26 Frammenti postumi, estate 1872 – autunno 1873, 19[310] Adelphi, Milano 2005 p. 128
27 Deleuze G. Nietzsche e la filosofia, Colportage 1978 p. 158
28 Genealogia della morale III, 11BUR, Milano 2005 p. 165
29 Frammenti postumi, inverno 1870-1871, Primavera 1872, Adelphi, Milano 2004 p. 63
30 Ivi p. 149
31 Ivi p. 165
32 Ibidem
33 Si veda cap. 1.1, parte II
34Sull’avvenire delle nostre scuole, Adelphi, Milano 2012 p. 77
35Ibidem
36 Frammenti postumi, inverno 1870-1871, Primavera 1872, 8[65] Adelphi, Milano 2004 p. 44
37 Ibidem
38Ivi p. 45
39Sull’avvenire delle nostre scuole, Adelphi, Milano 2012 p. 112
40Ivi p. 68
41Ibidem
42« Sì, cari miei, voi siete completi, avete finito di crescere, la natura ha ormai rotto il vostro stampo, e i vostri maestri possono deliziarsi in voi». Ivi p. 113
43 Frammenti postumi, inverno 1870-1871, Primavera 1872, 9[62] Adelphi, Milano 2004 p. 107
44Sull’avvenire delle nostre scuole, Adelphi, Milano 2012 p. 113
45Ivi p. 27
46Ivi p. 115
47Ibidem
48Ivi p. 117
49 Sull’utilità e il danno della storia per la vita, 2, 4 Adelphi, Milano 2009 pg. 16, 30
50Sull’avvenire delle nostre scuole, Adelphi, Milano 2012 p. 118
51 Ivi p. 117
52Frammenti postumi, inverno 1870-1871, Primavera 1872, 9[62] Adelphi, Milano 2004 p. 107
53Sull’avvenire delle nostre scuole, Adelphi, Milano 2012 p. 117
54Ivi p. 116
55 Genealogia della morale II, 1. BUR, Milano 2005 p. 96
56 Ivi p. 95
57Si veda capitolo 1.1, parte II
58 Frammenti postumi, estate 1872 – autunno 1873, 19[310] Adelphi, Milano 2005 p. 128
59Ibidem
60Genealogia della morale II, 1. BUR, Milano 2005 p. 95
61Colli G. Scritti su Nietzsche, Adelphi, Milano 2008 p. 125
62Genealogia della morale II, 2. BUR, Milano 2005 p. 97
63 Aurora. Frammenti postumi. 18 Adelphi, Milano 1964 p. 22
64Genealogia della morale II, 3. BUR, Milano 2005 p. 99
65 Ivi II, 1. p. 96
66 Ivi II, 3. p. 99
67 Ivi II, 1. p. 96
68 Ibidem
69Deleuze G. Nietzsche e la filosofia, Colportage 1978 p. 190
70Ivi p. 191
71 Genealogia della morale II, 3. BUR, Milano 2005 p. 99
72Deleuze G. Nietzsche e la filosofia, Colportage 1978 p. 191
73Genealogia della morale II, 5. BUR, Milano 2005 p. 103
74Deleuze G. Nietzsche e la filosofia, Colportage 1978 p. 193
75 Genealogia della morale II, 3. BUR, Milano 2005 p. 100
76Deleuze G. Nietzsche e la filosofia, Colportage 1978 p. 195
77 Frammenti postumi, estate 1872 – autunno 1873, 19[310] Adelphi, Milano 2005 p. 128
78Genealogia della morale III, 1. BUR, Milano 2005 p. 143
79 Ivi II, 7. p. 108
80 Ivi III, 10. p. 163
81 Ivi III, 11. p.165