Poiché del dolore manca una definizione, lo potremmo designare come il dolore del signor Raab, e tutti saprebbero di cosa stiamo scrivendo. Il signor Raab infatti, che pure ha un ottimo lavoro, è sposato e ha un figlio, non sta da tempo molto bene: ha iniziato a bere un po’ di più, il medico gli ha prescritto un ansiolitico, e quando un collega gli ha fatto gli auguri, lui ha pensato immediatamente gli volesse dire che ne aveva bisogno. Pensiero fastidioso, che come altri solo una terapia antipsicotica potrebbe eradicare – ma non anticipiamo gli eventi, che come afferma Bloy sono come le oche, girano in gruppo. Egli tende alla pinguedine eppure passeggiare lo affatica e annoia; sembra che la moglie aspiri unicamente ad una sua promozione, cioè ad un reddito maggiore; un regalo per lei si trasforma nella canzonatura di due commesse. Ancora piuttosto giovane, ma in quella età della vita ancora imprecisa che della giovinezza ha perso ogni ingenuità, deve anche sopportare il tono brusco del capoufficio, il quale nemmeno in una occasione conviviale riesce a celare il proprio fastidio, forse il proprio disprezzo. Rainer Werner Fassbinder, riletto e fantasticato, ne ha lasciato un ritratto ancora più preciso, ma il dipanarsi del film non ci interessa.
Supponendo che il signor Raab si avvii ad essere una cosa, che dovremmo farne? E cosa dovrebbe fare lui stesso di questa vita pietrificata, cristallizzata, immobile, negazione del principio esistenziale del cambiamento, per cui non si dovrebbe mai essere qualcosa di definitivo e determinato? Non si può affermare che in un certo senso il signor Raab sia morto – i pensieri mortiferi si accalcano però -, ma egli ha già annullato ogni distanza reale rispetto alla morte: qualcosa potrebbe indurlo in futuro al suicidio, se il dolore del signor Raab mantiene le promesse, il dolore che lo sta divorando, quello che, mostruosamente autofago, nasce da lui stesso e dona a tutta la sua vita a venire una patina di inanità. Come un relitto spiaggiato, egli ha già solcato il mare, ora preda solo di salsedine e disteso su un fianco. Egli scopre di sé stesso che il passato è logicamente chiuso, inizia pertanto a mentire su una promozione che non arriverà mai.
Questo, e molto altro, è il dolore del signor Raab. Ecco perché del dolore non si dà definizione. Se qualcuno volesse definirlo, si troverebbe a dover riassumere anamnesi disparate, sintomi di incoercibile nevrosi, ma mai coerenti: una scena di tumulto, come in una battaglia dove l’unico scopo è farsi saltare in aria reciprocamente. Non c’è però niente di raccapricciante in tutto ciò, per il solo fatto che è ordinario. Non solo, essendo banalmente ciò che non va, esso è il reale, come definito da Lacan.
Se così è, allora andare alla radice del dolore, praticarlo, farne un esercizio quotidiano. Gli stoici raccomandavano di non ignorare il dolore, consiglio che qui ribadiamo. Tuttavia, la storia antica, per quanto studiata, non è di moda: si offrono agganci per essere tanto più manipolabili quanto più vogliamo sfuggire al dolore del signor Raab, forse presagendo la sua stessa fine. Per quanto di lui si sia detto pochissimo, abbiamo la presunzione di conoscere già tutto. Per fratellanza abbiamo avuto accesso al suo mondo, al nostro mondo. Non esiste società capace di tollerare questa fratellanza se non celandola, finché il dolore, rimosso, morde ancora più alacremente.
Supponiamo però un gesto insensato, da parte del signor Raab, che mai si è fermato a considerare questa possibilità. Il dolore finalmente lo schiaccia, ed egli non fa altro che inginocchiarsi, da sempre segno di umiltà, per stare sotto, non alla stessa altezza, di chi ci sovrasta, di chi è già un’immagine più grande del nostro stesso dolore. Sovrastato da un blocco di pietra, egli tuttavia lo sorregge con la forza inaudita di un atto di umiltà. Il Cristo è la prima immagine del dolore, la seconda Napoleone: come ciò sia possibile non sta a noi indagarlo, la storia presenta talvolta incongruenze che non sono né scialbe né piatte. Sebbene possa sembrare che il signor Raab qui si metta a servizio, e per non equivocare si pensi da subito non ad un discepolo ma ad un ussaro, è a lui stesso che egli sta rendendo un servizio. Costretto, come vedevamo, egli non cede del tutto, solo in parte, ed inizia a capire che il dolore è ineludibile e cronico, ma anche eroico. Egli sarebbe il lavoratore evocato da Ernst Jünger, cioè colui in grado di imporre una forma al caos, se possedesse una tale velleità. Della povertà egli sa anche, come Tolstoj, che essa conosce non solo la fede, ma anche l’espressione del dolore, che ha modellato i volti di generazione in generazione. Il suo inizia ad assumere i caratteri galvanizzati del tipo, pur essendo tratto dalla stessa melma di miseria appena sfiorata, di miseria dimenticata.
In tutto, non si sa a cosa il dolore giovi, ma ne siamo irresistibilmente attratti, non appena si scopra che ci fa perdere ogni lucidità, consegnando all’umore, alla Stimmung, ogni decisione. Eppure si affaccia una possibilità, che esercitando il dolore, per quanto poco se ne tragga, lo sconquasso sia più tollerabile. Un dolore che ci appartiene, che abbiamo edificato sul dogma, non appena fu condannata come eretica ogni dottrina che avesse assegnato al Cristo sofferente sulla croce un dolore solo apparente, accentuandone fino al parossismo la divinità. Perché il dolore, finalmente, è umano. “Addormentare uniti questo dolore” è verso di Baudelaire, ma cosa può significare se non questo dolore che ci unisce, prima ancora dell’analgesico, il sonno, l’oblio?
Il mondo attuale, preferito a quelli possibili, è stato scelto da Dio nella sua bontà, perché egli ha voluto troppo, ma sappiamo, esattamente come Leibniz, che non esiste un mondo migliore, e dunque che sarebbe potuta andare peggio. Sappiamo anche, tuttavia, che la domanda si ripropone: perché qualcosa piuttosto che il niente? Perché il dolore piuttosto che il niente? Il dolore incorona la sapienza, o forse la malinconia. La malinconia annuncia il dolore, che agisce su di noi come una rivelazione.
Le vere tecniche del dolore, quelle che sostanziano un ethos, sono sporche: l’alcol per esempio. Non se ne potrebbe parlar bene, eppure tra l’alcol, la strada, la clinica psichiatrica, qualcosa sembra funzionare: la strategia del nostro declino. A meno che la colpa, che origina sempre dal pensiero della teshuvah, cioè del ricordo insistente della colpa stessa, fino alla morte, la colpa si diceva venga ricacciata in quella assenza di memoria che però vorrebbe riproporla, segno di una giustizia non certo imprevedibile dell’accusa. Esiste una seconda espiazione, che si sconta nel linguaggio, e soprattutto nella scrittura. Per questo il desiderio espresso da Peter Handke, che avrebbe voluto essere un malinconico, è per quanto impreciso definitivo. Oltre un certo limite esiste solo il reparto chiuso, nella scrittura invece, sempre meno però, l’otium insensato perdona gli eccessi.
La Tradizione (apostolico romana), il luteranesimo e il calvinismo ci parlano anche, in modi diversi, di grazia. Solo una economia del creato infiorata dai principi della grazia consente di osservare una peculiare e preminente armonia. E solo quando il pensiero del dolore si eleva al pensiero della grazia, dopo aver esercitato il dolore allo stesso modo in cui l’encratita rifuggiva il sonno per combattere il demonio, è lecito porre la domanda, altrimenti scontata, della ragione sufficiente, per scoprire, infine, che il dolore non è più soltanto quel peso che avevamo iniziato a conoscere piegando le gambe, ma anche un destino, tanto più reale quanto non si è tradita la storia da cui è scaturito e fluisce. Una storia, lo vogliamo dire, intessuta di Europa, da mito a mondo cristiano ma secondo un unico concetto di verità.
Scopriamo dunque che l’unità di misura di quella verità è il dolore, e lo spettacolo di un piccolo e insignificante signor Raab acquista una statura grandiosa, tra i fuochi di fucine in cui vengono forgiati, per tutti, i più assoluti strumenti di tortura, eppure ovvii. Cessata la passione effimera per la forma che avrebbe dovuto imbrigliare il caos, consegnati alla malattia, che può addirittura tramutarsi in somatica, non resta che accompagnare il corteo del dolore, quello che sta passando sotto le nostre finestre, per raccogliere, tutti insieme e in un solo momento, quanti conosciamo de visu e quanti, pur ignari della nostra esistenza, non sono inconsapevoli del nostro ethos divorante, la dedizione al dolore.
L’epilogo di tutto ciò è l’asservimento volontario, dal momento che eliminata ogni differenza, eliminato ogni scarto, la libertà di uno non vale più della libertà di un altro, quindi è terra di nessuno. Il dolore però la rivendica, laddove scopra che qualcuno indietreggi di fronte ad un cammino che deve condividere non meno che esaltare. Forse non tutto è perduto, se il signor Raab ha iniziato, sciolto ogni vincolo, ad avvolgersi in quel sudario che come il lenzuolo dell’adulescens fuggitivo gli consenta di assistere e poi di salvarsi dall’arresto notturno di Gesù: unica immagine notevole, non creduta, dell’innocente e rassegnato profeta. Egli ha iniziato a coltivare la balorda fissità degli oggetti della sua scrivania come somma negazione, quella del dolore…
Il dolore non è un nemico. Se lo leggiamo in Carl Schmitt sappiamo anche che il nemico è quel tarlo invisibile che ospitiamo nel più oscuro recesso della volontà. E non rimane, in vista del dolore, che depurare l’umanità. Per questo, altri che tacciono di fronte al dolore sanno più me.