Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

“Capitalismo o barbarie”. Ideologie legittimanti e lotte di classe al contrario

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1. Dalla lotta di classe alla sinistra dei valori

C’era una volta una sinistra politica il cui interesse principale era il rapporto fra capitale e lavoro. Predicava il conflitto di classe e riteneva che l’obiettivo della lotta fosse la soppressione di ogni forma di sfruttamento capitalistico. Era la sinistra di Gramsci e di Togliatti, direttamente ispirata all’insegnamento di Karl Marx.

Che cosa rimane di questa Sinistra? Dopo le trasformazioni a cui il Partito Comunista Italiano è andato incontro con Enrico Berlinguer, con l’eurocomunismo e la socialdemocrazia, con il Partito Democratico della Sinistra, coi Democratici di Sinistra (senza falce e martello) e infine col Partito Democratico? Che rapporto c’è – tendendo i due estremi della sua evoluzione storica – fra un Antonio Gramsci e un Matteo Renzi?

Che fine ha fatto l’idea della lotta di classe? Non si è tradotta, proprio in mezzo a un processo di deregolamentazione del mercato, di rovina dei diritti sociali e di dissoluzione delle conquiste sindacali, in un conflitto del tutto interno all’evoluzione capitalistica fra le polarità dell’internazionalismo e del nazionalismo? In una lotta fra coloro che vogliono una società aperta (proprio quella del liberal-democratico Karl Popper) e coloro che rimpiangono la forza dello Stato-nazione?

È avvenuto qualcosa di curioso. Gli elementi culturali della narrazione marxista, i “valori” del comunismo, non sono scomparsi. L’internazionalismo e l’antirazzismo, l’idea di un superamento della morale tradizionale, l’attenzione per le minoranze e l’antisessismo: tutti questi fattori sono vivi e vegeti. Il diritto all’aborto, l’emancipazione lavorativa della donna, lo svuotamento di ogni retorica patriottica e il discredito verso la religione, sono temi che animano le forze intellettuali della sinistra post-comunista.

Nella dottrina di Marx, tuttavia, questi valori erano però conseguenza di un rovesciamento dei rapporti di forza del sistema capitalista, erano il prodotto della raggiunta forza di classe del proletariato. Non un “ideale sentimentale” ma l’esito di uno specifico cambiamento dell’ordine economico a seguito della collettivizzazione dei mezzi di produzione. Quando nel 1917 la rivoluzione bolscevica rovesciò il potere zarista, si istituì immediatamente la parità di stipendi fra uomini e donne, venne legalizzato l’aborto e decriminalizzata l’omosessualità. Questi diritti erano però considerati nell’ottica di una trasformazione del rapporto fra ricchezza e lavoro, dunque conseguenza di una più ampia battaglia per la giustizia sociale.

C’è stato un divorzio. L’ideologia progressista è sopravvissuta dalla morte del progetto marxista e si è convertita al capitalismo. Il comunismo in Europa è caduto, e tuttavia la sua ombra è continuata ad essere additata come la “quintessenza” della sinistra europea. Quest’ombra è fatta della lotta per quei “diritti” che, svuotati dal loro contenuto di trasformazione economica, sono stati assunti dai movimenti progressisti come loro bandiera. Bandiera che, al suo centro, non ha più i simboli del lavoro.

2. La nuova sovrastruttura del capitalismo

Abbandonando il progetto di una riconfigurazione dei rapporti di forza nel mercato del lavoro, la sinistra politica si è aggrappata unicamente a una sovrastruttura costituita di ideali, di valori, di sentimenti “progressisti” e “internazionalisti”. Ma questi si erano contemporaneamente dimostrati non solo compatibili al nuovo mercato globale, ma persino più adeguati rispetto alla vecchia morale borghese conservatrice. L’ideologia del “vietato vietare” e della lotta contro l’autorità, dell’amore libero e disinteressato, del godimento fine a se stesso e privo di progettualità, ha dimostrato di essere perfettamente adattabile al neoliberismo che si è affermato in Europa dopo la caduta del muro di Berlino:

«La nuova civiltà dell’accumulazione economica – basata sull’innovazione, la specializzazione, la sperimentazione-sviluppo, la diversificazione – ha liberalizzato il desiderio in ogni forma, perché e finché esso sia funzionale alla produzione e al consumo di massa, così come alla concorrenza di tutti contro tutti» (Màdera 2012, p. 176).

È un modello che Romano Màdera definisce “licitazionismo”, con riferimento alla Semiramide descritta da Dante che libido fè licito in sua legge (Inferno, III, v. 55). La legislazione dev’essere estesa fino all’abolizione del limite, la cui stessa esistenza diventa odiosa e “sintomo” di una sopravvivenza patriarcale nemica della libera soddisfazione dei propri desideri.

Sì, qualcosa di interessante è accaduto: la struttura capitalistica, ora post-nazionale e globalizzata, ha abbandonato il puritanesimo dell’etica del lavoro e della famiglia patriarcale per abbracciare un registro tradizionalmente ritenuto marxista. Tutta la retorica della sinistra è stata pertanto assorbita dal nuovo sistema economico, il quale l’ha utilizzata per moltiplicare la graduale mercificazione dei rapporti sociali. La “libertà” è venuta a coincidere con la disponibilità ad accedere ad occasioni di profitto e di consumo, tanto nel lavoro quanto anche nei contesti relazionali.

In altre parole: la sinistra è divenuta culturalmente progressista ed economicamente conservatrice. Paradosso solo apparente, dal momento che il sistema di valori “progressista” è del tutto dipendente alla conservazione dello status quo (come si può notare in modo evidente nel sistema americano). La decostruzione progressiva dell’autorità, e delle istituzioni che la veicolano, e l’individualismo esasperato delle libertà a cui tutti sono chiamati nella civiltà dei consumi, hanno creato una situazione di “progressismo reazionario” dove tutte le lotte per i diritti civili – che di fatto sembrano invocare all’evoluzione e all’alternativa – non fanno che radicalizzare la pervasività dell’economia capitalista nei vari contesti della vita.

Questo discorso vale in primo luogo per tutte le lotte motivate da ragioni puramente sentimentali e umanitarie. Così scrive Gramsci:

«La riduzione al minimo delle funzioni dello Stato, un’ampia libertà di riunione, di stampa, di propaganda, la sicurezza dei cittadini di fronte ai poteri, la diffusione degli ideali di pace e di fraternità internazionale. Non bisogna credere che questi principi si siano affermati per ragioni sentimentali. Essi sono la necessaria garanzia dell’attività individuale in regime di libera concorrenza» (Gramsci 1967, p. 111).

È un aspetto non immediato da comprendere, eppure rappresenta il pane quotidiano di ciascuno di noi: il progressismo (combinato a un acritico internazionalismo) è al momento la morale neoliberista per eccellenza. Il moltiplicarsi dei diritti, in questo senso, risponde perlopiù al bisogno di un mercato già saturo di moltiplicare le occasioni profitto. Dietro ogni singolo “diritto” si riconosce la merce, l’occasione economica: così i figli divengono una merce, ed ecco il “diritto” ad avere figli; l’ecologia diventa un’opportunità di guadagno, ed ecco il “diritto” all’ambiente; i dati personali sono una merce, ed ecco il “diritto” ad avere internet.

Con ciò non si vuole senz’altro diffamare il progressismo in sé. Tutt’altro. Interessa però evidenziare come le lotte per i diritti, se scorporate dalle battaglie per la giustizia sociale, divengano strumento di conservazione del capitalismo, una ri-organizzazione della trama delle relazioni sociali sulla base dei rapporti economici. L’obiettivo di queste politiche resta una “democrazia formale” dove tutti, nonostante la frattura fra ricchi e poveri, sono giudicati uguali davanti alla legge. Difficilmente lo sguardo cade sulla concretezza delle diverse situazioni, in rapporto alle quali è davvero possibile misurare la realtà di questa ottenuta condizione di uguaglianza.

Un simile sentimentalismo teso a confermare gli attuali rapporti economici è una forma politica che, per quanto all’apparenza nuova, troviamo già chiaramente decritta da Marx e da Engels come modello di “falso socialismo”, cioè socialismo conservatore borghese:

«Una parte della borghesia desidera di portare rimedio agli inconvenienti sociali, per garantire l’esistenza della società borghese. Rientrano in questa categoria economisti, filantropi, umanitari, miglioratori della situazione delle classi lavoratrici, organizzatori di beneficenze, protettori degli animali, fondatori di società di temperanza e tutta una variopinta genía di oscuri riformatori. E in interi sistemi è stato elaborato questo socialismo borghese […]. I borghesi socialisti vogliono le condizioni di vita della società moderna senza le lotte e i pericoli che necessariamente ne risultano. Vogliono la società attuale sottrazion fatta per gli elementi che la rivoluzionano e la dissolvono. Vogliono la borghesia senza il proletariato» (Marx, Engels 2014, pp. 41-42).

Di più: Marx ed Engels mettono in luce come la borghesia, indicando il mondo in cui essa domina come il migliore dei mondi, chieda al proletariato la più reazionaria delle pretese, e cioè «che esso rimanga fermo nella società attuale, ma rinunci alle odiose rappresentazioni che di essa s’è fatta» (ibidem).

Per il “socialismo borghese”, infatti, è l’insoddisfazione del proletariato il vero nemico. Quando questa insoddisfazione si rivela impossibile da cancellare, giacché il sistema che questi pseudo-socialisti difendono è proprio la causa del malcontento che vorrebbero far sparire, ecco che a essere criminalizzato è il sentimento di insofferenza verso l’attuale stato di cose. «Libero commercio! Nell’interesse della classe operaia» (ivi, p. 43). Come possono i proletari non capirlo?

3. La lotta di classe al contrario

Sono parole che illuminano davvero lo stato attuale della politica. Certo; è questo un sistema dove i poveri sono sempre più poveri e ricchi sempre più ricchi. Dove – secondo l’ultimo rapporto Oxfam – nel 2020 la ricchezza dei miliardari ha raggiunto il massimo storico di 11.950 miliardi dollari, ossia quanto destinato dai Paesi del G20 per combattere la pandemia da coronavirus. Dove il patrimonio dei 10 miliardari più ricchi del mondo è cresciuto di 540 miliardi di dollari (cioè quanto basterebbe per garantire un vaccino universale e impedire che la povertà si diffonda a causa delle misure prese per gestire la pandemia). Dove, nella nostra civilissima Italia, la ricchezza di 36 miliardari è aumentata di 45,7 miliardi di euro; dove un’infermiera dovrebbe lavorare 127 anni per guadagnare la stessa cifra di un amministratore delegato in un anno. E con ciò, ci si vuole davvero lamentare? Non si capisce che questa lacerazione avviene nella migliore delle prospettive sociali ed economiche? Che il libero mercato vada incrementato proprio nell’interesse di tutta la miseria?

Un odio per il malessere si è impadronito delle fazioni più progressiste della politica italiana. La sinistra del pacifismo di classe, dell’amore di classe, ha cominciato a promuovere una lotta sempre più esplicita nei confronti delle aspirazioni popolari al recupero delle battaglie sociali. Investendo esclusivamente sul piano del sentimento, la sinistra ha sostituito la lotta al capitalismo con la lotta al malcontento prodotto dal capitalismo. Al posto di “socialismo o barbarie” ha collocato “globalizzazione o barbarie”. La lotta contro i padroni è divenuta lotta contro gli ignoranti, contro gli zucconi impreparati del popolo: il cuore di tenebra di un’Italia ancora “retrograda” che non accetta il migliore dei mondi possibili.

Non c’è nulla di più inumano e di antisocialista, scriveva Gramsci, che trattare i proletari come se fossero dei bambini o degli stupidi, sempre esposti ai demagoghi e agli incantatori e del tutto incapaci di pensare con la propria testa (Gramsci 1967, p. 297). Eppure è forse questo l’aspetto più significativo dell’attuale retorica politica. Spaventata dalla cattiva educazione e dall’ignoranza dell’italiano medio, incapace di accogliere con serena accettazione lo status quo, l’ideologia progressista ha indetto una santa battuta di caccia contro lo spettro della dissidenza sociale, giudicando la sua stessa esistenza un fenomeno reazionario. Persino l’esame “disincantato” dei rapporti di forza dell’attuale sistema economico non è sfuggito a questa comune condanna, giacché, secondo l’osservazione che un giorno fu posta a Günther Anders,

«chi mette espressamente in luce tali fenomeni ed effetti, critica. Chi critica disturba tanto il corso evolutivo dell’industria, quanto lo smercio del prodotto, o perlomeno ha l’ingenua intenzione di tentare una tale azione di disturbo. Ma poiché il corso dell’industria e dello smercio devono progredire in ogni caso (non è forse così?), la critica è eo ipso sabotaggio del progresso e dunque reazionaria» (Anders 2003, p. 14).

Questo potrebbe essere definito uno dei primi strumenti indirizzati a neutralizzare gli effetti delle contraddizioni economiche. La lotta al malcontento, infatti, si verifica attraverso la moralizzazione del lessico politico, il quale, fratturandosi in una sfida escatologica, colloca da una parte la luce della civiltà che avanza, dall’altra le tenebre di un’orda barbarica irragionevole e refrattaria al cambiamento. Con ciò, come chiarisce lo stesso Anders, senza curarsi di un fatto fecondo di implicazioni:

«L’identificazione di “critica” e “reazione”, lo stigmatizzare il critico come sabotatore reazionario, facevano parte della tattica ideologica del nazionalsocialismo […]. Con tale identificazione il “Movimento” onorava se stesso, si autoproclamava movimento progressivo, perché, se la critica era eo ipso reazionaria, ne risultava necessariamente che il suo oggetto, cioè il regime stesso, doveva essere progressivo» (ivi, pp. 14-15).

E qui interviene il secondo punto. La degradazione della critica al modello economico come conflitto del “bene” contro il “male” si accompagna, infatti, a una generale ridicolizzazione della dissidenza. Difficilmente al dissidente (pensiamo a un’eventuale critica all’UE, all’Euro o alla NATO) è riconosciuta la dignità politica di essere un avversario. La mancanza di consenso è interpretata come un deficit culturale, un difetto di educazione. Il dissidente – si lascia intendere – sarebbe senz’altro d’accordo con le narrazioni e le scelte della classe dirigente se avesse studiato di più.

Terzo e ultimo elemento è quello della patologizzazione. Una questione sociale – la frustrazione generata dalle contraddizioni del sistema economico – viene affrontata in chiave del tutto psicologica, alla quale si risponde incoraggiando ad abbandonare i sentimenti “negativi” del sospetto, dell’avversione, della paura, per abbracciare i sentimenti “positivi” dell’amore, dell’accettazione, della pazienza, eccetera. Tutto si risolve in una retorica stucchevole che quasi mai s’interessa alla condizione economica e materiale in cui si genera questo malcontento (cfr. Furedi 2008). Ai precari, ai disoccupati, ai cassaintegrati, agli sfruttati, si domanda un “conformismo emozionale” travestito da invito alla resilienza.

Ciascuno di questi aspetti – moralizzazione, ridicolizzazione e patologizzazione – meriterebbe di essere esaminato a parte. Ma si possono ricucire questi movimenti nell’obiettivo che li accomuna: il desiderio di evitare che si costituisca una qualche coscienza del malessere, una qualche rivendicazione in chiave politica dei diritti sociali. In questa segreta guerra all’insoddisfazione, i media si rivelano, come già denunciava Anders, un ottimo strumento di «massificazione a domicilio» rispetto a cui i vecchi sistemi di condizionamento appaiono antiquati (cfr. Anders 2003, p. 91). Ciò che un tempo risuonava nelle chiese e nelle piazze, ora riecheggia nelle cucine, in salotto, nelle camere da letto.

Una nuova lotta di classe è cominciata, e noi ci viviamo letteralmente immersi. Una lotta di classe al contrario.

Bibliografia

Anders (2003), G., L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, vol. I, Bollati Boringhieri, Torino. La prima edizione dell’opera è del 1980.

Furedi (2008), F., Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, Feltrinelli, Milano. La prima edizione è del 2004.

Gramsci (1967), A., Scritti politici, Editori Riuniti, Roma. La prima citazione è tratta da Individualismo e collettivismo, pubblicato il 9 marzo del 1918 su Il grido del popolo. Il secondo riferimento è riportato in Studi “difficili”, pubblicato il 27 dicembre 1919 ne L’Ordine Nuovo.

Màdera, (2012), R., La carta del senso. Psicologia del profondo e vita filosofica, Raffaello Cortina Editore, Milano.

Marx, Engels (2014), K., F., Manifesto del Partito Comunista, Einaudi, Torino. Il Manifesto fu pubblicato a Londra nel 1848.

Sitografia

I dati riportati fanno riferimento all’ultimo comunicato stampa di Oxfam, rinvenibile a questo link: https://www.oxfamitalia.org/wp-content/uploads/2021/01/CS_-OXFAM-IL-VIRUS-DELLA-DISUGUAGLIANZA_25_1_2021_definitivo.pdf. Per una sintesi del rapporto 2021 (Il virus della disuguaglianza) si veda: https://www.oxfamitalia.org/wp-content/uploads/2021/01/FINAL_Sintesi_report_-Il-Virus-della-Disuguaglianza.pdf.

Autore: Shady Dell'Amico

Shady Dell’Amico è nato a Pisa il 21/11/1994. È laureato magistrale in Filosofia all’Università di Pisa con una tesi dal titolo “Il male in Dio. Psicopatologia del divino in Freud e Jung”. Si interessa di psicoanalisi, antropologia filosofica e fenomenologia della religione.

One thought on ““Capitalismo o barbarie”. Ideologie legittimanti e lotte di classe al contrario

  1. La lotta più aspra cui stiamo assistendo è quella intorno alle voglie del più sfrenato individualismo, reinterpretate in diritti. Parole, anni fa, di Giovanni Lindo Ferretti. Quindi, da un punto di vista politico, giova meno oggi giorno rappresentare una periferia (anche in senso metafisico) che non l’élite a dire il vero sempre più ampia di chi crede in questo illusorio affrancamento, consegnandosi al mercato e ai suoi rappresentanti istituzionali (il socialismo borghese). In senso ancora più ampio condivido l’analisi di Sloterdijk: “Forse sarebbe davvero utile ricordarsi che una cultura superiore sopravvive così a lungo solo nella misura in cui le riesce convincere quel numero sufficiente di individui nei quali è viva la necessità di difendere la differenza tra ipotesi e incantesimo…” Intendo dire che qui l’incantesimo è stato rotto, frantumandosi nella bassa concretezza di un godimento sempre più esplicito.

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