
Abstract: L’articolo descrive la teoria del piacere e del dolore, in particolare, l’oggetto della riflessione è individuare i punti di connessione tra due icone del pensiero europeo, il primo in ambito filosofico, Kant, mentre il secondo in ambito poetico, Leopardi. Un connubio di pensiero e poesia che ha lo scopo di portare l’attenzione su un tema molto dibattuto nel corso della storia della filosofia moderna e della letteratura.
La filosofia kantiana riflette sui limiti della ragione umana e giunge alla conclusione che l’uomo conosce solo nella dimensione esperenziale e che, oltre i limiti dell’esperienza, il sapere barcolla tra le fauci dell’illusione, un’illusione metafisica. Nella Critica della Ragion Pura, pubblicata in prima edizione nel 1781, e più specificatamente nella parte dell’opera dedicata alla Dialettica Trascendentale, Kant si occupa della conoscenza umana che si rivolge agli oggetti stanti al di fuori dei confini dell’esperienza. Dal punto di vista teoretico, la figura centrale indagata dalla filosofia kantiana è l’io penso, l’attività di giudizio per eccellenza. Il soggetto trascendentale, l’io appunto, è inconoscibile, inaccessibile, avviluppato da un’oscurità che non da accesso alla ragione. Secondo Kant l’io illude l’essere umano catapultandolo nella sfera dell’illusione. L’illusione è inganno, un inganno che il filosofo tedesco attribuisce alla ragione, non ai sensi1. Dunque, all’interno della coscienza umana sono presenti ragioni oscure e sfuggenti che l’io non è in grado di chiarire ed afferrare. Da ciò ne consegue che la filosofia morale si pone come un’analitica dei moventi che trasforma questi ultimi in motivi in quanto occorre un’analisi del motore che spinge all’azione. I moventi oscuri che circolano nell’essere umano lo determinano nell’azione e nel desiderio. Il desiderio assume un ruolo centrale poiché l’intera questione morale trattata da Kant ruota intorno ad esso: è il desiderio il motore dell’agire.
Kant tratta la dottrina del piacere già in fase precritica all’interno del testo “Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime” (1764) dove descrive il piacere come una qualità positiva e il dolore come una qualità negativa. Cambierà questa tesi dopo la lettura del testo “Discorso sull’indole del piacere e del dolore” di Pietro Verri secondo cui il piacere consiste nella cessazione del dolore. La riflessione di Verri trae spunto dalla tradizione e trova la sua origine in Locke che, nel Saggio sull’intelletto umano (1690), afferma che il dolore stimola l’azione2. Secondo Locke la felicità, intesa come piacere, rende inermi; un eccesso di gioia produce inattività, il dolore al contrario produce attività. Vi è una precedenza del dolore rispetto al piacere che lega la questione alla dimensione della temporalità. Non a caso Verri è convinto che piacere e dolore abbiano un forte legame con la temporalità, ossia con la percezione umana del tempo: gli stati di dolore e piacere si alternano nel tempo. Emerge così la nuova posizione secondo cui la vita umana consiste nel continuo alternarsi di dolore e piacere. Nell’Antropologia Pragmatica (1798) Kant parla della vita umana in riferimento al piacere e al dolore nella sua connotazione biologica. La catena biologica del passaggio dal piacere al dolore e viceversa non è padroneggiabile, è un circuito che estromette la ragione. Il filosofo tedesco intravede però una via d’uscita in grado di condurre l’uomo al di fuori dal circuito in cui la natura lo immette, ossia la Ragione Pratica unico stendardo di salvezza che sottrae l’individuo a quel circuito che, dal punto di vista biologico, non lascia via di scampo. Attraverso la Ragione Pratica l’essere umano riesce a vedere se stesso in modo diverso dalla sua modalità animale, si vede nella sua modalità morale. Emerge un’interpretazione negativa della natura, compresa la natura umana perché se l’uomo è abbandonato esclusivamente alla sua naturalità rimane al di sotto delle sue possibilità. Nella sua naturalità l’uomo è pervaso dall’egoismo, inteso come amore di sé. Da un lato esso avvicina l’uomo all’animalità ponendosi anche come istinto di conservazione, dall’altro è propriamente umano poiché presuppone un io. Il filosofo tedesco propone una dualità della natura umana in quanto l’essere umano è sia fenomeno (natura) che noumeno (intelletto). Tuttavia, l’uomo può conoscere se stesso solo come appartenente all’ordine naturale mentre la sua noumenicità resta per lui inaccessibile e inconoscibile; l’uomo, come noumeno, è un’incognita solo pensabile, può pensarsi ma non conoscersi come io penso, bensì solo come io vivendi. Serpeggia qui la duplicità dell’io che è sia soggetto pensante che soggetto senziente. Tuttavia questa duplicità è solo apparente perché l’io umano e entrambe le cose, ossia pensante e senziente insieme. La natura umana, pur essendo unitaria, si presenta in modo duplice: empirica e razionale. Anche il tema del piacere e del dolore ha due facce, ma nell’Antropologia Pragmatica viene considerato principalmente il lato senziente inteso come temporalità. Piacere e dolore hanno un aspetto sensibile, tuttavia, per quanto concerne il dolore, esso ha anche una radice intellettuale poiché deve essere inteso come il dolore che la legge morale produce. La regola ostacola l’alternanza del piacere e del dolore perché essa è tutta dolore. Il dolore è un dolore intellettuale poiché la regola morale spaventa, produce un dolore sublime. In generale è il sistema delle regole che atterrisce in quanto interrompe la catena del desiderio con una scossa potente incarnata dal distacco della ricerca perenne e illusoria della felicità. La regola morale dimostra la fallacia di quella ricerca svelandone l’illusorietà e mutando in dolore puro.
Passando dall’ambito filosofico a quello letterario, Leopardi reinterpreta il nesso noia-dolore-piacere. Mario Andrea Rigoni, nel saggio “Il pensiero di Leopardi” svolge una ricostruzione analitica e sistematica dei testi leopardiani.
In uno dei pensieri del 1826 Leopardi scrive: «Non vi è altro bene che il non essere», dunque non vi è altro bene se non le cose che non sono cose. Leopardi richiama l’esperienza del nulla che giudica la più nobile di tutte le esperienze: il nichilismo. Secondo Rigoni Leopardi non solo è poeta ma anche pensatore in quanto egli è teorico della negatività dell’essere, del negativo. Leopardi è un autore di snodo tra lo spirito dell’Illuminismo e l’atmosfera culturale che culmina nel nichilismo, egli non è solo un romantico ma anche un illuminista, in particolare è affine all’illuminismo negativo. Il termine che ricorre più frequentemente nelle opere leopardiane è quello di natura che egli interpreta come un’entità. Per quanto concerne la teoria del piacere e del dolore è intesa da Leopardi in chiave pessimistica e richiama la concezione kantiana del dolore e del piacere. Anche per Leopardi, infatti, la ricerca della felicità è vana per l’uomo sempre contrastato, secondo il poeta di Recanati, dalla natura ostile e maligna. La ricerca della felicità rappresenta per l’essere umano una grande illusione poiché se la vita umana è caratterizzata dall’incessante fluire di istanti di dolore interrotta da momenti di piacere significa che la felicità è irraggiungibile e inafferrabile, uno stato inesistente. Il pensiero leopardiano è caratterizzato da due fasi fondamentali: il pessimismo storico e il pessimismo cosmico. Per quanto concerne il pessimismo storico Leopardi richiama la concezione vichiana delle tre età della storia (età, degli antichi, età degli eroi, età degli uomini). Il poeta di Recanati ritiene che l’infanzia (età degli antichi) sia dominata dall’intuizione, ossia dalla capacità di cogliere le cose in modo immediato, mentre la maturità e la vecchiaia (rispettivamente età degli eroi ed età degli uomini) siano dominate dall’intelletto e dalla ragione, che fungono da mediatori con il mondo. Leopardi rimpiange il mondo antico e svaluta il presente nel quale domina il vero della ragione che rivendica, appunto, la verità. Il predominare del vero immiserisce il reale inaridendolo. Lo sguardo della ragione, come quello di Medusa, pietrifica, rende arido l’albero verde della vita, esso stesso è illusorio, e contraddistingue la giovinezza umana sia a livello individuale sia dal punto di vista del genere umano. Il dialogo della natura e di un islandese, all’interno delle “Operette Morali”, rappresenta una fase di passaggio. Se prima di esso il pessimismo riguardava la storia, vi era dunque un rimpianto del passato, era storico, adesso non c’è più un’alternanza di fasi storiche, non c’è più un prima e un dopo, non c’è più tempo: il pessimismo da storico è divenuto pessimismo cosmico. Non solo la sfera umana è caratterizzata da questa dimensione negativa, ma tutto il cosmo. L’atteggiamento leopardiano è espressione della delusione storica a fronte di un’illusione storica: ecco l’esperienza tragica, il dolore, l’infelicità che travolge come una tempesta l’intera poetica di Leopardi annegante in un mero e spudorato nichilismo. Leopardi è espressione della coscienza infelice che riflette se stessa considerandosi un oggetto di riflessione e divenendo coscienza infelice universale. La coscienza infelice non riguarda solo Leopardi, ma un’intera epoca. Gli aspetti che la coscienza infelice coglie di sé rispetto al mondo esteriore da cui si isola è l’incongruenza, ossia la coscienza di essere incongrui rispetto al proprio tempo o alla vita quotidiana. Essa definisce il mondo teorico di Leopardi e le nozioni principali di questo mondo sono tedio e noia. Il tedio è lo stato della morte interiore, la noia, invece, costituisce il principio del sistema leopardiano dall’inizio alla fine. Egli è annoiato nel senso filosofico del termine che va a defluire nel significato di vuoto interiore: l’alternanza tra piacere e dolore è percepita come lunghissima. L’alternanza, quello spazio vuoto tra piacere e dolore, è appunto quello della noia. La noia ha un rapporto forte con l’illusione poiché rivela il vuoto, il nulla delle cose. In Leopardi il tedio e il nulla vengono personificati, sono personaggi tragici e si traducono in immagini poetiche che corrispondono ad un’aspirazione inappagata. La coscienza infelice leopardiana aspira a trovare il proprio rappresentato come un vivente, ma trova innanzi a sé soltanto il vuoto, il nulla. Fondamentale in entrambi i pensatori è, dunque, il concetto di illusione associata alla costante ricerca umana della felicità, un’illusione prontamente disillusa dalla ragione, che in modo meschino sbatte in faccia all’individuo una crudele verità leopardinana: “non vi è altro bene che il nulla” ed ecco, che atterrito dalla paura e con gli occhi ormai completamenti aperti, come se si fosse appena svegliato da un bel sogno in cui aveva quasi sfiorato la felicità, trema e barcolla in preda al dolore puro, il dolore kantiano.
Bibliografia:
- I. Kant, Critica della ragion pura, trad di G. Gentile e G. Lombardo Radice, Laterza 2005;
- I. Kant, Critica della ragion pratica, a cura di V. Mathieu, Bompiani 2000;
- I.Kant, Antropologia pragmatica, trad di G. Vidari, Laterza 2009;
- I. Kant, Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, trad. Di L. Novati, Rizzoli 1989;
- P. Verri, Discorso sull’indole del piacere e del dolore, Carocci 2001;
- A. Rigoni, Il pensiero di Leopardi, La scuola di Pitagora 2020;
- C. Luporini, Leopardi progressivo, Editori Riuniti 2018.
Paolina Daniele
1Kant ribalta la concezione del razionalismo classico di stampo cartesiano secondo cui i sensi ci ingannano mostrando una realtà non equivalente a verità. Egli sostiene che non sono i sensi a fornire il materiale oscuro illuminato dall’intelletto il cui compito consiste nel portare chiarezza e distinzione. Kant afferma, al contrario, che l’oscurità non deriva dai sensi ma dall’io. Nel malfunzionamento dell’intelletto si annidano le rappresentazioni oscure che nell’immediatezza della percezione sensibile sono chiare ma vengono oscurate successivamente dalla cattiva funzionalità della ragione.
2Secondo questa tesi il motore dell’agire non è la ricerca dei piaceri o la felicità, ma si agisce per uscire dalla sfera del disagio. La spinta verso le grandi cose proviene dal disagio non dalla ricerca della felicità. Nell’idea lockiana serpeggia la precedenza del dolore sul piacere, nel senso che è il dolore a precedere il piacere.
24 gennaio 2021 alle 20:16
L’autrice solleva un tema molto vasto, molto più vasto di quanto si riesca a esprimere nel testo pubblicato che, per forza di cose, non poteva contenere che un’introduzione al tema e potrebbe costituire la prima puntata di un più approfondito excursus. Quanto a Leopardi, concordo con la posizione di Rigoni: Lo Zibaldone e le Operette Morali sono, per quanto non strutturati, dei veri e propri trattati filosofici.
Vorrei, se posso, porgere una critica costruttiva all’autrice. Secondo il mio modo di sentire e di interpretare un articolo scientifico o filosofico che sia, al pezzo fa difetto una serie di definizioni iniziali. Di che cosa si parla nell’articolo? di piacere e di dolore. Già, ma di quale dolore e di quale piacere? Analizzando Kant, l’autrice sembra avvicinare alcune definizioni di dolore e di piacere, ma solo attraverso vie traverse. Sarà solo una questione di gusti, ma a me sarebbe piaciuto sapere “ex ante” di quali dolori (perché di un affollato plurale si tratta, non di un singolare) e di quali piaceri si sta argomentando.
Inoltre, benché Kant applichi la ragione anche alla religione e benché Leopardi navighi religiosamente nelle acque del dubbio e di una spiritualità privata, tuttavia il dolore e il piacere (come categorie) sono parenti stretti di altre categorie, quella bene e quella del male, sulle quali senza eccezione alcuna, le religioni hanno sempre preteso l’ultima parola. Di questo aspetto, tranne pochi accenni, poco si coglie nell’articolo. In ogni caso, complimenti all’autrice per aver affrontato il tema e per come l’ha affrontato. Rimaniamo (rimango) in attesa di ulteriori stimolanti analisi da parte sua.