
Abstract: l’articolo affronta la riflessione kantiana inerente alla fine di tutte le cose, come narra il titolo stesso del suo saggio dedicato a tale argomento. Scopo del breve scritto e comprendere come Kant interpreta la fine e la soluzione che funge da baluardo alla sua riflessione tipicamente razionale.
«È d’uso comune, soprattutto nel linguaggio della pietà religiosa, attribuire a un uomo che sta morendo il seguente modo di dire: egli sarebbe sul punto di passare dal tempo all’eternità. Tale espressione non vorrebbe dir nulla, di fatto, se qui per eternità si dovesse intendere un tempo che si protrae all’infinito» (I. Kant, La fine di tutte le cose, a cura di A. Tagliapietra, Bollati Boringhieri 2006, p.7). Da questo passo della Fine di tutte le cose emerge il problema del passaggio dal tempo all’eternità che suppone una frattura del continuum tra i due termini. Kant spoglia il passaggio dall’uno all’altra del significato religioso in cui affonda le sue radici e annulla l’attraversamento del ponte che lega tempo ed eternità poiché non ha luogo: «Il passaggio resterebbe del tutto temporale, significando solo la transizione di un tempo ad un altro» (F. Desideri, Quartetto per la fine del tempo, una costellazione kantiana, Marietti, Genova 1991, p. 153).
Addirittura, la pensabilità di un tale passaggio barcolla dinnanzi alla riflessione kantiana poiché l’essere umano, essere storicamente determinato, non riesce a darsi razionalmente il concetto ideale dell’eterno. Il passaggio dal tempo all’eternità comporta il perdurare umano oltre il tempo, dalla sfera storica a quella metastorica, altrimenti la transizione resterebbe nulla. Ma, non si può pensare l’eternità senza il concetto di durata, poiché sarebbe un vuoto concetto senza oggetto che, in quanto noumeno, non può essere detta impossibile, ma neanche possibile. Dunque, l’eternità, come durata temporale, rappresenta il continuum infinito dell’esistenza. Tuttavia l’esistenza stessa nell’eternità è noumenica, non può essere pensata mediante intuizione, poiché la definizione stessa di eternità non implica il tempo. Pertanto, Kant definisce l’ eternità come un concetto negativo, nel senso che viene pensata esclusivamente attraverso la negazione; ossia, sottraendo alla forma del tempo come intuizione. Tempo e spazio sono le forme a priori della sensibilità la quale precede il darsi di qualsiasi ente precostituendone la fenomenicità: «Per pensare l’eternità, bisogna pensare non solo la fine di ogni cosa nel tempo: degli enti temporali e degli oggetti di un’esperienza possibile, ma anche la finitezza della stessa forma della temporalità» (F. Desideri, Quartetto per la fine del tempo, cit., p. 154); Kant uccide il tempo.
Anche l’affermazione secondo cui il tempo è parte dell’eternità è sbagliata. Essendo i due concetti eterogenei, l’uno non implica l’altro perché l’eternità, come pura durée, non prevede nessun mutamento dell’ente. Tuttavia, la realtà umana è calata nel tempo, costantemente soggetta al cambiamento e, presumibilmente, a una fine: «Inseguendo il passaggio dal tempo all’eternità […] così come se lo rappresentava la ragione stessa da un punto di vista morale, ci imbattiamo nella fine di tutte le cose in quanto realtà temporali e come oggetti di possibile esperienza: ma tale fine, nell’ordinamento morale dei fini, è insieme l’inizio di una durata ulteriore, da intendersi come soprasensibile e, conseguentemente, non soggetta a condizioni temporali, la cui realtà e il cui stato perciò non saranno passibili se non di una determinazione morale della loro natura» (I. Kant, La fine di tutte le cose, cit., pp. 11,12); in questo senso, la fine rappresenta l’unione tra tempo ed eternità. Il momento che segna la fine del mondo sensibile coincide con l’inizio del mondo intellegibile, inizio e fine sono identificati, ma questa identificazione genera contraddizione. L’ultimo attimo del tempo e il primo attimo dell’eternità, non segnano il passaggio dall’una dimensione all’altra poichè è sospeso, non è temporale ma neanche atemporale, non si fa portatore di un continuum tra tempo ed eternità: «L’attimo può solo esprimere il comune confine tra il “non più” e il “non ancora” relativo ai due tempi successivi in cui si effettua il passaggio da uno stato ad un altro ovvero il mutamento nel modo di esistere della cosa, ma non può esprimere il passaggio stesso» (F. Desideri, Quartetto per la fine del tempo, cit., p. 157). Ciò che unisce il “non più” e il “non ancora” è la negazione, il “non” della dimensione attuale e proprio tramite esso può essere pensato un tempo privo di tempo, un attimo vuoto non soggetto all’intuizione. A questo punto, privato di ogni intuizione fenomenica, il tempo diventa pura negatività precipitando nell’immediatezza dell’istante: «Senza il porsi di una qualche esistenza in esso, allora si può ben dire […] che il tempo non ha alcuna durata. Il suo essere (ora, in futuro, insieme, prima, dopo) è un istante» (Ivi p.158). Pensato come vuota intuizione senza oggetto, il tempo, diventato ens imaginarium, si radica nell’immaginazione. Così come l’eternità, come concetto negativo, è un ente della ragione, è noumeno, anche il tempo, come intuizione negativa, si pone come ente dell’immaginazione, come intuizione pura. La contraddizione tra tempo ed eternità sembrerebbe risolta, ma non è così. Infatti ciò sarebbe possibile se l’eternità fosse pensabile come assoluto niente, ma Kant scarta quest’ipotesi, poiché l’eternità è un’esistenza con tutta la durata mentre l’attimo è, come qui è emerso, esistenza senza nessuna durata: ritorna il problema del passaggio dal tempo all’eternità. Questo dilemma è anzitutto logico: pensando l’attimo, che segna la fine del tempo e l’ingresso nell’eternità si corre il rischio di temporalizzare l’eternità avvicinandola al sensibile. In questo senso si ottiene una serie connessa di attimi in cui svanisce l’eterogeneità dei due concetti, come se tempo ed eternità si identificassero in un solo stato. Invece, bisogna pensare l’eternità, non in serie, ma in senso dinamico dimostrando come l’eternità sia totalmente altro dal tempo e avvicinandola al puro “non” dell’istante. Ciò condurrebbe il tempo all’autodistruzione, a dissolversi in un puro oggetto dell’immaginazione, nel nulla. Di fronte ciò il pensiero si arresta per poi ritrarsi e il passaggio dal tempo all’eternità diviene un’aporia irrisolvibile poiché la ragione, posta innanzi all’attimo che funge da intervallo tra tempo ed eternità, si estranea da sé cadendo nell’abisso del pensiero; tuttavia: «Alla disperazione dell’intelletto, quella disperazione conoscitiva, quel blocco della riflessione in cui l’animo è gettato considerando lo iato, la crepa logica tra tempo ed eternità, corrisponde il sentimento del sublime» (Ivi, p. 161). Kant descrive il sublime come un’emozione che, irrompendo come un fulmine, arresta il sentire generando una momentanea paralisi del pensiero. Anche per il concetto di eternità «il pensiero sente, per così dire, il suo spaesamento, il suo paradossale stare in un terreno neutro […]. Un’immagine non esponibile in un’intuizione […]. Un’idea però che qui è all’origine del sublime straniamento: all’origine di una disperante (paralizzante) emozione del pensare» (Ivi, p. 162): questo pensiero è il vero abisso per la ragione umana. Il pensiero dell’eternità, affascinante e al contempo raccapricciante, mostra la tensione, tipica della ragione umana, a oltrepassare i limiti dell’esperienza. La ragione violenta l’immaginazione per trasformare il sensibile in sovrasensibile rendendola confacente al suo livello, quello pratico. Nella lotta tra ragione e immaginazione, l’immagine del sensibile viene negata e «il piacere del sublime è dunque un piacere negativo che si armonizza per contrasto con la negatività del concetto nel quale la riflessione lo converte» (Ivi, p. 165): il sentimento morale, il quale altro non è che terrore sublime. Secondo Desideri, essenziale nella comprensione del passaggio tra finito e infinito è il Giudizio riflettente che attraverso la comprensione estetica esibisce il passaggio dalla serie temporale all’attimo eterno. In questo movimento l’immaginazione, prima violentata dalla ragione, violenta il senso interno, l’intuizione dunque, riflettendo l’effetto della ragione sulla sensibilità originato dal sentimento del sublime. A questo punto l’immaginazione diventa a sua volta capace di creare idee intellettuali, non è più solo immaginazione produttiva, ora è immaginazione creatrice. La ragione comunica con sé stessa generando idee la cui radice sensibile è correlata con quella razionale. In questo gioco creativo non vi è conoscenza, bensì una riflessione specchio della libertà razionale che si esprime nella produzione di simboli . La rappresentazione simbolica fonda il passaggio tra l’idea estetica e l’idea razionale, tra il tempo e l’eternità; il passaggio, di natura riflessiva, promana dalla trascendentalità del giudizio riflettente; quella trascendentalità appartenente alla dimensione pratica: simbolicamente inteso il passaggio dal tempo all’eternità non è più una contraddizione, a patto però che la fine temporale venga considerata da un punto di vista morale .
Bibliografia
• I. Kant, La fine di tutte le cose, a cura di A. Tagliapietra, Bollati Boringhieri 2006.
• F. Desideri, Quartetto per la fine del tempo. Una costellazione kantiana, Marietti, Genova 1991.
• L. Tundo, Utopia e senso della storia, Dedalo, Bari 1998.
Paolina Daniele.