Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

L’arte di essere felici

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Nel tessuto dei concetti che descrivono la vita umana, la felicità è tra i più difficili da catturare, ma anche il più irrinunciabile, tutti gli esseri umani aspirano alla felicità.

La ricerca della felicità è un tema molto ampio, sul quale l’uomo ha riflettuto in ogni periodo storico. Il termine felicità deriva dal greco “eudaimonia” ed indica lo stato di chi è felice, di chi è appagato. Eudaimonia è l’unione di due parole eu (bene) e daimon  (demone), rimanda a una condizione di vita buona, una dottrina che ripone il bene sommo nella felicità.

Con la filosofia socratica-platonica, la felicità viene dissociata dalla fortuna e legata alla virtù, fondata sulla capacità dell’ individuo di affermare la sua aspirazione al bene, ritenendo che gli uomini potessero sottrarsi all’imprevedibilità della sorte, costruendo una vita moralmente buona, ispirata agli ideali di moderazione e contenimento razionale dei desideri e delle passioni.

Viene affermata una stretta connessione di virtù e felicità. La virtù in oggetto è la giustizia. Solo la virtù è capace di produrre una serenità d’animo duratura, una condizione interiore di equilibrio che appartiene all’uomo giusto.

Nell’epoca moderna, la felicità perde questa connotazione morale, divenendo qualcosa di esclusivamente personale, legato all’individualità ed alla personale soddisfazione di inclinazioni e desideri.

In questa accezione moderna, la felicità sembra divenire  una chimera, un traguardo irraggiungibile. Nonostante ciò l’uomo ne è da sempre alla ricerca, ritenendo che sia un diritto inalienabile, e misura il livello di soddisfazione dell’esistenza sul grado di felicità.

La felicità diventa una questione morale solo all’interno di una visione complessiva di sé e del proprio mondo, diventa una modalità dello stare al mondo, occasionale o consueta, una volta vissuta non può essere dimenticata. Per l’uomo nulla perisce definitivamente, poiché il tempo non è in grado di abolire l’esperienza, la coscienza mantiene in sé quel che trapassa. La felicità è uno stato della mente, gli uomini sanno cos’è la felicità, perché ne sperimentano la condizione, l’uomo non attinge la felicità tramite la riflessione, non sa di essere felice, si sente felice, è una condizione che esclude, se pur momentaneamente la percezione della perdita, consente di obliare il dolore. Per questo chi è felice, quando è felice, non si interroga sulle ragioni per cui lo è. Quella situazione di perfetto benessere, che chiamiamo felicità, una volta perduta non comporta che subentri necessariamente la sofferenza. Il fatto che la felicità sia per gli uomini un bene deperibile, diventa un’occasione per non lasciarsi sfuggire quello che la vita offre. La vita insegna che la felicità incondizionata è un dono che l’uomo può ricevere e non un bene di cui disporre. La ricchezza è caratterizzata dal poter disporre, nell’accezione comune, ricco è colui che potendo disporre è sciolto dal bisogno ed è nelle condizioni di espandersi, ma spesso chi possiede è limitato nella sua capacità di espandersi proprio da quel che possiede, è talmente legato a quel che ha, da non riuscire a sciogliersi da esso. D’altra parte la felicità è tale, proprio perché in essa ci si sente custoditi. In questo senso non è felice chi è ricco, ma la ricchezza risiede essenzialmente nel sentirsi felici, in qualunque modo a ciò si pervenga. La felicità, se la si sottrae alle vicende del tempo, al suo sopravvenire e dileguare, se la si considera nel momento in cui la si esperisce e al modo in cui la si esperisce, coincide con il sentimento della propria illimitata espansione, possiede una propria componente eversiva. In quanto espansione, può spezzare il vincolo, noi non siamo onnipotenti, perché la nostra quantità di forza, la nostra quantità di potenza è limitata. Il vincolo può essere interpretato come l’auto-organizzazione della propria potenza. Chi è felice non ignora il limite, ma non lo percepisce come ostacolo, in effetti non vi può essere espansione se non si include nel proprio spazio uno spazio non proprio, lo spazio dell’altro. C’è sentimento di espansione se lo spazio dell’altro diviene per noi accogliente, occasione del nostro crescere. L’espansione di sé si realizza come fusione con il circostante, dove il termine fusione indica il sentimento di immersione nel tutto che esclude il dolore della separazione e restituisce all’uomo il senso di una totale integrità.

La felicità bisogna interpretarla come ascesa. La capacità di vincere il proprio dolore, diviene un modo di crescere. Da questo punto di vista lo stesso dolore può diventare un ingrediente della felicità. “L’uomo è felice – dice Nietzsche – non quando è sazio, ma quando è capace di vittoria”. Allora nel vincere sé stessi, nel rafforzarsi attraverso la sofferenza, si ha un’idea più alta e più forte di felicità.  La nostra nozione di felicità cambia, non è più quella dell’attimo. Titolare vera della felicità è la vita intera. Noi potremmo pensare ad una vita interamente felice, se fossimo capaci di valorizzare tutti questi attimi che la compongono. Non dovremmo pensare che la felicità stia soltanto nel godimento, nella soddisfazione immediata, ma dovremmo renderci in grado di concepire la felicità nella capacità di vittoria. Nella felicità può esserci il dolore, inteso come un protendersi. L’espandersi è il protendersi all’estremo. La felicità è nel tendersi. In tutto questo può giocare la sua parte anche la stessa sofferenza. La felicità non si realizza nell’attimo, esperienza intensa e labile, ma è espressione di una vita intera, una meta da perseguire , come progetto della propria esistenza. Nella perfezione dell’attimo, gli uomini attingono l’eterno, irrompe nel tempo, si manifesta nella vita come una possibilità. L’attimo di felicità ricade nella vita, le appartiene. E’ in forza di questa appartenenza, che la felicità anche quando sembra perduta, viene ricercata. In quanto esperienza vissuta, essa si trasforma inesorabilmente in meta. Gli attimi, pur nella loro transitorietà, rischiarano l’esistenza. La felicità a cui l’uomo perviene nell’attimo, lo rende grato nei confronti della vita. Un’esistenza riuscita non è una sommatoria di istanti, ma coincide con la trama intera del suo sviluppo. Se la felicità si risolve nell’accrescersi della vita, allora, è qualcosa di più di uno stato della mente, ma viene a coincidere con una pratica: è l’arte del buon vivere che genera soddisfazione. La felicità consiste nello sviluppo armonico della sensibilità, dell’intelligenza, dove nessuna di queste dimensioni si espande  a spese dell’altra. Felice è l’uomo che ha saputo modulare i piaceri e i dolori, che ha sperimentato nelle stessa durezza della lotta il gusto della vittoria, che ha saputo carpire a ogni momento la sua gioia, ma secondo misura, per quello che la circostanza poteva offrire, senza pretendere la felicità come virtù.

E’ necessario comprendere se ciò che si ricerca sia autentico, oppure il frutto di una distorsione della realtà, causata dalle molteplicità di informazioni, che non lasciano cogliere la vera essenza del mondo, ma mostrano un’immagine riflessa e distorta di esso.

La realizzazione più piena di sé non si realizza nell’attimo, ma è espressione di una vita intera, sapendo modulare piaceri e dolori, come la pasta che lievita, scrive Natoli, è un accrescersi della vita su sé stessa, un’arte di vivere che genera soddisfazione, è la felicità non come possesso, ma come armonia, non è nell’esterno che c’è la felicità, ma nella capacità di fare lievitare infinitamente la propria vita come una buona pasta. L’attimo della felicità  è fecondo, se ricade in ogni momento nella vita. Sant’Agostino diceva che si è attratti dalla felicità, se si è trascinati dalla felicità. Non siamo noi che raggiungiamo la felicità, ma la felicità ci prende come se fosse un vortice. Per esprimere ciò Sant’Agostino usa questa formula: la felicità ci prende “improvvisamente” e “quasi di passaggio”, ci trascina con sé. Ritenere allora che la felicità possa essere offerta solo da certe cose può trasformarsi in un’ossessione e mettere l’uomo nella condizione di escludere dalla propria vita tante altre occasioni che possono produrre la felicità. 

 Nell’attimo in cui ci si sente felici non si ha una percezione diretta dell’attimo, bensì l’abolizione del tempo stesso. E’ questa la caratteristica tipica dell’attimo. Noi diciamo che: “la felicità è breve”, solo se la guardiamo nel momento stesso in cui siamo caduti dall’attimo. Ma , nel momento in cui l’uomo si sente felice, esso prova felicità,  proprio perché il tempo svanisce. Non a caso Rilke parla di attimo immenso, ovvero attimo che si dilata quasi come se il tempo diventasse spazio.

La letteratura ha descritto molto bene tutto questo. La lunga notte d’amore di  Tristano e Isotta, in cui i due amanti desiderano che non torni più la luce del giorno.

 Nell’esperienza culminante nella felicità, cade il tempo. E allora la caratteristica della felicità è di farci sentire infiniti, perché il tempo stesso è come sospeso. Quando noi siamo presi nel vortice della felicità, dimentichiamo il tempo. E’ questa la dimensione di incanto descritta dal Bacio di Klimt, il guardarsi negli occhi degli innamorati, che dura un’eternità, gli esseri umani non sono mai all’altezza dell’eternità che i loro stessi sentimenti sono in grado di raggiungere. Ecco allora,  l’altra dimensione dell’attimo: quando si esce dall’acme, si rientra nella normalità della vita e ci si accorge che quel vertice a cui si era arrivati può durare soltanto un momento. L’atteggiamento dell’uomo è di ricercare nuovamente quell’acme. La felicità è realmente di questo mondo e  l’uomo è infelice soltanto perché è stato felice. Perché se noi non avessimo avuto l’esperienza della pienezza della gioia, non potremmo avere neanche quella della perdita della felicità.

A partire da questa constatazione,  si cerca il modo di ricostruire la felicità. Qui il problema assume un connotato importante: come ricostruire la felicità? Quali sono i modi attraverso cui si può restaurare nell’uomo una condizione di felicità?

La felicità sarà qualcosa di raggiungibile entrando in sintonia con gli altri.

 La felicità non è nella vertigine della grandezza, ma irrompe costantemente nella vita.

Virtù  deriva dal greco areté, da cui il latino ars, ossia “arte”.La virtù è, quindi, l’arte di vivere. Da questo punto di vista il virtuoso è felice non perché sarà premiato per i suoi sacrifici, ma perché sa trovare nella vita la tecnica di riuscita. La felicità non sarà più un premio della virtù, ma la virtù stessa darà felicità in quanto fornirà l’abilità per conseguirla. Questo è un modo in cui, abitualmente, la felicità non viene mai pensata. La felicità è pensata sempre nei termini dell’attimo“felice”, in senso stretto, si può dire solo una vita intera. Nel tempo tutti i momenti devono essere funzionali alla crescita. Ecco perché la felicità, quella vera e profonda, può appartenere solo ad una vita intera, perché, se noi pretendessimo l’attimo, incontreremmo la morte.

Ecco perché l’attimo non può essere preteso, ma cresce anche attraverso  le nostre abilità, le nostre virtù, la capacità di modulare l’esistenza, il reciproco dono che ci scambiamo con il nostro vivere: tutti questi sono meccanismi che fanno crescere la vita. E perfino il dolore la può far crescere. Ecco allora perché l’attimo può essere atteso, ma non può essere preteso. Abbiamo, una dimensione illimitata di crescita, ma non è nel vertice della crescita che si raggiunge la felicità,  bensì nel continuo della vita. In questo senso la virtù è matrice di felicità perché felice, in senso stretto, può esserlo solo una vita intera. E in una vita intera gioie e dolori possono essere funzionali alla crescita. Questa è la dimensione più profonda e più alta della felicità, la bellezza frammentaria della vita, quando neanche ce l’aspettiamo, può irrompere e sviluppare in noi un sentimento profondo, anche inconscio, di gratitudine. L’infelicità involontaria  è, purtroppo, la più piena, perché dall’acme si può cadere; mentre, questa irruzione, questi piccoli frammenti di felicità, che irrompono in ogni momento della nostra esistenza, ci fanno amare quest’ultima.

Se poi ci chiedessimo il perché non lo sapremmo neppure dire. Ma questi attimi nutrono costantemente la vita, sono quegli elementi, per cui nonostante tutto,ci  sembra davvero bella.

E’necessario che ciascuno realizzi se stesso, identifichi quelle peculiarità, che lo contraddistinguono dagli altri, rendendolo unico e irrepetibile, realizzando una  condizione che sia frutto di un’arte del vivere, in cui prevalgano il senso della misura e una certa flessibilità nell’adattare i propri comportamenti alle circostanze. Così concepita la felicità, diviene inevitabilmente una questione morale, diviene un’arte in cui prevale il senso della misura. La felicità dipende dall’uomo ed è nelle sue possibilità raggiungerla. E’ questa l’arte di essere felici.

BIBLIOGRAFIA

V. S. NATOLI, La felicità, Feltrinelli, Milano 1994.

ARISTOTELE, Etica Nicomachea 1099 a 31–33

E. LEVINAS, Altrimenti che essere, trad. it. di S. Petrosino e M. T. Aiello, Jaca Book, Milano 1983

E. LEVINAS, Totalità e infinito, trad. it. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1977

B. PASCAL, Pensieri (n.*425), Ed. Paoline, Cinisello Balsamo (Milano), 1987, p. 261.

PLATONE, Repubblica, X libro.

J. HILLMAN, Il codice dell’anima, Adelphi, Milano, 1997

M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto. Il tempo ritrovato, Mondadori, Milano 1973

G. Leopardi, Zibaldone, in Tutte le opere, Sansoni, Milano 1969

B. Spinoza, Etica, trad. it. Torino 1959

B. Russel, La conquista della felicità, trad. it. Milano 1983

Immanuel Kant, Metafisica dei costumi, trad. t. Milano 2006

U. Galimberti, Vizi capitali e nuovi vizi, Milano 2003

F. Nietzsche, Umano troppo umano, trad. it. ,Milano 1965

F. Nietzsche, Genealogia della morale, trad. it. Milano 1928

One thought on “L’arte di essere felici

  1. Provo a riassumere alcuni elementi concettuali estratti dall’articolo.
    .
    1) la felicità è un dono:
    “La vita insegna che la felicità incondizionata è un dono che l’uomo può ricevere e non un bene di cui disporre. …”
    .

    2) la felicità è una conquista, una vittoria
    “L’uomo è felice – dice Nietzsche – non quando è sazio, ma quando è capace di vittoria”. …
    .

    3) La felicità è l’arte di realizzare se stessi secondo misura e capacità di adattamento alle circostanze:
    “E’necessario che ciascuno realizzi se stesso, identifichi quelle peculiarità, che lo contraddistinguono dagli altri, rendendolo unico e irrepetibile, realizzando una condizione che sia frutto di un’arte del vivere, in cui prevalgano il senso della misura e una certa flessibilità nell’adattare i propri comportamenti alle circostanze. …”
    .
    .
    Se la felicità è un dono, mi aspetto uno stato di grazia da parte di un’entità soprasensibile.
    Se la felicità è una vittoria, mi aspetto un intervento combattivo dell’uomo che realizza se stesso facendo emergere il proprio io contro le avversità della Natura matrigna.
    Se la felicità è misura e adattamento, mi aspetto un equilibrato intervento dell’uomo sulla Natura, nel rispetto dell’equilibrio delle forze che evita gli estremi opposti.
    .
    Dunque, se la felicità è un dono, perchè l’essere umano deve intervenire sulla natura con le proprie forze? Mi aspetto una provvidenza.
    Se invece è una vittoria, allora devo combattere la natura fino alla piena realizzazione del mio Io, senza equilibrio fra uomo e natura.
    Ma se è un equilibrio di forze, misura e adattamento, allora perchè dovrei combattere fino alla vittoria? Perchè dovrei aspettarmi la felicità come un dono?
    .
    Secondo me, se si ammette l’esistenza di un’entità soprasensibile, ordinatrice del cosmo, allora la felicità è una virtù, un esercizio di giustizia al fine di imitare la superiore giustizia cui l’entità nascosta è testimonianza.
    Se l’entità non si ammette, allora ci sono due possibilità: avvertire il cosmo come natura da combattere, oppure imitare l’equilibrio di forze di cui il cosmo è nascosta testimonianza.

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