Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Il problema della sensibilità

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Mi ponevo poco tempo fa il seguente quesito: «Da dove deriva la differenza di sensibilità nelle persone?», ovvero perché c’è una netta e innegabile differenza tra i “gusti” degli individui? I gusti, per carità, son gusti; ma sono sicuro che chiunque, posto davanti alle estreme, seppur logiche, conseguenze di tale affermazione, riconsidererebbe il suo valore di verità universale – perché se è vero che de gustibus non eccetera, è altrettanto indubbio che vi sono gusti e gusti. Per capirci in due parole, è evidente che un paragone tra Jovanotti e Diodato non desti lo stesso scalpore di quanto non faccia uno tra Jovanotti e Chopin. Questo, lo dico subito, lo prendo come un assunto; penso, comunque, che sia facilmente verificabile: chiunque ascolti una simile comparazione, infatti, storcerà, come minimo, il naso, persino gli stessi fan di Jovanotti. È come se si sapesse già, in qualche modo, forse solo perché ce lo siamo sentiti ripetere sin da piccoli, che Chopin è una colonna portante della musica di tutti i tempi, mentre Jovanotti… Ora, se fosse vero che “ognuno ha i suoi gusti”, allora un qualsiasi individuo potrebbe affermare che Jovanotti è nettamente migliore di Chopin senza incorrere nella benché minima obiezione e rimanendo giustificato nel pensarlo – tuttavia, di nuovo, reputo che l’esperienza quotidiana mostri come questo non accada. Pare invece che una simile frase non dipenda dai gusti, ma sia proprio, inevitabilmente, sbagliata. Dunque ci sono questioni che dipendono dall’apprezzamento soggettivo (Jovanotti può essere migliore o no di Diodato) e altre che invece rimangono oggettive (Jovanotti non è migliore di Chopin, punto)? Com’è possibile, però, una simile situazione? Qual è, da un punto di vista logico, la differenza tra la due affermazioni? Che nella seconda il termine di paragone è troppo superiore? Ma se il criterio è soggettivo, in base a cosa lo si può dire? Le uniche due conseguenze possibili, a mio avviso, sono o che sui gusti non bisogna davvero discutere, e quindi è possibile che Jovanotti sia migliore di Chopin, oppure che quest’ultima frase risuoni quasi come una blasfemia, e dunque che l’apprezzamento del singolo per Jovanotti non renda questi un musicista più grande di Chopin. Posto che la prima ipotesi sia intuitivamente scorretta (il che non si significa che lo sia necessariamente, ma che la si percepisce come tale la maggior parte delle volte), e che dunque sia corretta la seconda, ciò fa sì che si crei una discrepanza tra quanto è soggettivo, quel che pare ai singoli, che apprezzano o detestano una certa opera, un certo artista, e quanto è la realtà; in poche parole, si è liberissimi di preferire Jovanotti a Chopin, ma quest’ultimo è e rimarrà comunque un musicista oggettivamente migliore del primo. Dove porta allora una simile teoria – che poi, a guardar bene, è in realtà una semplice constatazione? Ecco, pare logico che se si accettano tutti questi presupposti, si debba, in virtù di essi, riconoscere anche l’esistenza di un bello quasi oggettivo, di una nozione di qualità intrinseca a un’opera che non dipenda dai nostri “gusti”; si deve cioè accettare, sia che Chopin mi piaccia, sia che io lo detesti, che egli è stato un grande musicista. Però allora come mai non mi piace? Qui sta il nocciolo della faccenda.

  Potremmo definire “sensibilità” quell’elemento che precede i gusti, che in un certo senso li fonda e li determina; quell’elemento che fa sì che si rimanga colpiti da Jovanotti e non da Chopin, o viceversa. O, meglio ancora, quell’elemento che permette di cogliere il bello che prima si definiva “quasi oggettivo”, che permette cioè di intuire immediatamente ciò che, in seguito a svariate ricerche, può essere realizzato con un ragionamento più o meno razionale – è infatti stracolmo il mondo di analisi quasi-scientifiche di pezzi musicali, molto valide e interessanti, che dimostrano, analizzando elementi come la vastità di una melodia, la complessità di una struttura, la perfezione di un’armonia, che un notturno di Chopin è un brano migliore di “A te” (e, anche questo, lo prendo come un assunto). La problematica fondamentale, però, è che quando si fa esperienza di qualcosa di bello, quando si entra in contatto con qualcosa che ci piace, l’animo razionale viene giustissimamente meno: è un momento immediato, emotivo; se si apprezza qualcosa solo per “l’idea” o “la filosofia” o quant’altro ci possa essere dietro, si scade in quegli obbrobri che vengono decantati solo dagli pseudo/finti intellettuali e che non riuscirebbero a emozionare neanche un neonato. È legittimo, dunque, ed è doveroso, non ragionare sulla logica di un’opera mentre si entra in contatto con essa: analisi ed esperienza devono essere due momenti distinti, dove la prima entra in gioco necessariamente solo a posteriori. E dunque l’analisi può limitarsi semplicemente a portare alla luce ciò che già intuitivamente si è colto – e allora l’intuizione gioca evidentemente un ruolo fondamentale. Ora il quesito iniziale ha più senso: da dove deriva la differenza di sensibilità? Cioè, posto che nelle varie forme in cui la bellezza può manifestarsi si possa individuare una componente oggettiva, indipendente dai gusti, che ne determini la qualità, e che questa componente, che è sì razionalizzabile e spiegabile a posteriori, si colga (o no) però soprattutto prima del ragionamento discorsivo, in maniera intuitiva, emotiva, perché in certi casi – in certi individui, questa viene giustamente percepita, apprezzata, mentre in altri viene completamente ignorata? Se abbiamo chiamato questa variabile “sensibilità”, e se quell’elemento oggettivo che determina la qualità, la bellezza di un’opera riteniamo che rimanga invariato, che cioè sia intrinseco all’opera e che sia quindi lo stesso da cogliere sia per Ugo che per Carlo, la domanda potrebbe essere rigirata in: “Perché Ugo lo sente, lo vede, lo percepisce, e Carlo no?”, o, in fin dei conti, “Perché Ugo lo coglie più di Carlo?”. Ecco che allora la differenza non è più qualitativa, non ci si chiede più come mai Ugo abbia certi gusti e Carlo altri, bensì quantitativa – perché Ugo è più sensibile (al Bello, chiaramente) di Carlo?

  Prima di cercare di rispondere, ma in realtà anche proprio per cercare di rispondere, penso sia doveroso rendere più chiara una cosa: quando si è parlato di “elemento oggettivo che determina la qualità” non ci si riferiva a raffinatezze tecniche comprensibili solo attraverso lo studio e l’approfondimento di una determinata opera. Non penso sia questo il luogo e il tempo per affrontare anche la discussione su che cosa renda bella una cosa bella, ma, per il bene del discorso, seppur un tale tema dovrebbe richiedere probabilmente interminabili pagine, dirò molto rapidamente la mia: si potrebbe affermare, con estrema modestia, che tanto più un’opera è bella, tanto più è in grado di “isolare” chi vi entra in contatto e di condurlo lontano dalla mondanità, dalla normalità (penso sia azzeccato citare qui come originariamente la concezione di “profano” fosse proprio quella di tutto ciò che è ordinario e quotidiano, a cui ovviamente si contrapponeva il “sacro”, ciò che sta sopra l’ordinarietà), di condurlo cioè non tanto fuori da sé, come spesso e, a mio avviso, erroneamente si pensa, ma all’interno di sé, nelle più profonde profondità (shoutout a chi sa di meritarselo). Le raffinatezze tecniche sono, al massimo, ma non sempre, uno dei mezzi con cui raggiungere questo effetto, e di ciò ci si rende comunque conto, come già detto, a posteriori. Per fare un altro esempio, non è una buona regia a rendere bello un film, ma è invece proprio il fatto che il film sia bello a determinare che quella regia funzioni; insomma le regole esplicano al popolo ciò che l’occhio sensibile già ha colto. Ma come detto, per quanto ci si possa sforzare, l’esperienza di un’opera è sempre immediata: anche se teorici e critici eccetera ci spingono con tutte le loro forze a soffermarci e a gustare la finezza tecnica presente qui o presente là, non potremo mai apprezzare fino in fondo l’insieme, se questo non ci emoziona genuinamente. Quindi sì, lo studio e l’analisi possono sicuramente risultare utili, ma probabilmente solo come contorno, come spinta o come aggiunta. Allora, per esclusione, diventa fondamentale ciò di cui si parlava prima, quella capacità di un’opera di farci scendere in noi stessi, in quello che gente un po’ più colta chiamerebbe Assoluto. A rigor di  logica, se tutto quanto è stato detto può essere considerato valido, si potrebbe quindi affermare che Chopin “porti” molto più “in profondità” di quanto non faccia Jovanotti, proprio in virtù del suo essere superiore (il che, a ragionarci bene, non mi sembra un grande assurdo); sicché, se l’indiscutibile bellezza di un grandissimo pezzo di Chopin (quale tra i tanti lascio deciderlo al Lettore) non viene colta da Carlo, significa, seguendo questa logica, che Carlo non è in grado di raggiungere la profondità alla quale conduce il pezzo; che lo porta di fronte a luoghi che ancora Carlo ignora talmente tanto da non riuscire a vederli neanche quando li ha davanti agli occhi. E, personalmente, non mi sembra una teoria tanto fuori dal mondo: sono molto comuni, infatti, anche nelle più semplici discussioni, espressioni come “è una persona piatta”, “superficiale”, “troppo poco profonda”. E quindi ecco che ancora una volta la domanda si potrebbe riscrivere: «Perché Ugo è in grado di scendere più in profondità di Carlo?». E questo è un vaso di Pandora. Inizialmente bisognerebbe chiarire cosa si intende con “scendere in profondità”, e successivamente stabilire come si riesce a farlo. Anche questi sono argomenti che meriterebbero uno spazio assai maggiore, ma in questa sede penso abbia senso dedicarsi semplicemente a trattarli quanto basta per rispondere al quesito iniziale.

  Come in parte si era già accennato, anziché il termine “profondità”, si potrebbe utilizzare quello di Assoluto; si otterrebbe così la formula piuttosto generica e comune e quasi convenzionata per definire la bellezza, cioè quella cosa che permette di “toccare l’Assoluto”. E allora perché profondità e non Assoluto? Un po’ per finezza, ma principalmente perché è molto funzionale al discorso. Parlare dell’Assoluto infatti significa già fare un passo ulteriore, è un parolone da filosofia, è una cosa che si concepisce come esterna a noi stessi, indipendente, a cui magari alcuni non credono o non si interessano neanche; le profondità del proprio animo, invece, sono decisamente più a portata di mano. Eppure l’effetto è lo stesso: la si può definire con tanti nomi diversi quanti se ne riescono a ideare, ma in fin dei conti ci si riferisce sempre alla medesima cosa, ovverosia a quella sensazione di essere strappati dalle pochezze superficiali del mondo quotidiano e di riuscire finalmente a vedere al di là di esso, riuscire a cogliere quella che crediamo esserne l’essenza, scorgere “l’unità del tutto”, “l’ordine delle cose”, l’armonia complessiva… insomma, quello. E certo, questo è quello che immediatamente salta alla mente se si parla di Assoluto – ma cosa c’entrano invece le nostre profondità? Ecco, a ben vedere, in un momento del genere, noi siamo nelle profondità di noi stessi, e le due cose si richiamano in un circolo in cui l’una causa l’altra e viceversa: come direbbero i filosofi, “siamo nell’Assoluto se e solo se siamo nelle profondità di noi stessi”; ma questo è ancora tutto da dimostrare. Tuttavia, come ormai si sarà capito, più che a dimostrazioni convincenti ritengo sia più opportuno ricorrere a semplici constatazioni, facilmente verificabili da chiunque si prenda la briga di riflettere con un po’ di attenzione sui propri moti interiori; or dunque, evitiamo di impelagarci in complesse definizioni e deduzioni, e limitiamoci a osservare noi stessi.

  Quando si parla di Assoluto non si sa mai bene a cosa ci si sta riferendo, ma più o meno tutti intuiamo che cosa si intende; sicché, credo sia utile che, in questo momento, quando si leggerà “Assoluto”, si pensi non a un concetto astratto, definito e filosofico, bensì a quella cosa non ben delineata che tutti, chi più chi meno, abbiamo in mente e abbiamo esperito – il sentimento di cui si parlava poche righe fa. I più maliziosi vorranno obiettare che tale sentimento non è l’Assoluto in sé, ma semplicemente quel che si prova quando con l’Assoluto si entra in contatto; sta bene, poniamo che sia così – lo scopo infatti non era quello di verificare l’uguaglianza Assoluto-profondità, ma semplicemente di dimostrare che le due cose vanno a braccetto. Infatti, ogniqualvolta noi ci troviamo in quella situazione, con l’eccezione forse, forsissimo, di un momento particolarmente intimo con la persona amata (ma è un caso che richiederebbe una trattazione tutta sua, e mi sembra che ci si stia dilungando per ora già abbastanza), noi siamo da soli; e non siamo soli semplicemente nel senso che non abbiamo alcuna persona intorno (anzi, può capitare spesso che accada proprio il contrario), ma che ci sentiamo soli, più soli che mai; ci sentiamo, cioè, distanti, isolati, alienati, non più immersi nella moltitudine e nella molteplicità delle faccende quotidiane, ma elevati, solamente con noi stessi e la nuova dimensione che ci è stata improvvisamente mostrata. Il che, se si guarda bene, era già implicito (ma neanche troppo) nella definizione precedentemente data. Dunque, ogni volta che ci sentiamo a contatto con l’Assoluto siamo soli, veramente soli, e ogni volta che siamo veramente soli, siamo estraniati da tutto il resto che fino a un momento prima ci sembrava così importante; siamo, cioè, a contatto con l’Assoluto. Ora, ammesso che su questi deduzioni-presupposti non ci sia nulla da ridire, proprio in essi penso si possa cominciare a scorgere lo spiraglio, finalmente, per una risposta. C’è infatti da notare come parlando della profondità di una persona si sia inevitabilmente finiti con il citare un altro concetto fondamentale: quello della solitudine; tuttavia, è certo che, anche qui, le due cose vadano spesso insieme, ma che l’una non richiami sempre, necessariamente, l’altra, perché (spero risulti abbastanza autoevidente) quando si è “nelle profondità di noi stessi” ci si sente inevitabilmente isolati, come detto, ma non ogni volta che si è soli si è nelle profondità di noi stessi. Dove tracciare, dunque, la discriminante? La risposta, come spesso accade, è in realtà già presente nelle constatazioni precedenti – il nostro compito è solo quello di notarla ed estrapolarla in maniera chiara. Si veda, infatti, come nelle frasi soprastanti si sia detto che quando si è nelle profondità eccetera ci si sente soli (ma non necessariamente lo si è), mentre negli altri casi si è soli (ma non necessariamente ci si sente come tali). Pure questo, in realtà, pare abbastanza logico, se si considera tutto quanto si è detto finora: se infatti essere a contatto con l’Assoluto estranea, aliena, e proprio per questo si può dire che ci faccia entrare in una dimensione più profonda di noi stessi, più “fuori dal mondo”, ecco che allora risulta piuttosto chiaro che, ammesso, come sostenuto prima, che esista una differenza quantitativa, cioè che esistono individui in grado di scendere in profondità x e altri invece capaci di arrivare solo fino a x – n, che più in profondità si scende, più ci si sente isolati, cioè soli. E dunque, se Carlo non fosse in grado di sentirsi solo, per direttissima non potrebbe scendere in profondità, e, viceversa, se Ugo invece sa entrare molto a contatto con l’Assoluto, allora egli è molto capace di sentirsi solo.

  Ma cosa si intende con sentirsi soli? O meglio, cosa determina la capacità di Carlo e di Ugo di sentirsi soli – da dove deriva la differenza di questa capacità? Stiamo arrivando alla fine, lo giuro. Sentirsi soli è stato fino a qui utilizzato per descrivere una situazione ben precisa, nella quale, si è detto, ci si sente isolati, estraniati; ma questo non basta per entrare in contatto con l’Assoluto. Infatti si era accennato anche al fatto in cui, quando si esperisce una cosa bella che ci permette di accedere a quella dimensione, non ci si sente soltanto isolati ed estraniati, presenti semplicemente a noi stessi, ma che si colga anche un altro elemento, e cioè quell’unità del tutto di cui si parlava, l’ordine delle cose, la vera essenza del mondo eccetera. E allora la capacità di sentirsi soli potremmo definirla, in altre parole, come l’abilità di saper concepirsi come tali, senza doverlo essere necessariamente, proprio in virtù di quella grande presenza; una persona in grado di sentirsi solo, dunque, sa riconoscere sia la propria piccolezza di fronte alla dimensione dell’ideale, sia la dimensione dell’ideale in tutta la sua grandezza (senza cioè porre limiti ad essa per conservare invece la salute del proprio ego) – sa riconoscere cioè una dimensione potenziale in cui le cose hanno una grande indipendenza e sono “perfette”, con o senza di lui, una dimensione che qualcuno chiamerebbe dei valori, o del Bene, o del potenziale eccetera. Ma sa farlo con dignità; non, cioè, come chi ha bassa stima di sé stesso e per questo disprezza la propria persona e pensa che il mondo esterno sia tutto completamente migliore – egli non varrà infatti abbastanza per poter sopportare la Bellezza nelle sue forme più alte, e ne verrà subissato, portando a quel famoso fenomeno degli stati estatici, in cui un individuo si trova esterrefatto per qualche minuto e poi torna nella propria miseria per i successivi tre mesi. È quindi necessario percepirsi soli nel momento in cui si entra in contatto con l’Assoluto, perché lo si è, ma anche sopportare questa solitudine con tenacia, e non innervosirsi con Egli perché ci fa sentire così, ma anzi essere in grado di riconoscerGli tutta la Sua grandezza, anche se questo mette in luce il nostro essere insignificanti, ed essere per questo pronti, in quanto insignificanti, anche a buttarsi via, a non considerarsi affatto, per il bene dell’Assoluto, che poi vuol dire per il bene del Bene, cioè per il bene e basta. Ecco dunque che se uno è a capace di fare questo, se cioè è in grado di percepirsi solo, se è in grado di non lasciarsi andare alla propria solitudine e anzi di individuare in essa la dimensione dei valori universali e della potenziale grandezza e (guarda caso) bellezza del mondo, dell’uomo e della vita, e se è in grado strenuamente e stoicamente di non essere schiacciato dal peso di tutta questa grandezza e anzi continuare ad agire in essa (e forse per essa), ecco che egli sarà in grado di scendere quanto più in profondità, di cogliere l’Assoluto più alto, e quindi ecco che egli sarà quanto più sensibile al Bello possibile. Se invece, al contrario, è arrogante, ottuso e incapace di notare o, addirittura, di ammettere la propria insignificanza; o se non è in grado, pur riconoscendosi come misero, di cogliere in quella situazione la porta per una dimensione che vada oltre la molteplicità degli avvenimenti mondani; o se scorgendo questa ne rimane spaventato, o perlomeno circospetto, oppure sfiduciato e sconfortato dalla sua grandezza, ecco che egli non sarà in grado di toccare il punti più profondi della propria persona – e quindi, per Chopin, la cui missione è quella di guidare l’uomo sul cocuzzolo di una grande e alta montagna, dalla quale poter vedere il mondo in tutta la sua bellezza, ecco che risulterà molto difficile trascinare un mutilato fino a certe vette; per Jovanotti, invece che non è in grado di scalare, sarà però molto facile emozionare quest’ultimo mostrandogli alcune fotografie di suggestivi paesaggi. Ma chi ha visto le fotografie, riuscirà comunque ad apprezzare il panorama reale, se mai riuscirà ad arrivare in cima, mentre chi già ha visto la totalità della valle, delle fotografie se ne fa ben poco.

  Come raggiungere gli obiettivi posti, infine, si è detto che si può fare in parte con l’educazione artistica, cioè l’abitudine al bello, lo studio e l’analisi di cui si parlava nelle pagine iniziali, e, in altra parte, quella inerente alla persona e i suoi valori, la sua solitudine e la sua dignità, questo penso si possa raggiungere con l’educazione all’onore, la forza e, soprattutto, a parer mio, il dolore. Ma questo è un altro discorso.

 

Autore: Riccardo Casiraghi
Riccardo Casiraghi nasce a Milano il 18/03/2001. Studia Filosofia all’Univeristà degli Studi di Milano. Si interessa di filosofia etica ed eminentemente pratica, con un occhio (laico) di riguardo ai temi presenti nella dottrina cristiana.

 

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