Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

«Il Regno è vicino». Escatologia e ateismo cristologico in Ernst Bloch

1 Commento

 

 

 

Introduzione

Nel presente articolo vorrei evidenziare la particolare prospettiva di redenzione escatologica formulata dal filosofo marxista Ernst Bloch. Il pensiero di Bloch, come quello di altri grandi teorici marxisti del secolo scorso, è infatti stato profondamente animato dall’idea di una ri-fondazione dell’umanità attraverso il superamento delle sovrastrutture oppressive che ne hanno impedito il pieno sviluppo. Nel far questo, però, il filosofo tedesco ha proceduto secolarizzando le istanze apocalittiche del pensiero religioso, prospettando una parusia laica dominata dalla nascita dell’homo novus. Si metterà dunque in luce come l’idea marxista che la storia abbia una senso di marcia, direzionato al conseguimento di un traguardo specifico e pacificante, sia per Bloch certamente desunta dalla teologia e trovi forti testimonianze anche nelle Scritture.

1. Teologia della storia e marxismo

Nel suo Significato e fine della storia, Karl Löwith afferma che «la filosofia della storia dipende interamente dalla teologia, cioè dall’interpretazione teologica della storia come storia della salvezza» (Löwith 1998, p. 21). Infatti, «la moderna filosofia della storia trae origine dalla fede biblica in un compimento futuro e finisce con la secolarizzazione del suo modello escatologico» (ivi, p. 22). In questo senso andrebbe interpretato l’idealismo hegeliano, con il quale Hegel riteneva «di essere rimasto fedele al cristianesimo e di attuare il regno di Dio sulla terra» (ivi, p. 79), o il materialismo marxista, secondo cui l’attuale sistema capitalistico-borghese precede la rivoluzione ed il «terreno regno di Dio» della società futura (ivi, p. 55).

Per Löwith, dunque, la moderna considerazione della storia ha di proprio la laicizzazione dei presupposti teologici dell’impostazione religiosa tradizionale. All’idea di provvidenza si sostituisce quella di progresso, all’idea di Dio qualche concetto assoluto (lo Spirito, la Scienza, etc). Le molte ideologie degli ultimi secoli sarebbero dunque accomunate dal fatto di ereditare l’escatologia cristiano-giudaica, torcendosi spesso contro la propria matrice teologica e ponendosi in rotta di collisione con la memoria religiosa dell’Occidente. È infatti interessante come l’interpretazione biblica della storia umana sia divenuta, negli ultimi secoli, proprio anticristiana ed antireligiosa, dando vita ad un’idea di trascendenza come compimento futuro.

Dalla trascendenza, dunque, al trascendere: un vedere oltre, un andare al di là dei limiti di questa lacrimarum vallis, che non risparmia affatto anche la teoria critica marxista. Come altri modelli di pensiero post-religiosi nati epoca moderna, anche il marxismo eredita (qualche volta in modo cosciente, qualche volta no) la visione della storia tradizionale. Scrive Umberto Galimberti al riguardo:

Nell’età moderna, infatti, lo schema della storia della salvezza ha perso il suo contenuto religioso ma non la sua forma; e il senso che la storia della salvezza ha conferito al tempo si trasferisce nella teoria del progresso, per cui ogni stadio del tempo è il compimento di certe preparazioni storiche e anticipazione del futuro. In questo modo un fondo soteriologico sopravvive anche nella più radicale desacralizzazione dell’escatologia cristiana, dove il tema della redenzione viene ripresentato nella forma della liberazione (Galimberti 2015, p. 27).


2. L’ateismo come prodotto del cristianesimo

Questo aspetto è particolarmente presente nel socialismo rivoluzionario. Che il marxismo abbia la sua radice nella teologia della storia è infatti cosa nota: come ha evidenziato Löwith, «l’intero processo storico, quale è delineato nel Manifesto del partito comunista, riflette lo schema generale dell’interpretazione ebraico-cristiana della storia come divenire provvidenziale della salvezza verso un fine ultimo dotato di senso» (Löwith 1998, p. 65). La rinuncia del pensiero moderno alla metafisica ha infatti comportato un’inevitabile esposizione della verità religiosa a categorie sociologiche e politiche. L’idea che la religione abbia in sé il potenziale per un proprio auto-superamento ha condotto la modernità a teorie di emancipazione integrale che si sono poste come interpreti della “vera essenza” della tradizione religiosa.

Uno dei più grandi sostenitori di questo punto di vista è il filosofo Ernst Bloch. Di scuola marxista, sebbene di un marxismo eterodosso, Bloch è persuaso che le teorie rivoluzionarie non sarebbero nate affrancandosi dal cristianesimo, quanto portando a maturazione la sua logica interna. Socialismo e ateismo non sarebbero espressioni di una modernità decisa a rompere con il passato, ma, al contrario, manifestazione del pieno sviluppo delle idee religiose cristiane. È un ateismo cristologico: «l’ateismo, compreso nelle sue dimensioni profonde, non è nient’altro che l’accesso ad un regno di libertà» (Tilliette 1989, p. 420). Il marxismo, dunque, non sarebbe affatto una negazione della religione, ma piuttosto l’esito naturale della sua evoluzione.

È un argomento interessante che merita di essere approfondito soprattutto alla luce del suo Ateismo nel cristianesimo, pubblicato nel 1968. In questo saggio la rappresentazione biblica è letta come un progressivo superamento della scissione fra l’Io-Padre e l’uomo attraverso le figure di Giobbe e di Cristo, con la conseguente esaltazione dell’Uomo-Dio quale centro della storia.

L’uomo di oggi, nella narrazione biblica, trova – a parere di Bloch – la raffigurazione di una lenta evoluzione culturale collettiva che ancora si muove verso un traguardo di completa emancipazione. La civiltà occidentale avrebbe progressivamente ritirato le sue proiezioni dalla trascendenza e sarebbe in cammino cercando di trovare in sé, e non al di là del cielo, la propria salvezza. L’homo absconditus: ecco il fine a cui tenderebbela società europea. Essa avrebbe ereditato dal cristianesimo un concetto escatologico fondamentale, l’utopia, e ne avrebbe fatto il criterio per una post-religione dell’umanità.

 

3. Il Dio trascendente e la moralità come fenomeno umano

Seguito dunque a ripercorrere le tappe dell’esposizione di Bloch. Lo studioso tedesco esordisce, anzitutto, con una tesi radicale: «solo un cristiano può essere un buon ateo» (Bloch 2005, p. 32). Per Bloch, «nella Bibbia la passione dominante è quella che si scaglia contro i signori con il loro Dio sacerdotale» (ivi, p. 29): un “appello alla rivolta” da parte di una sofferenza che non desidera restare inascoltata. Infatti,

solo la Bibbia può essere letta anche dalla visuale del manifesto comunista e riesce ad evitare che il sale ateo diventi sciocco ed al tempo stessi a comprendere ciò che è implicito nel marxismo anche alla luce di quel meta che non permette al sale di diventare sciocco (ivi, p. 102).

L’esperienza di Dio è originariamente quella di un Io-Padre, che si pone con il suo “alto stivale” a una coscienza umana che si percepisce come serva; tuttavia – dice Bloch – fin dal Pentateuco, si pone un’equivalenza fra Dio e il pensiero della storia che si apre ad aspettative di redenzione sociale ed economica.

Fin dalla teofania divina dell’Esodo, Yahwèh si offre infatti come «la promessa dell’assolutamente Novum» (ivi, p. 90), al modo di un futurum che si configura come la sua stessa essenza legandosi all’uscita dalla sofferenza dell’Egitto e all’attesa di un’emancipazione materiale del popolo. Questa declinazione di Dio al futuro diventa, a parere di Bloch, «un simbolo che s’innalza, evocato da Mosè, come un segnale di uscita dalla schiavitù, come la bandiera, l’orizzonte di aspettativa della liberazione» (ivi, p. 125). Quel Dio è l’ideale ipostatizzato dell’utopia dell’uomo sconosciuto, l’homo absconditus che s’intravede nella speranza di un futuro radioso (cfr. Tiliette 1989, p. 420).

Con la storia biblica successiva si ha una progressiva trasformazione dell’immagine di Yahwèh. Attraverso la tradizione profetica Yahwèh viene a moralizzarsi, trasformandosi in un’ipostasi, oltre che di liberazione, anche di giustizia. «Yahwèh diviene il punto di unità luminoso dei giusti di tutti i popoli» (Bloch 2005, p. 133), ma questa sua trasfigurazione in senso etico gli si ritorce contro. Come in molti hanno messo in luce, l’identificazione di Yahwèh con l’etica gli è infatti fatale: «La giustizia, da apologia di Yahwèh, si trasformò in un’arma contro di lui» (ivi, p. 134).

Ciò diventa chiaro con il Libro di Giobbe, che Bloch interpreta come un esodo dalla stessa rappresentazione di Yahwèh. Con una straordinaria assonanza con altre grandi opere tedesche (come la Risposta a Giobbe di Carl Gustav Jung), Bloch scrive: «Un uomo risplende sopra il suo dio: questa è e resta la logica del Libro di Giobbe, nonostante l’evidente resa finale» (ivi, p. 149). Yahwèh, che era stato esaltato come ipostasi di giustizia dalla tradizione profetica, si trova ora ad essere accusato di essere responsabile dei violenti contrasti che dominano il mondo. Un Dio etico non permetterebbe che i giusti siano travolti da una sorte tanto avversa, che i poveri abbiano fame e siano sfruttati dai padroni (cfr. Gb 21,7). C’è qui – dice Bloch – persino una “critica anticapitalista” che non si rassegna adeguandosi alla volontà di chi comanda: «L’uomo freme contro Dio e la rivolta gli schiuma alla bocca; è la fine della pazienza, la critica del dio tradizionale del diritto» (ivi, p. 148).

A questo grido di accusa – sostiene Bloch – Dio risponderibadendo il suo potere teocratico. Dall’alto del suo scranno celeste, Dio reagisce come un faraone e «risponde a domande morali con domande fisiche, con un colpo che proviene dal cosmo incommensurabilmente tenebroso contro il limitato intelletto dei servi» (ivi, p. 151). Si svela la vera natura di Yahwèh, che non è un Dio di giustizia ma di potere, innestato nell’innegabile «respiro di un panteismo per così dire demoniaco» (ibidem). Dio è il padrone, Giobbe il subordinato, e deve stare al suo posto. Giobbe, che aveva messo in dubbio la moralità di Dio, si vede rispondere solo con argomenti volti a evidenziare lo strapotere del suo superiore. È allora che avviene una scoperta interna alla sfera religiosa: «l’uomo può essere migliore, può comportarsi meglio del suo dio» (ivi, p. 148).

La moralità è colta come una faccenda tutta umana. L’uomo si ribella ad un nemico onnipotente ed intuisce la sua superiorità morale. Giobbe, in questo senso, è così contrario ad ogni rassegnazione da elevarsi a paradigma contro l’opposizione ad ogni tiranno: egli – dice Bloch – è il Prometeo ebraico divenuto cosciente della sua superiorità. Giobbe non è Abramo, non avrebbe accettato passivamente di sacrificare suo figlio soltanto perché una volontà più alta glielo ha chiesto. In una Bibbia in cui si trova di tutto, sottomissione e rivolta – «una Scrittura per il popolo e una contro il popolo» (ivi, p. 114) –, Giobbe segna l’inizio di un «esodo dalla rappresentazione di un Dio cesareo» (ivi, p. 161).

C’è dunque un ritiro delle proiezioni morali da Dio, «qualcosa come l’ateismo di un Dio nella considerazione e nell’oblio dell’etica» (ivi, p. 157). In questo ateismo morale, Dio c’è come fatto fisico, ma è la coscienza dell’uomo ad evocare la libertà delle relazioni dall’oppressione. Nel suo richiamarsi ad un vendicatore (16,18), Giobbe si rifa ad una concezione di libertà nel futuro – dice Bloch – che era nata con Yahwèh, con l’uscita dall’Egitto, ma che ora non gli appartiene più: «Giobbe è religioso proprio perché non crede» (ivi, p. 161). Non è più il Signore, ma il figlio dell’uomo che detiene le chiavi dell’etica e della liberazione.

 

4. L’uomo entra nella rappresentazione della divinità

Questo diventa particolarmente evidente con l’insediarsi di Gesù nell’immagine di Yahwèh. Gesù è per Bloch un profeta escatologico che viene a proclamare la realizzazione imminente di un evento cosmico specifico, cioè l’avvento del Regno. Egli, per Bloch, «si ritiene il Messia nel senso assolutamente tradizionale» e la sua fede di portare un nuovo stato sociale di cose sulla terra «era così certa che lo abbandonò solo sulla croce» (ivi, p. 171). La stessa proclamazione della “buona notizia” (euangélion, da cui vangelo) è «una parola di felicità di carattere politico-sociale non mercanteggiabile con tutto il resto» (ivi, p. 172). Il regno che il Gesù storico voleva portare, è di questo mondo, non un’evasione in qualche aldilà.

È un regno del figlio, che ha al proprio centro l’umano e non lo Yahwèh dei signori(cfr. ivi, p. 177).Questo carattere dissidente del cristianesimo è stato poi addolcito dal conservatorismo di Paolo, che ha spostato l’elemento della redenzione dall’escatologia futura del Regno a quello più immediato di un’aldilà post mortem. Da allora – dice Bloch – nel cristianesimo si sono agitate due anime, una più strettamente umanistica (che ha evidenziato in Gesù il topos del figlio dell’uomo), una più teocratica (che ha voluto fare di Gesù un Kyrios e un Pantokrator). Ad un Gesù che è espressione della comunità umana si accompagna l’idea esclusiva della sua nobiltà celeste, come si coglie con l’episodio dell’ascensione.

Con la proclamazione dell’omousia fra Dio e il figlio, già presente nel Vangelo di Giovanni, l’immagine dell’uomo comunque entra nella rappresentazione del divino. «L’autoinsediamento del figlio dell’uomo nel padre» (ivi, p. 222) conduce ad una divinizzazione dell’elemento umano che si fa centrale nel suoi concreti bisogni di liberazione ed emancipazione materiale. D’altra parte ciò contribuisce anche ad un’umanizzazione del divino, a «trasfigurare lo zar del cielo in una forma sublimata ed eufemistica» (ivi, p. 218).

Il Dio-Padre progressivamente lascia spazio al Figlio, il quale, spostandosi al centro del culto, rende quasi obsoleta la presenza del vecchio genitore. In questo si può notare «la straordinaria somiglianza fra la concezione del figlio in Sigmund Freud e quella del Cristo in Bloch»: (Tiliette 1989, p. 326). La religione del Padre, si dice ne L’uomo Mosè e la religione monoteista del 1939, diviene una religione del Figlio, recuperando l’attitudine sensibile e immanente che l’ebraismo di ascendenza atonistica aveva negato (cfr. Freud 2013, p. 149). La figura dell’Uomo sovversivo sostituisce quella del Signore conservatore: «Gesù è usurpatore di Yahwèh» (ivi, p. 327). Si nota in ciò una contrapposizione marcionita e gnostica fra un Padre malvagio, appena distinguibile dal Satana, ed un Figlio redentore portatore di un’istanza luminosa. L’assassinio simbolico del Padre avviene per mezzo dell’ingresso del Figlio nella divinità, cosa che conduce ad una negazione del Dio crudele e dunque, per Bloch, ad un attracco ateistico (ivi, p. 415).

La contrapposizione dualistica fra Padre e Figlio, fra il divino “malvagio” dell’Antico Testamento e quello “etico” del Nuovo struttura con forza la rilettura biblica di Bloch. L’umbratile figura gnostica del Demiurgo si può infatti riconoscere anche nell’immagine blochiana del Yahwèh-giobico o di molti libri veterotestamentari, a cui si affianca, contrapponendosi, il Dio-exodus con le sue promesse di redenzione e riscatto che si esauriscono infine nell’immagine del Figlio. La rappresentazione del divino è rovesciata dall’interno nell’esaltazione di un aspetto “buono” e “umano” che poi si mostra autonomo, capace di fare a meno di una signoria trascendente. Quella di Bloch, secondo Francesco Coppellotti, si rivela così come la gnosi peggiore, una «Gnosi dualista di tipo manicheo» (Coppellotti 2005, p. 347) che aspetta dall’uomo una redenzione dalla malvagità di Dio. Dal ritorno del Figlio dell’uomo – sostiene infatti il teorico marxista – ci si attende che «egli finalmente getti in rovina tutto il rifiutato mondo del demiurgo» (Bloch 2005, p. 222).

L’esodo dal Dio crudele e violento dell’Antico Testamento verso un divino pneumatico e sconosciuto è il quadro teologico marcionita che lega, per Bloch, il cristianesimo al marxismo. L’eclissi del Pater divino si ha infatti anche con la Pentecoste, dove ad essere invocato è un divino immanente in forma impersonale: «È il deus stesso che scompare nel principio creatore»(ivi, p. 276). Questa nuova religione di un’umanità spirituale – piena di quel «vino spumeggiante, […] pagano e orgiastico» (ivi, p. 275) che è figurato nello Spirito – non si rifugia nell’alto dei cieli; al contrario ribadisce il suo carattere storico nel porre a conclusione delle Scritture la trasformazione definitiva del mondo nella sua concretezza. Nell’Apocalisse di Giovanni, contro ogni docetismo, si afferma proprio questa consapevolezza: tutta la storia concorre alla realizzazione di una “nuova Gerusalemme” (Ap 21,23) dove finalmente ogni ingiustizia sociale e ogni conflitto sono pacificati nel loro dimensione oggettiva e materiale.

 

5. La fine della storia

Certamente per Bloch si deve arrivare all’età moderna per vedere questa istanza di auto-superamento della rappresentazione religiosa passare dalla potenza all’atto. Feuerbach è senza dubbio uno di quelli che, caricandosi del potenziale laico del cristianesimo, ha voluto «restituire all’uomo il cielo» (ivi, p. 265) e fare della teologia un’antropologia realizzata. Bloch nota, comunque, una straordinaria assonanza fra la critica antropologica feurerbachiana e – ad esempio – la mistica di Angelo Silesio, di Efrem il Siro, di Meister Eckhart (con il suo celebre «prego Dio perché mi liberi di Dio»). Incardinata sull’idea «dell’uomo-divino, del dio-umano» (ivi, p. 270), la mistica ha in parte portato a termine la logica di sviluppo interna della rappresentazione cristiana, culminante in un vero e proprio a-teismo.

I suoi frutti reali, però, la religione li sta producendo adesso nell’aver garantito i presupposti di una rivoluzione socialista. Il cristianesimo – scrive Bloch – ci ha regalato «il presentimento della nostra futura libertà ed un trascendere privo di autoalienazione» (ivi, p. 298). Ci ha educati alla dignità del singolo e alla sua prerogativa rispetto ad ogni «zeusità (archetipo di dominio)» (ivi, p. 304), aprendo le porte ad un cristianesimo post Christum, ad una post-religione che nient’altro è che lo stesso materialismo storico marxista. Questo spostamento dalla trascendenza al trascendere, dall’aldilà ontologico all’aldilà temporale, è quanto permette adesso di immaginare l’utopia del regno dell’uomo, il futuro di una realtà priva dell’oppressione di un Signore, di un potere verticale. Il cristianesimo, tradotto in materialismo storico, «fa sì che l’impulso di Cristo possa vivere anche se Dio è morto» (ivi, p. 220). Il “fine della storia” marxista e quello cristiano infatti coincidono:

Per quanto riguarda questo Omega, il suo chorus misticus corrisponde a quello dell’avvento cristiano, ed ha per soluzione l’humanum puramente liberato. Probabilmente l’avvento cristiano è l’ultimo mito non ancora penetrato, ma nello stesso tempo è l’ultimo segno che annuncia un risultato: quello degli uomini visti come “gioia eterna”, della natura riunita come “Gerusalemme celeste”. […] Gli uomini troppo intelligenti considerano tutto ciò una pazzia, quelli troppo pii ne fanno una casa prefabbricata, mentre per i saggi il senso utopico è il più solido problema reale del mondo stesso, del mondo non liberato. E così anche la vita ha il senso che si forma nella scontentezza, nel lavoro, nel rifiuto di ciò che non riteniamo adeguato, nel presentimento di ciò che ci è conforme; oltrepassando senza esaltarsi (ivi, p. 314).

Conclusioni

Questa veloce panoramica di una delle opere maggiori di Bloch sorprende molto se si considera la forte diversità della sua lettura biblica con quella del marxismo ortodosso. Bloch vede infatti un rapporto stretto fra la logica interna alla teofania del divino nelle Scritture e l’emancipazione dell’uomo. L’umanesimo e la fine di ogni trascendenza non sono, a suo parere, fenomeni collaterali del progresso scientifico, ma un’eredità cristiana che è possibile scoprire nelle stesse pagine della Bibbia. La speranza cristiana non va ad un qualche aldilà, ma nell’oltre dell’orizzonte storico presente, dove tutto ciò che è stato sempre “scisso” dall’uomo – ma che nell’uomo trova da ultimo la sua radice – verrà integrato.

«Non è ancora apparso ciò che saremo» si legge nella Prima Lettera di Giovanni, «ma quando si manifesterà saremo uguali a Dio» (1Gv 3,2). Nessun signore dentro e fuori l’uomo ha potere su questa speranza. Tale – per Bloch – è il cuore del cristianesimo, ma tale è il cuore di ogni fede nel successo della civiltà umana, sia essa finalizzata a determinare una rivoluzione interiore o esteriore.

L’Illuminismo, almeno nella sua vulgata, sbaglia pertanto a vedere nel cristianesimo una retrograda superstizione usata come strumento di controllo. La religione del Dio che prende carne e sangue mette al proprio centro la proposta di un uomo finalmente integro e socialmente capace di mantenere sani rapporti di potere.

Certo; quell’uomo è un oltre-uomo, la sua comparsa abita un avvenimento escatologico. Ancora quell’orizzonte non è stato superato, ancora ci troviamo nell’aldiquà della storia. L’uomo moderno non integro e non liberato guarda allora ai disastri del suo presente e coglie, fra le macerie e i bronchi del Novecento, il presentimento di ciò che deve avvenire. Ateo o non ateo che sia, lo scopriamo così mormorare, fra paura e speranza: «Il tempo è pronto e il regno di Dio è vicino» (Mc 1,15).


Bibliografia

Bloch 2005, E., Ateismo nel cristianesimo, Feltrinelli, Milano.
Coppellotti 2005, F., La Gnosi peggiore, in: ivi, pp. 333-353.
Festorazzi F., Ferretti G., Bibbia e speranza umana: dialogo con l’interpretazione biblica di E. Bloch, in: AA.VV. 1974, Chiesa per il mondo, vol. II, Dehoniane, Bologna, pp. 611-661.
Freud 2013, S., L’uomo Mosè e la religione monoteistica, Bollati Boringhieri, Torino.
Galimberti 2015, U., Cristianesimo. La religione dal cielo vuoto, Feltrinelli 2015.
Jung, 1992, C.G., Risposta a Giobbe, Bollati Boringhieri, Torino, 1992.
Löwith 1998, K., Significato e fine della storia, Il Saggiatore, Milano.
Mancini S., Il motivo escatologico nell’opera di Ernst Bloch, in: AA. VV., 2005, Filosofia dell’avvenire. L’evento e il messianico, Inschibboleth Edizioni, Roma.
Tilliette 1989, X., Filosofi davanti a Cristo, Queriniana, Brescia.

Autore: Shady Dell'Amico

Shady Dell’Amico è nato a Pisa il 21/11/1994. È laureato magistrale in Filosofia all’Università di Pisa con una tesi dal titolo “Il male in Dio. Psicopatologia del divino in Freud e Jung”. Si interessa di psicoanalisi, antropologia filosofica e fenomenologia della religione.

One thought on “«Il Regno è vicino». Escatologia e ateismo cristologico in Ernst Bloch

  1. Che il Regno di Dio sia vicino non mi pare; a me sembra piuttosto equidistante da ogni punto della Storia, ma questa è un’impressione mia. L’articolo è molto bello, molto chiaro, l’ho letto volentieri e la ringrazio.

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