Abstract
L’epidemia che ci ha colpiti ha seriamente messo in discussione alcune delle libertà che consideravamo scontate e gratuite. In modo particolare, è stato necessario rinegoziare gli ambiti e le dimensioni di realizzazione della libertà delle persone umane. Ciò non è stato né indolore né privo di effetti, con particolare riguardo per ciò che costituisce il “bene” per le persone.
Tuttavia, una serena riflessione intorno alla questione consente di inquadrare l’intera questione nella sua giusta luce, orientando la considerazione sui limiti per l’azione umana verso una più meditata e ponderata attenzione riguardo a ciò che è davvero un bene per la persona umana e che consente a quest’ultima di soddisfare i suoi effettivi bisogni, e ciò nonostante le limitazioni che l’epidemia ha imposto.
Premessa.
Mai come quest’anno la dimensione comunitaria, propria del genere umano, è stata messa in discussione dall’emergenza sanitaria dovuta alla comparsa di una mutazione di un virus Corona, responsabile di varie patologie influenzali. La novità della mutazione genetica sta nella sua facile trasmissione da uomo a uomo e, quindi, la cosa inedita risiede nella limitazione e compressione di alcune libertà sino ad ora mai messe in discussione, forse nemmeno durante le esperienze totalitarie del secolo scorso.
Le scene dei malati trasportati via così come delle vittime accompagnati in solitudine nega la caratteristica propria di questi eventi singoli, vale a dire la dimensione umana e relazionale ivi connessa, l’accompagnamento di amici e famigliari, adesso privati della possibilità di far esperire vicinanza ed empatia nei confronti dei propri simili. Il COVID-19 ha questo di speciale: non disponendo di cure mirate e davvero efficaci, stante la sua estrema contagiosità epidemica, è bene evitare tutte le possibili situazioni di rischio. Stare vicino ad un malato rientra in queste possibilità da evitare. Accompagnare un congiunto o un amico o un conoscente nell’ultimo viaggio è segnatamente una di queste possibilità che la prudenza e la salute pubblica consigliano di vietare. Non deve, allora, sorprendere che il decisore politico abbia deciso di comprimere le occasioni, i luoghi e le occasioni di convivialità e di relazione umana visto che il problema fondamentale ed urgente è combattere contro un virus insidioso, tanto invisibile quanto virulento. Il novum, pertanto, consiste nella novità di sfere di libertà, sinora considerate scontate e libere di espandersi indefinitamente, compresse con una serie di limitazioni, di casistiche individuate e con un orizzonte temporale indefinito. Comprimiamo le nostre libertà (di movimento; di attività pubblica; di divertimento; di spostamento; etc.) a causa dell’emergenza. Ma sino a quando? Non lo sappiamo. Gli esperti attendono, fiduciosi in modelli matematici e nella mole documentaria in loro possesso, un picco dell’andamento epidemico, ma non è dato sapere se e quando ciò accadrà. In attesa, le nostre vite sono state sospese, congelate, interrotte.
Chiusi i teatri, gli stadi, i cinema, le palestre, le chiese, le scuole, i luoghi di aggregazione … senza una data di scadenza realistica e dichiarata. Si continua a vivere, ma con dei limiti, reclusi in casa, confinati entro l’angusto perimetro del domicilio (per chi, ancora fortunato, ce l’ha).
Ci auguriamo che sia solo una infelice parentesi e che presto tutto possa tornare alla “normalità”; intanto però, smaltita l’iniziale sorpresa, è ora bene riappropriarci della dimensione umana di questo evento inedito. Solo se vi riflettiamo sopra, potremo attribuire un significato a questa complicata e dolorosa vicenda. E attribuendovi un senso, allora potremo restituire alla nostra umanità anche questo tempo contratto e sospeso.
Le ragioni, da sole, non bastano; è richiesto un supplemento di comprensione.
Il “bene” per l’uomo.
Secondo Foot, il bene per l’uomo ha una sua sorgente “naturale”, ma non si identifica del tutto con la dimensione naturale. Ad esempio, gli uomini sono anche animali, ma possiedono dei bisogni che eccedono la sola sfera animale degli esseri subrazionali (Foot, La natura del bene, p. 52). Comprendere, allora, cosa sia il bene per gli esseri umani potrebbe aiutarci nella ricerca di un senso a questo frangente che esperiamo. Per inciso, mangiare, dormire, avere caldo, bere, divertirsi possono a ben titolo essere considerati dei bisogni naturali per l’essere umano, ma riguardano più la sua natura animale che la sua vita di persona. Ora, è sicuramente, data l’emergenza, un bene per gli uomini restare in casa ed evitare occasioni di rischio di contagio. Ma questo bene ha lo stesso valore dei beni animali? È naturale? Foot non concorderebbe dal momento che, a suo avviso, ciò che è bene si connette alle caratteristiche degli esseri umani rispetto al «ruolo che svolgono nella vita umana» (ivi, p. 53). V’è, dunque, un limite fondamentale nella qualificazione di ciò che è bene per gli animali subrazionali e gli animali razionali, ovvero lo specifico tipo di esistenza che gli uni e gli altri conducono. Sebbene, senza dubbio, possa essere un terreno scivoloso, sento di poter concordare, almeno in linea di massima, con quanto asserito da Palazzani quando collega natura e cultura ritenendo che la naturalità trova un ostacolo nella libertà umana, arbitrio, in senso positivo, che responsabilizza la ragione umana vincolandola a conoscerne il fondamento naturale. Se la natura è l’orizzonte di senso della libertà umana, allora la fonte della morale è la ragione, e non la volontà onnipotente del soggetto (Una introduzione filosofica al diritto, p. 54). Ma dove l’autrice individua un nuovo passaggio dall’essere al dover essere, dopo mezzo secolo di imperio neopositivistico, io vedo solamente il persistere di un vago sentore naturalistico o un orizzonte di sfondo, e per ciò stesso piuttosto opaco, che aleggia nel nostro dimorare questo mondo. Detto altrimenti, siamo sì animali, ma siamo anche razionali. Gli animali, per intenderci, non si chiedono il senso della nostra emergenza, noi sì; agli animali sfugge la necessità razionale di giustificare moralmente uno stato di cose, più o meno naturale che possa essere. Per Palazzani, infatti, da questo fondamento sgorga la sorgente morale: l’uomo possiede intrinsecamente una dignità (umana?) dal momento che solo è capace di riconoscere i suoi doveri, fattuali e morali nei vari contesti o nelle varie situazioni esistenziali (Una introduzione filosofica al diritto, p. 55).
Su questa “eccezionalità”, ammesso che di eccezionalità si possa parlare, che pare appartenere solo al genere umano, torna in modo pressante, tra gli altri, Spaemann quando chiarisce da subito cosa intenda con il termine persona. Infatti, a detta del filosofo tedesco, le persone appartengono sì ad una specie naturale, «ma vi appartengono diversamente dal modo in cui gli altri individui appartengono alla loro specie» (Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno”, pp. 18 – 9). Emerge, così, una sorta di specificità che differenzia gli animali umani da quelli non umani. Questo elemento è apprezzabile se poniamo mente agli studi linguistici. Ad esempio, Moro, in un suo recente, e breve, testo ci descrive un’istantanea su Noam Chomsky la cui posizione viene efficacemente ridotta alla sintesi irripetibile di struttura (il cervello) e funzione (il linguaggio). All’interno di questo discorso, Moro per inciso precisa che il linguaggio non è riducibile alle leggi biologiche che hanno generato la struttura neurobiologica che lo esprime (Parlo dunque sono. Diciassette istantanee sul linguaggio, p. 86). Detto più semplicemente, il linguaggio è (qualcosa) di più rispetto al cervello che lo esprime. Tornando, allora, al nostro discorso, osserviamo come la conseguenza più apprezzabile sia che pur, condividendo con gli animali non umani una certa base naturale, gli esseri umani sono più della loro origine animale. Ma possiamo scorgere anche un’altra conseguenza di questa diversità, vale a dire ciò che è bene per gli animali non per forza è bene anche per gli esseri umani (e viceversa). Questo perché il contesto di vita dei primi e dei secondi è decisamente differente. Ma, forse, anche per un’altra ragione, che ha contraddistinto, ad esempio, e per secoli, la riflessione greca, vale a dire la distinzione tra natura e cultura. La modalità di vita degli esseri umani è convenzionale, ossia non naturale. Ma all’interno di questa secolare scelta stanziale gli esseri umani hanno sviluppato anche un mos, un insieme di valori e di modalità di comportamento. Nutrirsi, dormire, dissetarsi, e potremmo pure pensare a tanti altri bisogni fondamentali, sono sicuramente dei beni per gli esseri umani, ma da soli non bastano a rendere buona la vita umana. L’eccezionalità della condizione di vita si riverbera, dunque, sui beni, su ciò che è bene per gli uomini. A questi ultimi può non bastare sopravvivere; probabilmente, essi desiderano vivere. Ma questa finalità passa attraverso dei mezzi non naturali, ovvero i beni per una vita umana.
L’eccedenza umana rispetto al fondamento naturale, comune a uomini ed animali, consente così alla Palazzani di legare natura e giustizia nella sua riflessione sul diritto. Dalla natura promana il senso stesso del diritto, promozione e salvaguardia della dignità per gli esseri umani (ivi, p. 56). Ma donde origina quest’ultima? A tale domanda Palazzani non risponde o, molto probabilmente, preferisce non rispondere. D’altra parte, la sua riabilitazione del giusnaturalismo, sia pure con accenti e sfumature diversi da quelli della tradizione di corrente, le consente di guardare alla natura come pietra di paragone dell’intensionalità morale, Pertanto, è giusto quanto si accorda con le finalità naturali, ed è errato quanto, al contrario, vi si discosta. Non seguirò la Palazzani oltre, non per differenze sostanziali di vedute, ma perché l’economia del discorso è molto differente da quello che sto tentando in questa sede, anche se alcune nozioni possono comunque risultare utili. Prima, però, un’ultima acquisizione. L’autrice ritiene che lo scopo del diritto sia perseguire la giustizia e che quest’ultima altro non sia che il «riconoscimento ad ogni uomo di ciò che gli spetta» (ivi, p. 57). Sarebbe un concetto di per sé plausibile, oltre che, ovviamente, anche condivisibile, ma, dimensione teorica a parte, come potrebbe aiutarci? Palazzani non ci dice, in riferimento alla sorgente naturale della morale e del diritto, in cosa si sostanzi la dignità umana. Se di origine naturale, e fatta salva l’eccezionalità degli esseri umani dagli animali, cosa fa la dignità dei primi a differenza dei (o dai) secondi? Per dirla altrimenti, cosa spetta agli (e solo) uomini?
Forse, sarebbe bene uscire da una certa astrattezza di pensiero e cominciare a guardare alla concretezza che costituisce la vita umana, se desideriamo, e per davvero, comprendere il significato della vita.
Persona vs. individuo.
Pur di origine naturale, il bene per gli esseri umani è una nozione altamente problematica (Foot, op. cit., p. 56). Peraltro, e a differenza di quanto reputato da Palazzani, tra gli altri, non pare percorribile l’idea di una normatività naturale. E per il semplice fatto che ciò che è bene per gli animali non per forza è bene anche per gli esseri umani. Anzi, molto probabilmente, ciò che è bene per gli uomini non è bene (anche) per gli animali. D’altra parte, abbiamo appena finito di dire anche che le strade evolutive degli animali razionali, gli uomini, e degli animali non razionali si sono separate. Al momento, non pare credibile un ricongiungimento delle due storie evolutive. Dobbiamo, allora, ammettere che proprio questa eccezionalità fa problema, anche se è garanzia di dignità per gli esseri umani.
Ad ogni modo, proprio in virtù di questa specificità, solo all’uomo spetta la riflessione sulle nozioni morali o, se si preferisce, sul nesso tra i beni e la linea di sviluppo della vita umana. Solo se i beni massimizzano le potenzialità della vita umana possono essere considerati un “bene” per gli uomini. Ma le vite umane sono tante e così diverse da rendere difficile una concettualizzazione universale del bene.
A ben guardare, però, non è semplicemente, e soltanto, un problema di prospettiva, come se, data una cornice generale, fosse improvvisamente facile individuare, e con esattezza, quali siano i beni umani. La questione è più complessa. Non intendo, certo, imbarcarmi in ostiche questioni intorno alla natura umana, ma ritengo che sia comunque possibile fissarne alcuni punti fermi e da questi far discendere i beni umani.
Ma, come avviene nelle scienze, non possiamo avere un universo di elementi senza una teoria che lo costruisca, così necessitiamo di alcune nozioni di sfondo. La prima è sicuramente la nozione di persona umana. Sinora abbiamo adoperato invariabilmente termini come esseri umani o animali razionali e simili. D’ora innanzi sarà bene esprimerci con maggior puntualità. Infatti, essere umano non corrisponde a persona umana, più o meno come animale razionale non è il contrario di animale non razionale. Potremmo, infatti, chiederci se la vita dei virus possa essere l’esatto contrario della vita degli uomini. E difatti così non è. Ma al di là di una differenza qualitativa o di grado, cosa possiamo dire di più specifico sulla natura che rende persone gli esseri umani? Penso possa tornare utile ancora Spaemann. In modo icastico, afferma che la persona è qualcuno, e non l’istanziazione di un’essenza (ivi, p. 31). Sarebbe come dire che l’esistenza concreta di una singolarità umana ecceda la sua nozione astratta. E in effetti è proprio così! In genere, ci beiamo di sostantivi altisonanti mentre ci rinchiudiamo nella nostra torre d’avorio della rarefatta teoria. Non è la nozione di persona umana che rende umani i singoli esponenti di una specie naturale. Manca, cioè, qualcosa perché gli individui di una specie animale, e, per ciò stesso, “naturale”, possano essere delle persone umane. Forse a causa di Cartesio abbiamo perso la capacità di cogliere il nesso ineludibile tra “idea” e “vita concreta”. Così, pensiamo al concetto di persona umana, ma siamo incapaci di vedere quest’ultima nelle vite degli uomini. V’è un abisso di concretezza e di situazionalità che eccede la nozione stessa di persona umana. Eppure, in genere, rifuggiamo da quest’ultima preferendo di gran lunga parlare di singoli o di individui. Gli individui non per forza sono anche delle persone umane, mentre è sicuramente vero l’inverso. Ora, aggiunge sempre Spaemann, le persone «non sono semplicemente ciò che sono» (ivi, p. 41). Gli individui sono benissimo quello che sono, situazioni, casi, eccezioni; le persone no. Allora, una certa differenza sembra esservi tra le persone e gli individui. Mentre i primi necessitano di “altro” per vivere umanamente le loro vite concrete, ai secondi basta vivere le loro esistenze concrete. Gli individui sembrano essere quantità numeriche, mentre le persone umane hanno l’interesse a contare più dei meri numeri. La dignità umana, allora, attiene a un surplus che rende gli individui anche delle persone umane. Ma in cosa consiste? Speamann suggerisce che consista nella dimensione interiore e che, pertanto, quest’ultima marchi la differenza tra il mero vivere e il vivere umanamente (o anche tra l’esistenza solo animale e l’esistenza umana) (ivi, p. 52). Tuttavia, ammetto il mio disagio a seguire oltre le riflessioni dell’autore tedesco. Infatti, non mi pare aggiunga elementi concreti alla definizione della condizione umana, almeno nell’intento di distinguerla, ed efficacemente, dalla condizione animale. Temo che si muova irrimediabilmente all’interno di una cornice eccessivamente teorica, e, per ciò stesso, davvero poco utile. Sul fronte opposto, per completezza, invece credo si collochi Nagel, soprattutto quando dichiara che non vi sia accordo tra la moralità in generale e la correlativa qualificazione su cosa sia giusto e sbagliato nei singoli casi (Una brevissima introduzione alla filosofia. I grandi interrogativi della mente umana, p. 81). Il punto è che il filosofo americano parta da un presupposto inverso a quello di Spaemann, segnatamente dalla separazione dei casi particolari dalla giustificazione teorica o generale della teoria morale. In alcuni casi sembra proprio che il problema risieda non nella selezione dei casi singoli da prendere in considerazione per elevarci ad una considerazione di tipo generale, ma l’ammissione che i casi sono davvero troppi per poterli sussumere sotto ad una categoria onnicomprensiva (ivi, p. 88). In realtà, a ben vedere, più che un problema di pluralismo di casi è in azione un problema di sfiducia cognitiva nei confronti della mente umana e delle sue possibilità di inferire concetti generali. Questa sfiducia, chiamiamola così, è forse il conseguente risultato del presupposto della sua metodologia di lavoro, ovvero ritenere che un argomento possa essere creduto se, e solo se, ritenuto convincente (ivi, p. 9). Ma ciò rimanda alla singolarità in maniera duplice: una prima volta perché è il singolo che deve decidere; e una seconda volta perché il pluralismo della singolarità, di fatto, rende impossibile un accordo comune o intersoggettivo. Di conseguenza, non v’è argomento che possa reggere all’urto della singolarità laddove il singolo non è una instanziazione del genere di appartenenza, ma un mondo a parte, anche rispetto ai propri simili, un universo solipsistico moderatamente chiuso in se stesso, ma tanto quanto basta per rendere impossibile una composizione delle opposte e contemporanee visioni del mondo.
Un discorso a parte merita invece l’etica delle capacità di Martha Nussbaum.
I bisogni della persona.
Inserendosi nel fecondo dibattito contemporaneo sul tema della giustizia e del liberalismo in quanto dottrina morale, Martha Nussbaum ha incentrato la propria riflessione sulla nozione di equità, e, di conseguenza, sul catalogo correlato di beni, strutture e funzioni da mandare ad effetto per conseguire lo scopo prefisso, vale a dire il (giusto) bene per le persone umane. Da questo punto di vista, allora, l’autrice ha svolto una sagace critica nei confronti del (neo-)contrattualismo, prendendosela, ma non soltanto, con la dottrina della giustizia di John Rawls. Delle numerose critiche rivolte a quest’ultima, quella che mi appare più convincente è la seguente che, per brevità, semplificherò. L’idea fondamentale di un patto costitutivo della società è buona in teoria, ma viziata in pratica dal momento che non garantisce affatto un’equità di trattamento a tutti i possibili soggetti sociali. In modo particolare, proprio perché il patto sociale prevede un elenco di contraenti, si palesa il rischio che le libertà fondamentali concesse vengano riconosciute (esclusivamente) a questi ultimi, e non all’intera platea sociale, non esplicitamente dichiarata in sede fondativa. La teoria politica contrattualista, in altri termini, concepisce i soggetti che compongono la comunità politica come liberi, eguali ed indipendenti (Le nuove frontiere della giustizia. Disabilità, nazionalità, appartenenza di specie, p. 104). In questo modo, però, i teorici del contratto sociale negano cittadinanza a tutti coloro che, per vari motivi, non possono agire come fanno coloro i quali, al contrario, sono liberi, eguali ed indipendenti. Questo è segnatamente il caso delle persone disabili (Pizzo, Chi è libero, eguale ed indipendente? Martha Nussbaum su disabilità e giustizia), ma anche delle donne e delle minoranze, laddove, al contrario, il prototipo di contraente nella finzione rawlsiana è l’uomo bianco borghese. In realtà, ed è l’aspetto che più m’interessa, sia nel caso presente sia in linea più generale, questo bisogno di sottoporre a critica il modello contrattualistico ha una conseguenza ulteriore, non esplicita, ma comunque potente nei suoi effetti, vale a dire presupporre una diversa concezione della natura umana. Infatti, se l’obiettivo è la felicità, o, più dimessamente, il benessere, dei soggetti umani, quali possono essere gli strumenti onde garantire questa finalità? Non basta, evidentemente, ritenere i soggetti umani degli animali, magari un po’ più sofisticati ed esigenti di cani, gatti, pesci e amebe! Per soddisfare i reali, ovvero concreti, bisogni delle persone è necessario riconoscere ai soggetti umani, animali sì, ma razionali e molto più complessi, lo status di persone umane. E quando un soggetto può essere considerato anche una persona? Ritengo sia piuttosto banale, ovvero i soggetti umani sono più dei loro geni e della loro origine fisiobiologica. La vera differenza tra gli animali subrazionali e gli animali umani, lo abbiamo visto in precedenza, sta nella specifica forma di vita che viene sviluppata nelle istanziazioni singole della specie di appartenenza. Per semplicità, mentre i cani vivono come cani, gli uomini possono anche vivere come cani, ma potrebbero vivere meglio, ovvero come persone umane.
In questo frangente, allora, cade a fagiolo la riflessione di Nussbaum. Le persone umane hanno in comune la vulnerabilità, ovvero la costitutiva debolezza che caratterizza la condizione umana, costantemente esposte, nel corso della loro esistenza, ai molteplici ed imponderabili (talvolta) rischi di un mondo pericoloso (Nussbaum, La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, p. 583). Per semplificare, la Nostra indentifica in Aristotele un certo tipo di discorso, o il precursore importante, relativo alla sorte degli esseri umani nell’affannosa ricerca della felicità. E in modo particolare, per un essere umano «la vita buona richiede non soltanto una buona condizione del carattere, ma anche l’esplicazione di una certa attività» (ivi, 584). Per gli antichi si trattava del dominio insidioso ed imponderabile della capricciosa fortuna, per i moderni è l’incertezza e il rischio di un mondo complesso. Attualmente, le vette maggiori della riflessione etica contemporanea tendono a ripensare i grandi temi dell’etica alla luce di una acquisizione di fondo o dell’attuale temperie culturale. Pertanto, secondo Bauman, tra gli altri, il pensiero morale considera i fenomeni morali non – razionali, sé stesso come aporetico, non universalizzabile (con buona pace di Kant!), ambigua nelle sue finalità e, fondamentalmente, incapace di incidere, per come vorrebbe, nei risultati attesi (Le sfide dell’etica, p. 17). L’etica, cioè, viene sfidata dall’accettazione della condizione postmoderna, al punto da esprimere sfiducia riguardo alla riuscita delle ottimistiche possibilità del pensiero morale. Non perché l’etica sia del tutto risolta in una sorta di mero e semplice disfattismo, ma perché il disincanto riguardo ad un mondo complesso ed eterogeneo al pensiero stesso, spinge a guardare con maggiore problematicità alle sfide che il mondo stesso pone. Con il postmoderno, è entrata in crisi l’etica (ma certamente in buona compagnia) (ivi, p. 28). Per Bauman, pare di capire, l’etica postmoderna è una morale (problematica) priva però di un codice etico. In altri termini, una morale che, abbandonando il corpus valoriale canonico, deve ri-pensarsi, tornando «al punto di partenza (dove è a casa) del processo etico» (ivi, p. 40). La dimensione del rischio, non nuova al pensiero morale, laddove al contrario è nuova la consapevolezza che se ne ha, dovrebbe spingerci ad affrontare le sfide di un mondo complesso ed estraneo alle nostre volontà (ivi, p. 226). Tuttavia, questo formidabile e tremebondo compito curiosamente mette capo ad una tendenza omogenea a livello planetario. Ovvero, la politica, consapevole di questo stato di cose, agisce conseguentemente e comprime le questioni morali «nell’idea dei “diritti umani”» (ivi, p. 248). Una tendenza che è propria anche di Martha Nussbaum e sulla quale torneremo in seguito. Ma che, nelle idee di Bauman, si traducono semplicemente nel «più popolare diritto di essere lasciati in pace» (ibidem). In altri termini, e volendo sintetizzare, l’orizzonte di senso del pensiero morale contemporaneo consisterebbe nel tradurre le questioni etiche in diritti umani, formalmente riconosciuti sulla carta a ciascuno e a ciascuna, ma inerti sul terreno della pratica. Tant’è che ognuno viene poi lasciato solo nella sua dimensione sociale. Prova ne sia lo smantellamento progressivo di qualsiasi sistema socio – assistenziale statale, lasciando che siano i singoli, ciascuno per parte propria, e con una – questa sì – naturale differenza (di partenza), portatore di un privato interesse legittimo, a stabilire come dividersi le (esigue) risorse. La conseguenza, piuttosto ovvia, è che lo spazio sociale o comune o di tutti divenga «un terreno da saccheggiare, da sfruttare» (ivi, p. 249).
Dunque, il disagio della postmodernità, che ha ripercussioni sulla stessa concezione di essere umano, così come sul suo destino, spinge a ripensare il pensiero morale e le connesse questioni di giustizia. Sempre Bauman, ad esempio, ritiene che per queste ultime non esistano «soluzioni definitive e perfette, ricette prive di effetti collaterali e interventi senza rischio» (Bauman, Il disagio della postmodernità , p. 75).
Di questo fattore, complessificante e non semplificante, deve tener conto una qualsiasi filosofia sociale. In questi termini, forse, e sicuramente solo in parte, se ne occupa Nussbaum nella sua proposta, la quale, infatti, fa perno sulla nozione di essere umano vulnerabile (Pizzo, Vulnerabilità nella filosofia sociale di M. C. Nussbaum, p. 139 e sgg.). Questa riflessione si svolge sempre tenendo conto del particolare contesto di vita entro il quale dimoriamo. Ad esempio, viviamo «in un mondo in cui regna il disordine, la confusione e l’incertezza, e nel quale non si può trovare alcun sostituto ad un’attiva ricerca personale» (Nussbaum, L’autoesame socratico, p. 52). La riflessione della Nostra, peraltro, ha un pregio difficilmente riscontrabile in tanti altri autori, anche contemporanei, ovvero la capacità di declinare nel concreto delle pratiche umane le nozioni teoriche della loro prospettiva. Così, non è raro trovare nei suoi testi costanti riferimenti a casi concreti oppure alla realtà educativa o al mondo delle ONG. Nel caso specifico, ad esempio, Nussbaum ci ricorda che il mondo è il luogo ove coltivare la nostra umanità (Nussbaum, Introduzione, p. 30). Ma ciò significa forse che l’umanità sia una prassi e non uno status? Ci scontriamo adesso con il primo elemento fondamentale quando ci accostiamo alla filosofia di Martha Nussbaum. Nella filosofa americana, l’approccio complessivo riguarda la possibilità di funzionamenti per l’intera platea umana, un elenco trasversale alle varie culture e ai vari stati di procedure che ciascuna persona umana può svolgere. Detto altrimenti, la teoria della giustizia deve essere ridiscussa al fine di garantire all’intera umanità una base minima per il rispetto della dignità umana (Nussbaum, Le nuove frontiere della giustizia, p. 87). In altri termini, la prospettiva della Nostra è rovesciata rispetto al canone generale del liberalismo moderno, ovvero non più un catalogo teorico di valori e principi, ma un elenco di soglie minime di servizi garantiti alle persone. Il punto, infatti, non è prevedere fattispecie in astratto, ma garantire le capacità umane, ovvero «ciò che le persone sono realmente in grado di fare e di essere» (ibidem). Gli stati, pertanto, sono tenuti a garantire all’intera popolazione una base comune e minima di capacità al fine di consentire a tutti e a tutte di essere e fare come persone. Il rovesciamento di prospettiva è radicale: là, si presume che la garanzia formale sia sufficiente per consentire a tutti di vivere in maniera adeguata la propria dignità umana; qua, invece, si richiede una garanzia sostanziale che consenta a tutti di vivere in maniera adeguata la propria dignità umana. Ovviamente, l’aspettativa non è al ribasso, ovvero che ogni stato si contenti di garantire la soglia minima di capacità, ma portare gradualmente tutti e tutte al di sopra del livello minimo. Sicuramente, una simile proposta impegna anche diversamente la capacità di spesa dei singoli stati dal momento che è richiesta una ridistribuzione delle risorse. E qui troviamo il secondo elemento fondamentale che è possibile trovare soltanto in Martha Nussbaum: la ripartizione delle risorse dev’essere differenziata perché ciascuno parte da una condizione sociale, economica ma anche di funzionamento personale differente. Allora, lo Stato non deve dare lo stesso a tutti, ma a ciascuno e ciascuna in funzione dell’effettivo bisogno. Questa non è certo una discriminazione, ma, all’esatto contrario, una grande garanzia di equità: garantire sostanzialmente il pari diritto di ciascuno e di ciascuna ad una vita umana, ovvero ad una vita buona. Le risorse, in altri termini, dal lato del destinatario finale, devono convertirsi in funzionamenti (ivi, p. 92). Rawls andrebbe corretto alla luce di questa impostazione dei diritti e della giustizia che non parte più da un modello teorico astratto (il contratto sociale), ma dai concreti bisogni differenti di ciascuno e di ciascuna. Alla differenza di partenza devono corrispondere trattamenti differenziati al fine di garantire la dignità umana.
Quindi, forse, potremmo dire che la dignità umana precede la soglia minima delle capacità? O, come sinora sembrava, segue all’etica delle capacità? Ci torneremo; intanto, però, è bene approfondire il discorso sulle capacità.
Quali le capacità? Per Nussbaum, sono in totale dieci: una vita dignitosa è tale se, e solo se, alle persone sono garantite tutte e dieci le capacità.
Innanzitutto, abbiamo la capacità della vita. Nussbaum considera l’intervallo esistenziale di ciascuno e di ciascuna “buono” se chiunque è messo nelle condizioni di vivere un’esistenza di durata, diciamo, normale. Ma questo non significa che basti la durata per qualificare una capacità che possa dare luogo ad un funzionamento adeguato alle persone umane. Infatti, questa stessa esistenza non deve soffrire di un numero eccessivo di limitazioni, di varia natura e causa, al punto da risultare indegna di essere vissuta. Pensiamo per un attimo alle nostre vite. E dopo immaginiamo di non avere una buona motilità personale. Oppure, di sopravvivere ad un grave incidente e di riportare danni permanenti, non letali, ma comunque importanti e tali da diminuire la nostra qualità della vita. Lo Stato interviene per diminuire queste difficoltà?
Gli esempi appena addotti ci consegnano subito la seconda capacità, ovvero la salute. E qui cominciano i problemi per qualsiasi pianificazione di welfare! Infatti, l’elenco di Nussbaum è particolarmente esigente. Ciascuno e ciascuna deve poter godere di buona salute, compresa una sana riproduzione, ma anche potersi nutrire in maniera adeguata e fruire di un’abitazione consona. Ora immaginiamo di essere un senza tetto. Che vita possiamo condurre? E con che qualità? Viene perseguito il nostro bene? E perché lo Stato non parte dalle differenze di ciascuno e ciascuna per garantire a tutti una vita buona?
C’è poi anche la capacità dell’integrità fisica. Con questa locuzione, Martha Nussbaum intende la capacità di muoversi liberamente, di aver garantita l’inviolabilità del proprio corpo, avere la possibilità di godere del piacere sessuale e di scelta in campo riproduttivo. I casi di mancanza di autonomia personale o subire soprusi di natura psicologica e fisica oppure non poter decidere che uso fare del proprio corpo impedisce certamente la conduzione di una vita buona.
Ma v’è anche tutta una sfera non immediatamente riconducibile alla sfera biologica della persona umana. La Nostra elenca una serie di elementi che costituiscono una capacità apposita. In altri termini, poter usare i propri sensi, poter immaginare, pensare e ragionare coltivato per mezzo di un’istruzione adeguata, allargando l’immaginazione e il pensiero con l’esperienza e la produzione creativa ed artistica. In altri termini, una persona umana si realizza anche nella ricerca autonoma e personale del significato ultimo della propria esistenza, partecipando alla vita politica, esercitando liberamente un credo religioso. È garantito a tutti e a tutte questa capacità? Pensiamoci per un attimo.
Sono importanti anche i sentimenti. Infatti, Nussbaum ritiene che ciascuno e ciascuna debba poter provare attaccamento alle cose, alle persone, a noi stessi. Ma, più in generale, ciascuno e ciascuna debbono poter fruire di un mondo emotivo senza traumi. Anche questa capacità è senza dubbio impegnativa. Quale welfare garantisce in termini sostanziali uno sviluppo emotivo di ciascuno e di ciascuna?
Ma le persone umane hanno bisogno anche di un’altra capacità, ovvero della ragion pratica, e segnatamente la possibilità di sviluppare una concezione di ciò che è bene ed impegnarsi in una riflessione critica su come pianificare la propria vita. Pensiamo, adesso, a quanti di noi lo fanno o possono davvero farlo. E tanto basterebbe per rendersi conto di quanto non sia improvvisata, e parimenti di quanto sia impegnativa, la proposta di Martha Nussbaum!
L’elenco, però, non termina certo qui. Infatti, la Nostra vi aggiunge anche l’appartenenza, intesa tanto quale dimensione sociale dell’interazione tra pari quanto il possesso delle basi sociali per poter esercitare liberamente quel che si è. Per la filosofa americana, allora, pare possa dirsi che il riconoscimento della dignità umana per le persone passi per il duplice rapporto derivante dall’appartenere ad un esteso gruppo sociale, ovvero dal poter contribuire liberamente alla vita di quest’ultimo e dal poter essere liberi al suo interno. D’altro canto, che persone saremmo se in qualche modo dipendessimo materialmente oppure fossimo in condizioni di minorità? La nozione di persona umana è esigente, e mal si adatta ad esser compressa nelle sue realizzazioni pratiche.
Ma l’appartenenza alla medesima specie umana, ovvero di animali razionali, non comporta l’assenza di rapporti o, peggio, lo sfruttamento indiscriminato, vale a dire “irrazionale”, delle altre specie non umane. Pertanto, l’ottava capacità elencata è l’essere in grado di vivere in relazione con gli animali, le piante e con il mondo della natura» (ivi, p. 94). Osserviamo, così, anche in questo caso, l’ennesima versione della nozione nussbaumiana della persona umana: un essere (vulnerabile) di interazioni con il mondo esterno, sia esso umano sia esso animale sia esso soltanto (si fa per dire!) naturale. La persona umana è capace di empatia, di interagire e prendersi cura del mondo, di preoccuparsi dell’intera scena della sua azione. O, almeno, dev’essere messa nelle condizioni di poter tentare di esserlo.
Nussbaum indica ancora la capacità del gioco, da intendere quale la capacità di ridere, giocare e godere di attività ricreative. In altri termini, la persona umana non è soltanto pensiero ed azione, ma anche doti morali o spirituali. Pertanto, non si può pretendere che debba soltanto lavorare o “produrre”, aspetto che tra non molto rivelerà il suo carattere dirompente, specialmente in merito alla produzione della ricchezza quale parametro per misurare il benessere dei singoli, ma deve anche poter fruire della sua ironia e della sua capacità di divertirsi. Sicuramente, una persona che possa e sappia “prendersi gioco” di sé, dei suoi pari e della vita che conduce, sarà una persona più appagata.
Infine, Nussbaum inserisce l’ultima capacità, il controllo del proprio ambiente, inteso in una sua duplicità essenziale: dimensione politica, vale a dire poter partecipare direttamente e liberamente, in condizioni di parità effettiva, alle scelte politiche; e, materiale, vale a dire fruire delle condizioni materiali che sorreggono ciascuna persona umana nello svolgimento della propria esistenza in relazione con altri. Immaginate una persona priva di mezzi? O che non disponga di una base materiale per sostenere il suo diritto di rappresentanza politica? Eppure, è esattamente quello che accade troppo spesso, anche nelle nostre realtà opulente.
A questo punto, è bene svolgere alcune considerazioni in merito a queste capacità. Nussbaum precisa più volte che tale elenco è soltanto un (buon) punto di partenza dal momento che le dieci capacità indicano solamente la soglia minima, non massima, delle capacità di funzionamento per qualsiasi persona umana (cfr. Nussbaum, Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del PIL, pp. 38 – 41). In altri termini, si tratta di una lista espandibile, soggetta a revisione continua, sulla base di ulteriori ed innovative acquisizioni in materia di cittadinanza, e piuttosto astratta perché è compito delle varie nazioni declinare in concreto questi punti. Inoltre, le capacità guardano alle possibilità di realizzazione morale delle persone, non impegnandosi intorno al loro (possibile) status metafisico. Ancora, la politica deve prendere sul serio le capacità, e non il funzionamento, al fine di garantire a tutti pari opportunità di realizzazione dal momento che i funzionamenti sono comunque soggetti a influenzamenti e determinazioni storiche e/o culturali. Un mondo plurale e multiculturale ha bisogno di equità, ovvero pari possibilità di realizzazione, e non un astratto, ed ideale, traguardo di realizzazioni umane. Nussbaum aggiunge inoltre che la dimensione morale delle persone passa attraverso la libertà loro concessa, ma una libertà che trova un posto eminente, anche se non diretto, nell’elenco delle capacità fondamentali e diviene «non negoziabile» (Le nuove frontiere, p. 97). Ad ogni modo, appare rilevante osservare come l’approccio della Nostra sia improntato alla distinzione tra questioni di giustificazione e questioni di applicazione. Disdegnando così il primato della giustificazione (teorica e morale) delle capacità umane, Nussbaum si auspica che, pur non potendo legittimare la lista stessa un intervento diretto nelle realtà politiche che non la riconoscono, essa possa esercitare su queste ultime un potere persuasivo tale da attrarre verso la giustizia che essa stessa consente. La filosofa rifiuta così le ingerenze straniere nelle questioni nazionali ma anche le cosiddette misure militari o economiche che possano limitare la sovranità dei popoli. Quest’ultimo accenno rivela, però, a mio avviso, la natura morale della Nostra, tesa più a tradurre il linguaggio morale in un linguaggio più forte e pregnante, quello dei diritti umani. E d’altra parte lo ammette lei stessa quando scrive che l’approccio delle capacità è una sorta di «approccio dei diritti umani» (ivi, p. 95), vale a dire di quelle libertà fondamentali che spettano a tutte le persone umane sin dalla nascita. Vero è che rifiuta di impegnarsi metafisicamente intorno ad una concezione precisa della natura umana, ma è anche vero che il suo punto di riferimento non è la teoria della persona, come pure potrebbe recepirla il dibattito europeo, quanto, e piuttosto, il liberalismo americano, e segnatamente il (neo)contrattualismo di John Rawls. Ne consegue, allora, che la ridefinzione della giustizia passa per un nuovo modello politico delle capacità umane. Non “chi è” la persona, ma “cosa può fare” la persona (qualunque cosa essa sia). Potrebbe trattarsi di un tipico pragmatismo angloamericano, ma, sinceramente, la questione qui non è importante, a maggior ragione se poniamo mente al fatto che non è pertinente provare a svilupparla.
In realtà, la presenza di una sorta di rovesciamento del metodo seguito dalla filosofia morale viene ammesso dalla stessa Nussbaum, ma è un riconoscimento inerente alle questioni di applicazione del suo modello; non le interessa giustificarlo perché dobbiamo guardare al risultato delle procedure eque.
Non un modello o prototipo di persona umana, ma un approccio che riesca a riflettere da vicino la sua vita reale (ivi, p. 104). E qui torniamo alle considerazioni iniziali. Infatti, qual è questa persona umana in vista della quale stiliamo un elenco minimo e basale di capacità? Una persona concreta, colta negli aspetti pratici e immediati della sua esistenza nel nostro insicuro mondo. Una persona, dunque, costantemente esposta al rischio, estremamente, per non dire anche costituzionalmente, vulnerabile, la cui libertà è sempre esposta al contenimento, alla compressione, alla limitazione, anche alla negazione. I bisogni e le risorse non coincidono! Pertanto, ogni persona può avere bisogni variabili, anche in momenti diversi della sua stessa esistenza. Ma mentre il contrattualismo moderno, e con esso la stessa filosofia morale, ha cercato di semplificare il quadro parlando di una società politica fondamentale, Nussbaum ritiene che insistano tre questioni di giustizia irrisolte, e segnatamente le persone disabili, gli squilibri internazionali e le specie non umane. Pertanto, discute e cerca di mostrare i vantaggi del suo approccio riguardo al trattamento di giustizia da riservare a queste questioni irrisolte dalla teoria moderna della giustizia. Discorso che, però, non seguiremo perché non pertinente ai fini presenti.
Piuttosto, torniamo sull’approccio alle capacità umane, che ci riguarda più da vicino. Il principale difetto del (neo)contrattualismo risiederebbe nella concezione privatistica di fondo, ovvero nell’implicita transazione che i primi confederati compiono, vale a dire nello scambio che realizzano, un contratto «improntato al reciproco vantaggio» (Giustizia sociale e giustizia umana, p. 40). Ma, a parte l’ovvia considerazione che le persone non nascono tutte libere e tutte dotate di una solida base materiale per potersi realizzare, vanno considerate «esseri animali dotati di bisogni» (ibidem), che possono convertire in funzionamenti, ovvero in realizzazioni. È questo il benessere cui dovrebbero guardare gli analisti e in virtù del quale i filosofi morali dovrebbero discutere di equità. Infatti, le società andrebbero valutare non in termini di PIL, o di ricchezza materiale generale prodotta, ma nella misura in cui rendono possibile che gli esseri umani dotati di bisogni possano trasformare questi ultimi in realizzazioni esistenziali. Il modello economico imperante, detto altrimenti, sarebbe «qualcosa di buono se permettesse al governo di adottare politiche pubbliche che incidessero sulla vita» (Creare capacità, p. 22) delle singole persone, fatte di concretezza e di bisogni reali differenti.
Ma sinora abbiamo girato attorno a nozioni solo in astratto equivalenti. Si tratta adesso di compiere un passo ulteriore, e di approssimarci alle conclusioni della presente riflessione. Se Martha Nussbaum ci richiama alla necessità di declinare nella concretezza storica le questioni di giustizia e ciò che rende buona la nostra vita in quanto esseri umani vulnerabili, Foot indaga le strutture teoriche del bene per gli esseri umani. E, segnatamente, attribuisce al linguaggio la causa cruciale della differenza tra gli animali subrazionali e gli esseri umani (ivi, p. 70); differenza che rende conto anche della specificità del bene per gli uomini. Questi ultimi, infatti, possono trovare le ragioni che possano giustificare la bontà di corsi d’azione differenti. Il bene, cioè, non rende buona la persona che lo compie, ma sicuramente attesta la buona qualità della sua volontà, che è pur sempre razionale (ivi, p. 83). La scelta razionale, infatti, viene considerata come un aspetto della bontà umana, sebbene non necessariamente l’esercizio della virtù possa consentire agli uomini il raggiungimento della felicità (ivi, p. 84). Eppure, ad avviso della Foot, comunque può dirsi che la felicità consista nel provare gioia per ciò che è bene, ovvero «nell’ottenere e perseguire fini giusti» (ivi, p. 115). Il punto di approdo è intrigante, ma poco chiaro come ci si possa giungere partendo da una nozione vaga di bene. In realtà, a parziale sua discolpa, forse, potrebbe dirsi che l’esito è funzionale allo specifico tipo d’indagine svolta: giustificare razionalmente la grammatica del linguaggio morale. È insoddisfacente? Non direi, in fondo.
Persone umane per nascita o per costruzione politica?
Da più parti si tende a porre in questione il nostro stesso stile di vita in qualche modo caratterizzato da una profonda, e forse irrecuperabile, crisi di significato, di definitivo successo della ragione strumentale e, da ultimo ma non per ultimo, di progressiva perdita della libertà. Se da un certo punto di vista, questo è un comune sentore, da un altro punto di vista viene considerata non tanto una prognosi della stagione che esperiamo, ma addirittura la diagnosi della modernità stessa. In altri termini, staremmo attraversando la curva adulta del disagio proprio della modernità (Taylor, il disagio della modernità, p. 4). A detta di Taylor, tra gli altri, la modernità reca con sé uno smarrimento che ha a che fare con la collocazione dei singoli all’interno di una comunità la quale, beninteso, non è più in grado di esprimere una tavola dei valori condivisa, appare incapace di fornire una cornice di significato intersoggettivo che impedisca la strumentalizzazione delle persone sulla base del tornaconto individuale e del suo correlativo calcolo mezzi – benefici, e, infine, uno svilimento del pensiero morale a calcolo utilitaristico che derubrica le grandi questioni sistemiche a scelte opportunistiche più o meno indotte dalle agenzie istituzionali, comprimendo, di conseguenza, le possibilità di scelta dei soggetti umani.
Come espressione di un certo modo di sentire, la posizione di Taylor va sicuramente tenuta in considerazione, ma tentare qui di analizzarla un po’ più in profondità ci condurrebbe eccessivamente lontano. Tuttavia, sono comunque presenti alcuni rilievi che possono tornare utili agli scopi presenti, e segnatamente alla riflessione morale sul confine della libertà personale quale tutela del suo bene.
La riflessione di Nussbaum, per quanto rilevante ed utile in determinati contesti di analisi della condizione umana, non ha certo mancato di sollevare obiezioni e critiche. Di queste ultime, a mio avviso, le più pertinenti sono state quelle di Mocellin e Bernardini. La prima evidenzia come l’Aristotele cui sovente si riferisca Nussbaum non sia l’Aristotele storico, ma una sua versione moderna secondo la quale il filosofo antico non presupponeva una biologia metafisica (Mocellin, Ripartire dalla “vita buona”. La lezione aristotelica in Alasdair McIntyre, Martha Nussbaum e Amartya Sen, p. 108). Mettendo tra parentesi l’accertamento di tale presupposto, è un’altra la questione suscitata, ovvero l’etica delle capacità discende da una specifica nozione di essere umano, criterio normativo di giustificazione delle nostre attribuzioni di valore (ivi, p. 137). Ma questa nozione, in qualche modo, viene ipostatizzata nell’empireo della riflessione morale astratta. Tant’è vero che pur rivendicando la giustizia per soggetti umani che sinora ne sono privi, non adopera quasi mai la parola libertà. Come mai? Secondo Mocellin, ciò dipende da questa concezione che le consente di «produrre categorie e formulare “tipizzazioni” per fenomeni che in realtà ad esse sfuggono» (ivi, p. 142). In altri termini, Nussbaum ha il difetto di irrigidire la buona vita delle persone in una singola lista di capacità che, a suo dire, dovrebbero andar bene per ogni cultura e per ogni realtà politica. Ma questo è possibile solo se si parte da una concezione specifica di persona umana, che la filosofa non vorrebbe costituire quale realtà metafisica, ma che ipostatizza nel farsi del discorso filosofico. Così, l’antropologia del funzionamento umano tradisce un suo difetto strutturale, ovvero di essere l’esatto contrario di quel che non dovrebbe essere a parole, vale a dire una concezione metafisica. Non è antropologia, ma assunzione metafisica. In altri termini, è problematico il proceduralismo che adotta (Magni, Etica delle capacità. La filosofia pratica di Sen e Nussbaum, p. 119) per sfuggire agli antichi vizi della metafisica, ma poi finisce con il ripeterne lo stilema. È un’obiezione davvero inevitabile, anche se l’impianto generale rimane in piedi.
Ma questa difficoltà ci consente di discutere anche l’obiezione decisamente più insidiosa. La lista delle capacità, per come la stessa Nussbaum ha più volte precisato e dichiarato, è una concezione politica dell’essere umano, ovvero un espediente procedurale che consente di raggiungere dei risultati concreti nel discorso filosofico, evitando di affrontare difficoltà metafisiche, come per l’appunto definire chi è o che cosa è l’essere umano «nel senso etico-filosofico del termine» (Bernardini, Uomo naturale o uomo politico? Il fondamento dei diritti in Martha Nussbaum, p. 43). E qui si scorge un nodo irrisolto. Infatti, questa lista, rigidamente incardinata su un proceduralismo scevro di qualsivoglia opzione metafisica esplicita, tradisce un suo limite, ovvero quello di fondarsi su «un consenso politico» (ivi, p. 42). Come altrimenti dovremmo qualificare una lista di capacità che rifugga da giustificazioni filosofiche salvo però godere di condivisione sociale? Delle due l’una, o la giustificazione c’è ma non viene dichiarata oppure la giustificazione viene evitata in funzione di un’accettazione pratica. Il proceduralismo, cioè, garantirebbe alla lista delle capacità di essere politicamente supportata pur in assenza di un suo orizzonte culturale di riferimento e/o di giustificazione. Ma, in realtà, proprio questa fondazione tradisce il carattere politico dell’etica nussbaumiana. Infatti, detto elenco, che pare avere natura meramente descrittiva, via il suo proceduralismo pratico, pur eludendo questioni metafisiche o antropologiche, finisce per avere un valore non più conoscitivo, ma prescrittivo. In altri termini, Nussbaum compie un salto logico, elaborando «una concezione «politica» della natura umana» (ivi, p. 43). Questo sconfinamento nella politica, tuttavia, non è solamente un qualcosa di assimilabile ad un incidente di percorso o ad un effetto indesiderato della propria costruzione ideale, è qualcosa di molto più profondo. Infatti, com’è noto, Nussbaum adopera la sua lista delle capacità o funzionamenti come termine di paragone per la giustizia pratica. Ora, precisa puntualmente Bernardini, una teoria della giustizia non dovrebbe essere in grado di affermare come sia bene vivere (ivi, p. 76), specie se parte dall’assunto di non specificare cosa sia bene per le persone umane. E tuttavia l’approccio delle capacità ci dice che «è il funzionamento attuale della ragion pratica e della capacità di relazione che rendono una vita pienamente umana» (ibidem). Ed allora la dignità umana non spetta a ciascuna persona in quanto tale, ma è una possibilità procedurale attivata da un insieme di valori politici che la rendono possibile e possono valorizzarla. In altri termini, scopo delle istituzioni non sarebbe più tutelare la persona umana in quanto titolare di una sua dignità sin dalla nascita, ma abilitare dei beni per il cittadino (ivi, p. 77). A questo punto, allora, diventa esplicito il travaso di nozioni morali in politica, o, ma è lo stesso, una sussunzione dell’etica sotto la dimensione politica. Infatti, la persona umana diviene un cittadino, e solo in funzione della dimensione comunitaria, può avere dei beni; non dei diritti, ma ciò che i valori politici stabiliscono essere “bene” per i soggetti umani o cittadini. Questi beni, allora, non sono affatto dei beni sostanziali, o morali, ma dei beni strumentali, o politici (ivi, p.89). Di conseguenza, sono molto fragili, evidente risultato di un approccio sostanzialmente debole. Ma questa stessa impostazione porta anche a compiere un illecito salto dall’essere al dover essere. Infatti, proprio perché le capacità listate sono facilmente intuibili da tutti diventano ciò «che dovrebbero considerare come un bene» (ivi, p. 90). E questo ha sicuramente effetti deleteri sulla libertà personale. Infatti, per Nussbaum non è la libertà la sorgente dei beni o diritti, ma il fondamento dei diritti è «la libertà dal potere» (ivi, p. 97). A questo punto, la critica di Berardini è quanto meno penetrante e, a mio avviso, coglie nel segno. Tanto più che questa libertà dal potere può essere configurata come una libertà dal bisogno, stante la definizione iniziale di persona umana vulnerabile o bisognosa. Così, non sono importanti tutte le libertà, ma solo quelle che massimizzano la compiuta realizzazione della persona. Ma in questo modo si finisce con l’approdare ad un criterio morale, inizialmente rigettato e qui recuperato, sia pure in una sua forma estremamente riduttiva (ivi, p. 115). Una riduttività affatto naturale, ma sempre frutto di una scelta razionale, e, dunque, una neutralità selettiva (ivi, p. 118).
Benché frutto deliberato di una scelta “politica”, comunque, ritengo che complessivamente l’approccio di Martha Nussbaum possa avere la sua utilità nella considerazione filosofica della crisi attuale.
Per un’etica della giustizia.
Sinora abbiamo visto come il dibattito contemporaneo intorno alla persona umana e alla giustizia dovuta sia piuttosto articolato, senza però riuscire a convergere su punti fondamentali.
Allora, le conclusioni presenti non potranno che essere ottative oltre che provvisorie. Cosa possiamo desumerne? Solo delle avvertenze di carattere generale. Innanzitutto, che la vita di una persona umana non coincide mai con le sue limitazioni, di varia natura e sorgente, ma, all’esatto contrario, con le sue capacità (di essere e di fare). Qualunque dottrina morale o politica, ma anche economica, che non abbia questo come finalità inevitabilmente finisce con lo strumentalizzare o oggettivare le persone umane (Nussbaum, Persona oggetto, p. 34). Anziché essere termine finale dei processi politici o morali o economici, ne diviene strumento di affermazione. L’oggettualizzazione, allora, è un caso particolare della più vasta e generale de-umanizzazione delle persone consistente nella negazione dell’autonomia e della soggettività umana. Senza autonomia e senza riconoscimento della soggettività, che rispetto o che libertà o che realizzazioni saranno possibili per persone retrocesse immancabilmente allo stato di singoli atomici o parti strumentali, e, dunque, fungibili, del contesto politico?
Eppure, se pensiamo ai tristi bollettini quotidiani sull’andamento del contagio da COVID-19 osserviamo e discettiamo di meri numeri, di indici statistici, di progressioni aritmetiche, e così via. Anche se non voluto, l’effetto deumanizzante è operante, ed instilla in tutti noi, forse, la rassicurante impressione che si tratti di numeri, non di persone, ovvero di un improbabile orizzonte degli eventi che possa riguardarci direttamente.
È pur vero che appare improbo pensare di poter entrare in relazione con ciascuna delle persone conteggiate come numeri dalla protezione civile, e rilanciati dalle varie agenzie di informazione, stampa e social, ma è anche vero che la semplificazione in numeri trasforma delle persone umane in oggetti deumanizzati. Non che io non capisca l’esigenza del tener conto dell’andamento generale del contagio, in vista delle possibili misure da prendere, tendendo conto anche dei possibili rischi e della penuria di risorse disponibili, materiali ed immateriali, ma è certamente triste parlare di numeri, e non di persone in carne ed ossa, con un nome e un cognome, di soggetti umani, di persone, con la loro storia personale …
Un altro aspetto che la situazione attuale comporta è anche l’insistenza su un elenco di divieti, su una limitazione, ancorché provvisoria, delle libertà dei soggetti umani. Quasi quotidianamente vari decisori politici aggiornano i divieti comprimono ulteriormente le libertà, di spostamento, di movimento, di occupazione lavorativa, delle persone. Ma se pensassimo che non si tratta solamente di negazioni, ma anche di tangibili riduzioni delle possibilità di realizzazione delle persone, ecco che, forse, non prenderemmo tanto alla leggera tali divieti dettati da un’emergenza che deroga a (quasi) tutte le libertà delle persone. E questo perché la concezione moderna di libertà, quella che noi tutti conosciamo, è positiva, ovvero espansiva, come progressiva estensione di ciò che è in nostro potere compiere. Ecco, invece, nella contingenza presente noi osserviamo un’emergenza che sta fagocitando le persone umane, prima oggettivandole in asettici numeri, e non più in vite umane con un nome, un cognome, una storia, e poi comprimendo sempre più la realtà politica, confinandole all’interno del ristretto confine del proprio domicilio. Ed appare difficile pensare che questi divieti possano essere giustificati da un’emergenza di livello superiore, così come che la loro legittimità poggi sulla natura transitoria di detti dispositivi.
Ma queste impressioni negative, e sotto alcuni aspetti anche piuttosto urticanti, per non dire anche conturbanti, possono, almeno in parte, essere mitigate da una lezione antica che Nussbaum, tra gli altri, ha l’indubbio merito di rispolverare, ovvero la saggezza. In altri termini, benché costretti all’interno delle nostre mura domestiche, le limitazioni possono essere meno dure se poniamo mente non a chi sta peggio di noi, un moralismo davvero irritante oltre che tendente al “meno per tutti”, ma al fatto che possiamo contare sulla nostra libertà in questi spazi, e che, dunque, possiamo ancora vivere bene nonostante tutto perché possiamo comunque ed ancora compiere scelte razionali su ciò che possa farci vivere bene. Il bene non coincide con il meglio? Indubbiamente, ma a cosa guarda il saggio? All’essenziale o al superfluo? Al fine o al mezzo?
Come si vede, allora, il “bene” per la persona non è l’oggetto materiale dei suoi desideri, ma quel mezzo che le consente di realizzarsi, ovvero di sviluppare in positivo la propria vita.
Da questo punto di vista, pertanto, il confino domiciliare, quale esempio paradigmatico della sequela di limitazioni vigenti, e in via di superamento, non nega di per sé ciò che è buono per la vita umana, ma ne ridefinisce in maniera importante il confine di realizzazione. E nonostante ciò questo confine, sebbene ristretto, non nega una volta per tutte o del tutto il bene umano; al contrario, ne ha soltanto ridefinito la cornice generale.
Pur limitati, compressi e ammoniti, dunque, possiamo ancora condurre una vita buona, se ci sostiene un animo sereno, per dirla con Orazio.
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*Alessandro Pizzo è Dottore di Ricerca in Filosofia presso l’Università degli Studi di Palermo. Professionalmente occupato nella scuola, si occupa di filosofia morale, logica degli enunciati normativi e di filosofia sociale. Per sopravvivere alla didattica a distanza ha dovuto rivitalizzare il suo canale Youtube