Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Linguaggio e noumeno – Prima parte

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> di Vito J. Ceravolo

 

«Si potrebbe fissare un prezzo per i pensieri.
Alcuni costano molto altri meno.
E con che cosa si pagano i pensieri?
Io credo così: con il coraggio.»
Wittgenstein

 

Introduzione (cfr. Mondo 2016, Dieci argomenti di filosofia 2017)

Poniamo la ragione come in sé (noumeno). Essa invisibile risponde alle caratteristiche proprie del noumeno[1]: «non percepibile, sovrasensibile, non misurabile fisicamente in maniera diretta, solo intelligibile». Essa è il mondo metafisico, non rilevabile dalle scienze naturali se non nelle sue conseguenze fisiche, appunto perché le precede. Un concetto metafisico ben lungi da quello aspramente contestato, senza duplicazioni di realtà, ma con un’unica realtà costituita da un ordine sovrasensibile e corrispettivo ordine sensibile.

La ragione in sé (noumeno) delle cose non è da confondersi con la razionalità umana (pensiero) che è invece lo strumento astratto di accesso a questo mondo astratto esclusivamente intelligibile della ragione. Abbiamo quindi questo in sé, la ragione, e lo strumento per accedervi, la razionalità. Come in sé la ragione ha il carattere dell’universalità, quindi della costante universale uguale indipendentemente da chi la emette e riceve, una verità di ragione uguale per ogni. Su questo sfondo concettuale delineiamo il nostro fine linguistico: osserviamo come le differenze fenomeniche dei linguaggi non alterano le ragioni in sé che comunicano.

1. Inalterabilità della ragione nei linguaggi

Si è detto che la ragione è la constante in sé dell’universo, uguale in ogni situazione, per qualunque mittente e ricevente, necessariamente anche davanti ai diversi linguaggi che la possono esprimere:

[1] L’interferenza dei linguaggi non altera le verità di ragione.

Infatti i diversi linguaggi non cambiamo la ragione che comunicano quando è la stessa, cioè esistono diversi modi di dire ugualmente la stessa ragione senza alterarla. Per esempio:

  • Il mare mi piace;
  • I like the sea;
  • Mi piace il mare;
  • Me gusta el mar;
  • A me mi piace li mari (grammatica casuale).

Abbiamo qui una varietà descrittiva dello stesso oggetto, che porta a riconoscere, in maniera esplicita e rigorosa, due eventi distinti:

  • Il medesimo oggetto, la ragione in sé, quella che accumuna tutte le forme linguistiche che la emettono;
  • La possibilità di dire la stessa ragione con linguaggi diversi senza alterarla in sé, solo nell’aspetto fenomenico.

Orbene la vedete in questi due elementi, «the house is beautiful» e «la casa è bella», la medesima ragione emessa? Certo che non potete vederla, è sovrasensibile, eppur il sensibile urla che è lì. Ci dice: diversi linguaggi possono definire ugualmente la stessa ragione, similmente a quando 3+2 e 10/2 definiscono con operazioni ed elementi diversi lo stesso 5. Cioè: ciò che possono avere in comune i diversi linguaggi è la ragione che esprimono, mentre rimane propria dei linguaggi la guisa (fonetica, grammatica, etc) con cui esprimerla.

 

2. Pluralità fenomenica dei linguaggi

Il fatto che il linguaggio non alteri la ragione in sé, non esclude che ogni diversa forma linguistica causi fenomeni fisici differenti. Per esempio pensate a come si reagisce differentemente davanti a una canzone cantata in mongolo o in americano, oppure a come cresce differentemente una pianta se le parlate con amorevolezza o con odio, quindi a come la parola sia in grado di costruire. Se n’evince il potere della parola, dell’osservatore, di far collassare la materia in modo che il comportamento-reazioni della stessa siano influenzate da ciò che le viene detto, dall’osservatore, entro i limiti della materia in oggetto, entro i limiti osservato-osservatore.

Pertanto che il linguaggio non alteri la ragione in sé, non significa che alla stessa ragione non si possa reagire diversamente, benché essa resti la medesima; similmente a quando sotto la stessa legge di gravità, in dati ambienti, ci sono corpi che cadono più velocemente di altri, o come alla stessa ragione “mi piace il mare” si possa reagire con l’essere d’accordo, in disaccordo etc.

Vediamo questo confronto fra forme linguistiche diverse di una stessa ragione:

  • Poesia: Soldati
    (di G. Ungaretti)
    Si sta come
    d’autunno
    sugli alberi
    le foglie.
  • Prosa: i soldati cadono con la stessa facilità con cui cadono le foglie d’autunno dagli alberi.

È evidente come la capacità evocativa della poesia di Ungaretti abbia un trascinamento soggettivo di tutt’altra mole in confronto a quello della prosa, pur descrivendo lo stesso oggetto. Riconosciamo così, in maniera esplicita e rigorosa, che la forma con cui si esprime un contenuto ne cambia il risultato fenomenico dando vita a mondi diversi, benché sorretti sulla stessa ragione. Per questa stessa ragione non cambia l’oggetto di riferimento dei diversi linguaggi che difatti rimane lo stesso riferimento per tutti, quello stesso riferimento per il quale può avvenire un discorso pubblico o per cui diversi linguaggi possono tradursi: la ragione in sé comunicata.

[2] Ogni differente linguaggio descrive le medesime ragioni attraverso forme differenti, da cui pensieri e percezioni mossi diversamente, per quanto forme equivalenti o complementari fra loro su quella stessa ragione.

Pertanto ogni diverso linguaggio, per le diverse guise (fonetiche, grammaticali, etc) che gli sono proprie, evoca e si muove più opportunamente in certe direzioni e con certe sintesi piuttosto che altre, ossia ha modi differenti di percepire e pensare; o come faceva notare Jakobson, la lingua di un popolo ne influenza i valori e giudizi  (es. in tedesco la parola “ponte” è femminile e suscita caratteri tipicamente femminili, come dolce, elegante, aggraziato, mentre in spagnolo “ponte” è maschile è suscita caratteri tipicamente maschili). E così diciamo: ogni linguaggio è metaforicamente una terra, con la sua particolare radioattività e ambiente, capace di plasmare il linguista e favorire lo sviluppo di alcune parole. Più in generale: l’ambiente favorisce lo sviluppo di alcune parole (come in un mondo senza sassi, che motivo avrebbero di avere la parola “sasso” se non come immaginazione al pari del nostro “unicorno”?). E così pedagogicamente ci invitiamo: sia dato conoscere più lingue, contaminarsi con modi diversi di muovere il pensiero e il sentire; anche se si parla di modi diversi di muoversi sulla stessa ragione.

In questo senso non riteniamo che il linguaggio ordinario sia uno strumento vago e ingannevole, ma che vago e ingannevole sia chi non ne ha una profonda comprensione e lo usa in maniera imprecisa; che l’ambiguità linguistica non sta nello strumento ma nello strumentista o nell’auditorio; che la precisione del linguaggio simbolico può replicarsi nel linguaggio ordinario chiarendo il significato delle parole utilizzate, cioè che ogni linguaggio soggetto-predicato può essere formalizzato universalmente senza venir meno alla sua ordinarietà (es. per ogni soggetto S e predicato P si ha logicamente P(S) – cfr. unificazione logica 2019).

 

3. Senso del linguaggio

Abbiamo appena detto che l’inglese house e l’italiano casa hanno lo stesso riferimento, si riferiscono allo stesso oggetto, alla stessa ragione indipendentemente dal linguaggio:

[3] La ragione espressa è il riferimento per cui i diversi linguaggi possono tradursi fra loro o per cui può avvenire un discorso pubblico, è l’oggetto comune dei diversi linguaggi, ciò tramite cui ci si può comprendere, anche sotto linguaggi fenomenici distinti.

Altrimenti come si spiegherebbe una traduzione/comunicazione fra due se non ci fosse un terzo su cui scambiarli? Questo terzo di paragone è la ragione in sé che i diversi linguaggi esprimono. Quella ragione espressa attraverso il linguaggio anche quando si parla di sentimenti puri: di ogni cosa ne raccontiamo le ragioni, poiché ogni parola ha una descrizione, un ordine, una ragione. Diciamolo alla Frege:

[4] Il senso dell’enunciato è la ragione che esso esprime, il medio tramite cui si può comunicare comprendendosi. Dire «quella cosa ha un senso» è riconoscerne le ragioni.

Esattamente Frege, in Über Sinn und Bedeutung, afferma che il senso di un enunciato è il pensiero che esso esprime. Noi invece diciamo che il senso di un enunciato è la ragione che esso esprime. La quale, in quanto ragione, contrariamente al “pensiero” di Frege, è definibile.[2] Più precisamente è definibile come ordine astratto in sé delle cose accessibile solo per via intelligibile.

Tale distanza da Frege non è irrilevante, poiché permette di mantenere l’atto del pensare (astrazione razionale) come attività del pensante, distinguendolo dalla ragione intesa come oggetto di astrazione.

[5] Il pensiero è un astratto della propria mente, è proprio. La ragione in sé è un astratto universale che può essere afferrato, è di tutti.

Oltretutto tale distanza ci evita l’ambiguità di cadere nell’idea che ogni cosa abbia un pensiero, diciamo invece che ogni cosa ha una ragione in sé, il che non suscita la capacità di pensare di tali cose.[3] Altresì ci evita di parlare, come Bernard Bolzano, di «rappresentazioni oggettive» o «proposizioni in sé», là dove:

[6] Ogni pensiero astratto ha il suo linguaggio fenomenico, mentre la ragione in sé non ha manifestazioni, solo delle sue conseguenze fenomeniche.

Fra le quali conseguenze della ragione abbiamo le proposizioni, le rappresentazioni e il particolare linguaggio con cui il proprio o altrui pensiero la esprime:

[7] Noi parliamo delle ragioni in sé delle cose attraverso il particolare linguaggio del nostro pensiero. Il risultato di questa mediazione è il significato, una concatenazione di segni linguistici.

 

4. Significato del linguaggio

Il concetto di ragione in sé come senso della parola, ci permette di trattare anche i casi che il “pensiero” di Frege non è in grado di trattare (limitato agli enunciati assertori e interrogativi), visto che tutti gli enunciati hanno un senso che è la ragione per cui si danno, dagli enunciati assertori a quelli imperativi, interrogativi, ottativi, sino al loro suono e metrica.

[8] Il senso di un enunciato concerne anche le ragioni di forza, metrica e suono con cui viene emesso.

Di conseguenza:

[9] Il significato di un enunciato non è solo ciò che esprime ma anche il modo (forza, metrica, suono) in cui lo esprime.

Di conseguenza:

[10] Parole diverse possono avere «significati uguali» quando esprimono la stessa ragione, cioè significati intercambiabili fra loro in dati contesti (come i sinonimi o le parole di lingue diverse traducibili fra loro), ma non possono avere «significati identici» poiché la esprimono con modi diversi, dove significati uguali fra parole non-identiche non sono intercambiabili all’infinito per ogni contesto.

Anche semplicemente perché, come direbbero i poeti, la sostituibilità assoluta fra due parole è impedita dal fatto che il rapporto «significato-significante e referente extralinguistico» è irripetibile per ogni parola. Ogni enunciato ha così un significato assolutamente irripetibile dipeso dalla concomitanza di questi elementi:

  • La ragione espressa;
  • La forza con cui la si esprime, es. interrogativi;
  • La metrica con cui la si esprime o ritmo/velocità della parola, es. “ancòra” e “àncora” hanno una metrica accentuativa differente che cambia il senso emesso;[4]
  • Il suono con cui la si esprime o colore/sapore della parola, es. “urbano” e “cittadino” sono sinonimi che danno rispettivamente un senso di cupo-sotterraneo e acuto-sopraterraneo.[5]

La ragione espressa è la costante dell’enunciato, mentre la forza, metrica, suono di espressione sono le ragioni che variano a seconda della parola o segno usati. La costanza della «ragione espressa» dà significati uguali, la variabilità del «modo di esprimerla» (forza, metrica, suono) dà significati non identici; dove ciò che è uguale può essere non identico, dove – ripeto – solo ciò che è identico è intercambiabile all’infinito mentre ciò che è uguale è intercambiabile solo in alcuni contesti.

Repetita iuvant: un poeta accuserebbe di cecità chiunque gli dicesse che due sinonimi sono intercambiabili senza nessun risvolto significativo; cieco sarebbe un matematico che dicesse che 2+3 è intercambiabile all’infinito con 12-7, giacché per un calcolatore capace di operare al massimo cinque unità, la prima sequenza è operabile ma no la seconda.

L’“ultimo” elemento importante per il significato della parola è la sua origine o etimologia della parola, la quale ne è il profondo/ancestrale che ne radica il significato.

 

5. Traduzione dei linguaggi

Abbiamo detto che il mondo di cui parliamo ha un senso. Diciamolo alla Quine:

[11] Sia L la raccolta di tutte le lingue ed R la ragione espressa o elemento di traduzione. Per quale che sia il numero di linguaggi e le loro presunte incompatibilità, le ragioni che essi esprimono, laddove le medesime, sono conformi.

Tale conformità è garantita dalla struttura universale del linguaggio, cioè dal fatto che le lingue sono isomorfe poiché hanno principi comuni alla base della loro struttura; tra i quali il fatto che cui tutti i concetti possono essere espressi in tutte le lingue.

Stiamo qui negando la tesi di Quine sulla «indeterminatezza della traduzione», la quale si eleva sulla traduzione fra parole con estensioni (ragioni) diverse (es. una si riferisce al gatto, l’altra al dog), creando così, appunto, l’indeterminatezza della traduzione. Esattamente la sua tesi poggia sull’idea di assenso o dissenso alla traduzione:

[12] Se il linguaggio L1 chiama x l’oggetto O e il linguaggio L2 lo chiama y, allora i differenti linguaggi possono tradurre x e y con lo stesso riferimento O, hanno la stessa estensione, esprimono la medesima ragione in sé.

Se si dà assenso a ciò allora possiamo tradurre, altrimenti no.

Quine afferma che il comportamento di assenso è compatibile con diverse ipotesi, cioè possiamo fare molte ipotesi sulla corretta traduzione di una parola; da cui l’indeterminatezza della traduzione. Allora immaginiamo un bambino che cerca di comprendere la parola dettagli dalla madre, a quale oggetto si riferisce? Al pelo? Al bianco? Al coniglio? A delle orecchie attaccate su una testa di un corpo che cammina a quattro zampe ma può stare anche su due? etc. Anche in questo caso, abbiamo appena visto, l’assenso della madre è compatibile con diverse ipotesi, eppure il bambino ci riesce poi ad apprendere la parola, l’ipotesi più adeguata, attraverso sperimentazioni ed esperienze – sia di tipo fisico (tentativi ed errori), sia di tipo concettuale (comprensioni e intuizioni), cioè passando anche attraverso l’errore, a volte rimanendoci, ma con la possibilità di poter anche distinguere una traduzione[6] errata da una corretta.

Certo che poi, per quanto accurate possano essere le nostre verifiche, rimangono comunque un’infinità di ipotesi di traduzione che non è possibile escludere tutte una a una. Ma eliminate le possibilità principali, le rimanenti sono ipotesi talmente bizzarre e remote da non turbare la correttezza del sistema generale di traduzione; probabilità irrilevanti al “pari” della probabilità quantistica che mi si materializzi un elefante davanti all’auto mentre guido: può capitare ma non capita mai, se non in quel mondo in cui tutti parlano in maniera bizzarra.

Altrettanto certo è che tradurre parole solo dal punto di vista osservativo (cioè dagli stimoli che esse provocano) significa poter attribuire a esse ipotesi di traduzione anche contrastanti l’un l’altra (es. pensate a quante cose provocano lo stimolo “bello”). Cosa che invece non succede laddove le stesse vengono tradotte in conseguenza al medesimo oggetto di riferimento, cioè alla medesima ragione comunicata (es. pensate a come per tutti è bello ciò che piace). Prendiamo ad esempio il nome “rabbit” e la descrizione “parte non staccata di coniglio”: per quanto queste possano essere stimolate dallo stesso oggetto “coniglio”, queste non hanno la stessa estensione, cioè non esprimono la stessa ragione in sé, quindi tradurre l’una per l’altra non è una buona traduzione, poiché non emettono il medesimo riferimento. Assentire alla loro traduzione è, in extrema ratio, come tradurre “ok” con “elefante”, due parole con sensi differenti, e così si perde la determinazione della parola, si sottodetermina il linguaggio, così si giunge alla quiniana indeterminatezza della traduzione, cioè a parlarsi senza capirsi: «It’s piece of cake» dico guardano un rebus,  «ne voglio un pezzo con la panna» mi risponde un italiano.

Riprendiamo quindi la nozione usuale di riferimento specificandola con l’oggetto in sé di tale riferimento:

[13] Se A è una buona traduzione di B, allora A e B hanno lo stesso riferimento, descrivono la stessa ragione.

Ossia: due linguaggi non traducono correttamente la stessa espressione tramite riferimenti diversi, benché sia possibile che alcuni linguaggi usino espressioni sconosciute agli altri[7] o iperonime (espressioni più specifiche incluse nelle espressioni più generali dell’altro)[8] o, ancora, parole intraducibili in altre lingue se non tramite frasi[9].

Possiamo così dire che la tesi di Quine sull’indeterminatezza della traduzione è un particolare caso di ignoranza del parlante in merito al significato e al riferimento della parola tradotta o appresa, non è ogni caso del linguaggio. Diciamo: ponendo i diversi linguaggi sullo stesso ordine del discorso, la stessa ragione può essere raccontata ugualmente da linguaggi diversi parimente tradotti (es. the house is beautiful = la casa è bella); pur con tutte le differenze soggettive del caso.

 

6. Primato di prossimità fra linguaggio e ragione

Del linguaggio diciamo che rende visibile la ragione, benché il linguaggio non sia la ragione, avendo la sua immagine e suono percepibili mentre l’in sé ne è privo, ma si dice: guardatevi attorno fra tutti i fenomeni, il linguaggio – sia esso pensato, scritto od orale – è l’arte che spiega tramite concatenazioni di logos, è manifestazione di ragioni.

[14] La parola è la più prossima espressione sensibile della ragione sovrasensibile.

Certo si può dire «tutto è linguaggio finché tutto comunica qualcosa e ogni cosa comunica quello che è», ma noi in particolare stiamo parlando del linguaggio verbale, fatto di parole, il quale è una comunicazione propria degli esseri razionali e non di tutti gli esseri.

Studiare il linguaggio è così lo studio dello strumento tramite cui possiamo spiegare sensibilmente quelle ragioni sovrasensibili proprie del logos universale o del proprio personale. È il primo strumento di spiegazione, poiché ogni conoscenza si spiega attraverso linguaggio e simboli. Qui dunque il primato filosofico del linguaggio come mezzo con cui spiegare il sapere. Da cui «il convincimento che una spiegazione filosofica [della ragione in sé] sia conseguibile [anche] attraverso una spiegazione filosofica del linguaggio [fenomenico]» (Dummett, p. 13); o come dice Wittgenstein, una critica del linguaggio.

Con l’aggiunta di quel “anche” alla citazione di Dummett, voglio proprio dire che non esiste uno strumento privilegiato alla conoscenza e che ogni strumento conoscitivo offre sintesi diverse e complementari all’apprendimento, mai totalmente riducibili l’una all’altra; benché ogni conoscenza si spieghi tramite linguaggio, tale per cui, un utilizzo corretto del linguaggio permette una più precisa spiegazione di ciò che si sa o si presume di sapere. Il fatto è però che non di ogni nostra conoscenza noi ne siamo consapevoli, ma anzi, il più delle volte conosciamo cose solo per via istintiva, meccanica o per intuizione, illuminazione, senza essere in grado di spiegarle. Come quando sentiamo che una cosa è così, o funziona così, anche se non sappiamo spiegarlo.

 

7. Forma universale-particolare del linguaggio (cfr. Libertà 2018, Unificazione logica 2019)

Guardate quel cinque. Può essere in portoghese o congolese, di litri d’acqua, in numeri romani o arabi, di ciliegie, esplosioni, dare una sensazione piuttosto che un’altra, provocare reazioni a seconda del ricevente e metteteci tutta la fantasia che potete: maledetto! Non cambia, mi perseguita all’infinito, resta, l’universale, abbattendo i limiti di ogni linguaggio poiché proprio di ogni linguaggio, lo stesso per ogni.

A(B)↔A={B} Se logicamente diversi soggetti B possono predicare diversamente uno stesso oggetto A, allora matematicamente vi è un A che è lo stesso per tutti i B; laddove se B ha la proprietà A allora B appartiene all’universo di A.

Proseguiamo così osservando come non si ha bisogno di uscire dal proprio linguaggio particolare per giungere all’universale se l’universale, come il particolare, è proprio di ogni parola.

 

Note:

[1] Ci si riferisce al noumeno kantiano, il quale però rendiamo accessibile, per via esclusivamente intelligibile, ponendo la sovrasensibile ragione a in sé delle cose. Ciò non esclude in alcun modo la verità dei fenomeni, anzi, ne garantisce più accurata conoscenza.

[2] Non stiamo dicendo che il pensiero non sia definibile, bensì che il “pensiero” inteso alla Frege è indefinibile.

[3] Frege fa una lunga dissertazione per spiegare cosa sia il “pensiero” di un enunciato, appunto anche per evitare di cadere nell’ambiguità di dire che le cose pensano.

[4] Per quanto non abbia trovato studi appropriati in merito, che il significato cambi a seconda della metrica usata è intuibile chiedendo a un poeta che senso voleva dare al suo verso impostandolo su quella metrica e non l’altra.

[5] Nell’articolo Sound-meaning association biases evidenced across thounsands of languages (di Damián E. Blasi, Søren Wichmann, Harald Hammarström, Peter F. Stadler, Morten H. Cristiansen) pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences, si mette in evidenza come il rapporto suono-significato non è puramente arbitrario, ma vi è una statistica relazione fra suono emesso e aspetto descritto.

[6] Sembrerebbe che il processo di apprendimento della parola nell’infanzia abbia delle affinità col processo di traduzione linguistica: in entrambi i casi il soggetto acquista parole da lingue estranee; con la differenza che nella traduzione si è davanti al rapporto fra linguaggi differenti, mentre nel primo apprendimento della parola nell’infanzia, si è davanti alla creazione di un linguaggio. Per queste similitudini, senza cancellare le differenze specifiche, mi sono permesso di usare il caso di apprendimento per esemplificare il caso di traduzione.

[7] Immaginate un mondo di alieni in cui ci fosse un elemento completamente diverso da tutti quelli presenti sulla nostra Terra, lì avrebbero un’espressione a noi ignota.

[8] La lingua groenlandese usa parole più specifiche per definire ciò che gli italiani includono nella sola parola “neve”: qanik (neve nell’aria) e aput (neve per terra).

[9] La parola inglese “ground”, puntualizza Rossella Frabbrichesi Leo, indica letteralmente la superficie, l’area, il terreno, lo sfondo, ma anche in senso plurale e figurato i motivi, le ragioni, le cause. Il suo senso generale è dunque «superficie di sfondo su cui si basano ragioni e “rispetti” interpretativi». In italiano non esiste alcuna parola di pari significato, tale per cui la sua corretta traduzione si compie non tramite una corrispettiva parola bensì una frase.

 

[Clicca qui per leggere la seconda parte]

 

Bibliografia di riferimento

V.J. Ceravolo, Mondo. Strutture portanti. Dio, conoscenza, essere, ed. Il Prato, collana I Cento Talleri, Saonara (PD) 2016.

ID. Dieci argomenti di filosofia, in «Filosofia e nuovi sentieri» il 16 luglio 2017.

ID. Libertà, ed. IF Press, collana Theoretical Philosophy, Roma 2018.

ID. Unificazione generale della logica, classica e non-classica, in «Filosofia e nuovi sentieri» il 14 aprile 2019.

M. Dummett, Origini della filosofia analitica, ed. Einaudi, Torino 2001.

U. Eco, Kant e l’ornitorinco, ed. Bompiani, Milano 1997.

S. Kripke, Nome e necessità, ed. Boringhieri, Torino 2010.

L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, ed. Enaudi, Torino 2017.

 

Vito J. Ceravolo, classe 1978, è ricercatore indipendente nell’ambito dell’accessibilità intellegibile all’in sé e percettiva al fenomeno. Fra le sue pubblicazioni: Mondo. Strutture portanti. Dio, conoscenza ed essere, ed. Il Prato, collana I Cento Talleri, Saonara 2016 (secondo al Premio Nazionale di Filosofia 2017, Certaldo); Libertà, ed. If Press, collana TheoreticalPhilosophy, Roma 2018. Diversi anche gli articoli pubblicati presso riviste e radunati presso il suo blog.

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