> di Davide Molinari
I motivi di interesse per il testo Xenofeminism di Helen Hester sono molteplici. Questo libro contiene una personale elaborazione dell’autrice rispetto ai temi contenuti ne Manifesto Xenofemminista, uscito nel 2015 a cura del Collettivo Laboria Kuboniks del quale Heaster è una dei membri. In primo luogo quindi si tratta di un lavoro di chiarimento, puntualizzazione e completamento di questo progetto passato. Questa impostazione che si trova a metà strada tra il divulgativo, il didattico e il polemico risulta coinvolgente non solo per la chiarezza dell’esposizione, ottenuta grazie a esempi concreti sui quali si poggia l’analisi, ma anche per riferimenti ad altre autrici puntualmente citate con le quali (o contro cui) si sviluppa l’analisi. Questo permette al lettore non esperto dei mondi femministi tanto di avere tanto un abbozzo di quadro generale della situazione teorica attuale, come una chiara esposizione dei punti che l’autrice vede come salienti della propria teoria Xenofemminista.
Le direttrici che sviluppano l’analisi contenuta nel libro colgono e interpretano gli aspetti per i quali i femminismi hanno nel mondo contemporaneo un’importanza capitale tanto teorica come pratica. Preferisco usare la forma plurale femminismi al posto di ricondurre le diverse interpretazioni della teoria di genere a diverse forme di un solo femminismo per diverse ragioni. In primo luogo per non fare un torto alla centralità attribuita alla complessità dal pensiero dell’autrice che si pone l’obiettivo di costruire, citando Laboria Kuboniks, una «politica senza l’infezione della purezza» (H. Hester, Xenofeminism, Polity Press, Cambridge, 2018, p. 1, trad. mia). Non sarebbe quindi corretto comprimere tutte le interpretazioni della teoria di genere sotto la definizione di femminismo senza dar loro autonomia alcuna. In secondo luogo preferisco usare il sostantivo al plurale per sottolineare gli sviluppi tanto teorici come pratici diversi e a volte confliggenti che queste teorie hanno vissuto. Mettendo al centro del proprio discorso contemporaneamente la dimensione pratico-politica propria della materialità dell’uso sociale di determinate teorie e oggetti e al contempo utilizzando come argomento di inflessione della teorizzazione il momento della riproduzione, in questo libro, Hester coniuga felicemente l’importanza assunta dai femminismi tanto nella loro dimensione di rivendicazione sociale, di teoria attiva che agisce e che si alimenta per la propria analisi di pratiche reali nella società, come l’aspetto centrale e grazie al quale queste teorie riescono ad essere così teoricamente vive e vivaci: l’analisi della riproduzione. Prima di addentrarci nell’esposizione che Hester fa della propria posizione, conviene soffermarsi un momento sul significato di questa coniugazione. La riproduzione è presa come il punto centrale dell’analisi teorica e al contempo come momento di verifica pratico di questa, è quindi contemporaneamente l’impianto teorico sul quale si regge l’analisi e la lente attraverso la quale questa analisi si verifica nel campo materiale delle pratiche sociali messe in campo da soggetti marginalizzati. Questa lettura, e questo, sì, è un elemento comune dei femminismi, mettendo al centro della propria analisi il momento della riproduzione nelle sue diverse manifestazioni e rendendolo produttivo in sé stesso facendogli assumere il duplice ruolo di teoria e di pratica, lo sdoppia, manifestando su carta la schizofrenia della società contemporanea. Il mondo occidentale, inteso non come unità, ma analizzato a partire dai suoi confini, dai suoi esclusi, dai partigiani che, ostinatamente attaccati alla propria comunità, mettono a nudo la menzogna del suo progetto ecumenico, è studiato a partire da quell’aspetto, iperesposto e scandaloso che è la riproduzione. Se a livello esplicito la produzione continua ad essere il mantra e l’obiettivo unico da raggiungere, il focus dei femminismi sulla riproduzione e la loro coniugazione di questa in elementi pratici, mostra come in realtà il re sia nudo. Non è la produzione ciò su cui si regge il mondo e il pensiero occidentale, ma la riproduzione, non è un caso che la crisi economica come elemento di governamentalità della vita sia diretta dal momento riproduttivo e speculativo per eccellenza dell’economia capitalista: la borsa. Ma se la narrazione ufficiale persiste nella sua litania produttivista, l’iperesposizione, quella sì, produttiva, del momento riproduttivo mostra la falsità della pretesa centralità della produzione. Se è possibile produrre solo attraverso la riproduzione (l’industria del sesso in questo caso è un esempio calzante) che è iperesposta e al tempo stesso negata nella sua dimensione costituente, allora capiamo perché i femminismi hanno un così forte successo: sono le uniche teorie che riescono a dire che il re è nudo, che riescono a puntare il dito sulla schizofrenia del nostro mondo, che riescono a girare il coltello nella piaga invece di tagliare il capello in quattro.
Il libro di Hester quindi, partendo dall’analisi di figure e pratiche escluse dalla società, di pratiche contro, di controutilizzi di dispositivi e apparati governamentali, ha il grande merito di indicare il problema del nostro tempo. La dialettica che istituisce fra teoria e pratica riproduttiva vede la prima al servizio, e come strumento di analisi etica più o meno normativa e critica, della seconda. In questo libro il lettore si troverà di fronte al tentativo di analizzare e di creare, vista la dimensione intrinsecamente etica e pratica della filosofia di Hester, nel campo riproduttivo un nuovo modo, non geografico ma sociale, di quella che Mezzadra e Nielsen in Border as a method, or the multiplication of labour chiamano «fabrica mundi», ossia la creazione di ontologie a partire da pratiche nei, e teorizzazioni sui, confini. È sulla possibilità di contro-creazione di saperi e pratiche manifestata nell’operato di discorsi e azioni di soggetti che si trovano ai confini della società occidentale che Hester focalizza la sua analisi con il fine di implementare questa dimensione controproduttiva rafforzandola con delle direttrici teoriche che a loro volta dipendono dalla materialità dell’agire. È un orizzonte (ri)produttivo quello che il lettore troverà in Xenofemminismo, un orizzonte che nel nostro tempo è, che lo si voglia o no, quello capace di comprendere la maggioranza dei punti di tensione della nostra società.
Nella personale interpretazione dell’autrice lo Xenofemminismo ha il compito di «sviluppare delle visioni del futuro che non siano basate né sulla prescrizione né sulla proscrizione della riproduzione biologica umana» (Ibid. p. 4, trad. mia). È chiaro quindi sin dalle prime battute del testo che l’intento dell’autrice è pratico-politico, l’orizzonte della creazione teorica è l’azione per la costruzione del futuro, è un intento cosciente di fabbricazione del mondo attraverso l’analisi della riproduzione tanto biologica come sociale. Le direttrici teoriche lungo le quali il discorso si articola sono individuate nel tecnomaterialismo, nell’anti-naturalismo e nall’abolizionismo del genere, nozioni esplicitate nel primo capitolo. Successivamente l’autrice si concentra su una possibile forma che la teoria xenofemminista può assumere nella sua dimensione politica: la pratica della Xeno-ospitalità, questa posizione emerge in contrapposizione a, e attraverso un confronto con, le tendenze ecologiste che centrano la loro azione nella figura del “Figlio”. Nel terzo capitolo sono tracciate linee di continuità tra il movimento femminista degli anni ’70 e lo Xenofemminismo, «non per innalzarlo [il primo] come un modello ideale, ma per identificare alcune possibilità contenute in alcune sue traiettorie» (ibid. trad. mia).
Il tecnomaterialismo è «un tentativo di articolare una politica di genere adatta a un’era di globalità, complessità e tecnologia» (ivi, p. 7 trad. mia) ed è altresì un modo per ritornare a vedere il reale come un’unità e a farne un campo d’azione, un antidoto alla frammentazione; se l’accelerazione del mondo contemporaneo attraverso la centralità della tecnologia e della comunicazione induce a interpretare l’ambiente come un insieme di segni incomprensibili e di luoghi non abitabili, asettici, di« displaces» come li chiama S. Lindberg (G. Tsagdis, S. Lindberg (a cura di), S. Lindberg, Technics of Space, Place and Displace, Azimuth, V (2017), nr. 10, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2017, pp. 27-44.), il tecnomaterialismo ha il fine di controutilizzare gli strumenti stessi di questa alienazione. Le tecnologie che, creando le relazioni sociali dominanti nel mondo contemporaneo, costruiscono una realtà non vivibile, sono messe in questione dal tecnomaterialismo che, considerandole come parte integrante tanto dell’ambiente come dell’io, punta il dito verso la loro non neutralità e al contempo concentra l’attenzione sulla conseguente possibilità di sviluppare tecnologie alternative. Le tecnologia è sì vista come alienante, ma al contempo è considerata da una parte come un modo delle pratiche dell’uomo nei confronti della natura e dall’altra come base di partenza per un suo ripensamento e uso alternativo rispetto a quello “legittimo”. Il tecnomaterialismo si pone in relazione quindi con le strutture di oppressione profonde e al contempo manifeste della nostra società; analizzando la tecnologia da un punto di vista sia pratico sia epistemologico, la vede come mezzo di (ri)produzione nel suo duplice aspetto di oggetto prodotto da qualcuno (tendenzialmente da un soggetto povero e periferico tanto geograficamente come socialmente) e modo orientato di produzione di soggettività attraverso il suo carattere scientifico. Il tecnomaterialismo si occupa quindi dell’impatto sociale oppressivo che le tecnologie hanno nei confronti dei soggetti esclusi tentando di coniugarlo, e non di rifiutarlo, attraverso un’azione pratica, basandosi sul suo mal utilizzato ma pur sempre presente potenziale trasformativo del reale.
L’anti-naturalismo è un complemento del tecnomaterialismo. La natura, ormai indissolubilmente legata alla tecnologia, è definita “non come rinforzo essenzializzante per l’incorporazione e l’ecologia ma come uno spazio tecnologizzato di conflitti che indirizza l’esperienza vissuta”. Essendo attraversata e formata dalla tecnologia, la natura non può essere vista come fissa e come limite irremovibile che determina le possibilità di azione umane, anzi Hester sostiene che intendere la natura in senso essenzialista, come farebbero le ecofemministe, è scorretto in quanto legittima e fondamenta come irremovibile la condizione riproduttiva (delle donne). Se l’obiettivo dello Xenofemminismo è, con le parole di Firestone, «liberarsi dalla tirannia della riproduzione con ogni mezzo possibile» (H. Hester, Op. Cit, p. 14, trad.mia), allora la visione della natura come baluardo contro il capitalismo e la tecnologia e come modello di rapporti da preservare deve essere rifiutata. L’anti-naturalismo vede la natura e il naturale come uno spazio di contestazione e prova a oltrepassare il “limite pseudo-teologico” e lo “spazio dell’incontaminabile purezza” del naturale visto come forte risorsa concettuale contro la “differenza radicale”. Al contempo, però, questo anti-naturalismo non afferma la non presenza di un aspetto biologico nella riproduzione, ma considera nocivo il fatto di pensare questo stato riproduttivo come intrinsecamente femminile in quanto biologico perché, a partire dal suo tecnomaterialimo, Hester è convinta che la biologia possa e debba essere cambiata sotto il dettame della giustizia riproduttiva e dell’abolizonismo del genere.
L’abolizionismo del genere è un aspetto che lega fortemente lo Xenofemminismo al transfemminismo. Se le distinzioni biologiche non sono né fisse, né desiderabili in quanto naturali, né definite in sé stesse, ma sono uno spazio della politica, allora tanto le norme come i corpi sono malleabili. L’abolizione del genere si contrappone alle politiche essenzialiste portate avanti in nome di un’identità propria dai collettivi trans (e in generale, marginalizzati) per la propria legittimazione. Ma queste politiche, secondo Hester, legittimano e rinforzano l’idea di un ordine naturale, di una purezza originaria mentre l’abolizione del genere ha l’obiettivo di «costruire una società dove i trattamenti che oggi sono posti sotto la categoria di genere non forniscano più un reticolo per operazioni asimmetriche di potere» (ivi, p. 29, trad. mia). Il modo in cui questo ribaltamento dovrebbe essere realizzato non è attraverso una separazione e definizione di generi stabiliti, ma attraverso una loro moltiplicazione all’interno degli individui che di fatto dovrebbero riconoscere in sé stessi non solo la falsità della dicotomia maschile-femminile, ma anche la contemporanea presenza di innumerevoli altri generi all’interno dell’essere umano (di ogni essere umano). Questo implica tanto il rifiutare le ramificazioni sociali dettate dalla differenza fra maschile e femminile, come quelle dovute ad una presunta identità. Ma il riconoscimento di innumerevoli generi è solo un primo passo per arrivare al «rifiuto di accettare qualsiasi genere come base di significazione stabile» (ivi, p. 31, trad. mia). L’obiettivo è ardito: passare dalla dicotomia normativa attuale, alla moltiplicazione del genere e, infine a una sua abolizione in un modello di “post-scarsità”. Questo, anche formalmente significa passare da due stadi positivi per arrivare ad uno negativo, significa interrompere la catena causale tradizionale per riaffermare, ad un grado più alto, mai visto prima e contemporaneamente ribaltandolo, quello che Sartre vedeva come base dello sviluppo e della lotta umana: la scarsità. In questo passaggio sta la sfida più grande dello Xenofemminismo: ribaltare e controutilizzare il momento negativo della scarsità mettendolo in azione contro il reale e contro la logica stessa della causalità.
Dopo aver descritto le caratteristiche dello Xenofemminismo, Hester lo mette in azione e lo fa innanzitutto contrapponendolo alla figura del Figlio ripresa da Edelman. Questa figura rappresenta la tensione riproduttivista verso il futuro e al contempo la sua propria giustificazione. Inoltre, sul versante restrittivo, agisce come dispositivo di esclusione di quei soggetti che non hanno (o non vogliono avere) possibilità di riproduzione categorizzandoli come esclusi. La figura del Figlio è la naturalizzazione quindi dei rapporti sociali vigenti e così orienta e giustifica l’azione sociale. Questo orientamento verso il futuro però non è solo tipico della prassi egemonica capitalista, ma si esprime anche in quelle teorie che si pretendono liberatrici. L’ecofemminismo ad esempio è spinto verso questo tipo di visione del futuro da una interpretazione essenzialista dell’essere umano e della sua capacità riproduttiva e promuove così i valori del riproduttivismo che propugna la continua riaffermazione dell’uguale. Così i rapporti di subordinazione fra i sessi, che sono naturalizzati attraverso la loro iscrizione in una narrazione mitica: il maschile per la distruzione e il femminile per la creazione, sono preservati e inscritti nello spazio sacro e immutabile del naturale. Il culto del Figlio, sostiene Hester, comporta un processo di priorizzazione delle vite a cui è assegnato un valore in base alla capacità riproduttiva che possiedono. Tutto questo si inscrive in un orizzonte sociale che è quello del capitalocene che, attraverso il diktat del “no future” desunto dall’eterna affermazione dell’uguale, produce quel sentimento che Fisher definisce “realismo capitalista”, ossia l’impossibilità di pensare oltre il capitalismo. In questo contesto lo Xenofemminismo si pone come una teorie queer che tenta una resistenza nel presente, nell’hic et nunc, evitanto di accettare e scivolare dentro le reti del valore riproduttivista. In questo contesto il concetto di xeno-ospitalità prende le mosse dalla proposta portata da Donna J. Haraway che consiste nel prendersi cura e non nel fare bambini, “make kin not babies!”; questo abilita alla creazione di reti di solidarietà extrafamiliari o comunque non necessariamente collegate al privilegio biologico-riproduttivo. La cura, quindi, il concetto principe del rapporto madre-figlio è qui messo in azione in un contesto extrafamiliare ed abilitato, contro-utilizzato, per la creazione di nuove reti relazionali che allarghino il concetto stesso non solo ai parenti ma alla comunità che ci si sceglie che così «ripensa le relazioni esistenti» (ivi, p.57, trad. mia). In questo modo la sfera biologica della riproduzione con le sue conseguenze apparentemente naturali di cura della prole viene mossa verso il terreno dell’azione politica e della riproduzione sociale: la causalità naturale si trasforma in arma politica per il ripensamento e la pratica alternativa del reale che ha il suo centro nell’accoglienza dell’Altro propiziando e facilitando attraverso la xeno-ospitalità i processi di cambiamento sociale. Quello che Hester si sforza di spiegare è «una forma di contro-riproduzione sociale come riproduzione sociale contro la riproduzione del sociale attuale» (ivi, p. 64, trad. mia).
Per spiegare cosa si intende per contro-riproduzione sociale, Hester porta come esempio l’uso che si fece negli USA negli anni ’70 del Del-Em, uno strumento di estrazione mestruale che permette di accorciare i dolori dovuti al ciclo, di controllare in qualche misura la possibilità di rimanere incinta e, dal punto di vista sociale, un modo per contrastare collettivamente la generalizzata cultura cultura della vergogna verso i fluidi corporei e la riproduzione. Questo strumento, per l’uso che ne viene fatto rappresenta un esempio del contro-utlizzo che lo Xenofemminismo propone nei confronti delle tecnologie. La tecnologia quindi si trasforma in tecnologia xenofemminista in vari modi. Per la sua natura “clandestina” che permetteva di evitare i controlli medici stigmatizzanti ufficiali alle donne che desideravano avere un aborto e al contempo per la possibilità che fornisce di circumnavigare il parere degli esperti, visto, questo, come una condizione dell’instaurazione del capitalismo globale. Questo primo aspetto consiste, e l’autrice porta altri esempi come l’uso dei Creative Commons su internet o l’uso senza prescrizione di testosterone nei processi di cambio di sesso, nell’uso di vecchi mezzi per nuovi scopi. Questo si traduce in quello che l’autrice chiama “Circumnavigation of gatekeepers”.
La tecnologia si può convertire in xenofemminista come consguenza del suo stato di strumento di contro-utilizzo, di risignificazione che, necessariamente, richiede la pratica da parte di una comunità che attraverso di esso si forma in nuovi modi di connessione con se stessa e con l’esterno. La scelta di brevettare questo strumento non fu fatta per un guadagno personale, ma per garantirne la possibilità di diffusione, la sua struttura non fu realizzata in modo complesso non per ignoranza, ma per permetterne la costruzione casalinga. Questo è quello che l’autrice chiama “repourposing”.
Per la sua immersione in discorsi di scalabilità, il Del-Em ha la possibilità, con la sua natura di strumento politico di controllo della riproduzione, di fare da tramite fra le micro-istanze per esempio di un gruppo di autoaiuto e le macro-problematiche politiche politicho-sociali della sfera riproduttiva generale. Questa duttilità si manifesta nell’applicazione di protocolli a questo strumento che hanno lo scopo di adattarlo alla condizione pratica nel quale lo si usa. In questo caso un dispositivo tecnologico si trova nella posizione di poter intervenire nel campo del mesopolitico inteso come spazio relazionale materiale che congiunge la micropolitica e la macropolitica. Questo spazio mesopolitico non è facile da teorizzare, sostiene l’autrice stessa, che per questo ne porta un esempio: lo spostamento dei protocolli dal gruppo chiuso, poi il loro allargamento, attraverso un dibattito, allo spazio pubblico e successivamente nella federazione di vari gruppi nella società. In questo senso i concetto di scalabilità riflette la necessità di un approccio olistico alla riproduzione. Il concetto di “scalability” definisce quindi la possibilità e la necessità di reinventare continuamente una normatività elastica per l’allargamento delle alleanze e delle pratiche sociali della tecnologia xenofemminista.
L’ultimo aspetto sono le applicazioni trasversali: la riproduzione e gli strumenti che ad essa attengono, riflettendo l’aspetto olistico della teoria xenofemminista, si posizionano non solo contro il problema della limitazione dell’aborto, ma contro tutto il sistema sanitario in quanto ne mettono in luce gli aspetti socialmente inaccettabili di stigmatizzazione e di fratture di classe, e così, occupandosi di un problema comune, fungono da collante per vari soggetti appartenenti a settori sociali tradizionalmente separati: bianchi, neri, etero, Cis, LGBTQIA* ecc. In più, in seguito alla visione forte dell’etica che propugna l’autrice, le possibilità di espansione della mobilitazione attraverso l’azione collettiva basata su di uno strumento che con il suo utilizzo e la sua natura si presenta come catalizzatore sono praticamente infinite; le prospettive di creazione di coalizioni sociali per creare una sorta di gramsciana egemonia culturale si aprono parallelamente all’azione teorico-pratica fondata sulla tecnologia stessa e sulla comprensione ampia della riproduzione. Questo è quello che l’autrice chiama “intersectional applications”.
È indubbio che in questo libro si percepisca la tensione produttiva che lega queste «figlie disobbedienti di Haraway» (ivi, p. 20, trad. mia) alla loro “madre”. Il filo che lega Hester ad Haraway è chiaramente leggibile nell’azione di risposta della prima agli interrogativi che la seconda pose nel suo Manifesto Cyborg. Se Haraway ci incoraggia, fra le altre cose, «a ripensare la soggettività femminista in termini di processo, complessità e di rapporto costante, complesso ma produttivo con le tecnologie» (Donna. J. Haraway, Manifesto cyborg, Feltrinelli, Milano, 2018, p. 22), Xenofemminismo è un brillante tentativo di riprendere e sviluppare questa linea di pensiero. Lo scopo e la prospettiva che il lettore troverà in questo libro sono quelli «non solo di riconfigurare specifici corpi e soggettività, ma anche le ampie formazioni istituzionali del mondo tecnomateriale (…) per una lotta antirazzista, antimperialista e anticapitalista» (H. Hester, Op cit. p. 147.) pensando mesopoliticamente e cercando coalizioni sociali. In queste poche pagine si trova una sfida al pensiero contemporaneo e, cosa rara di questi tempi, una proposta articolata a partire dai punti di tensione della società. Per questo si po’ essere o meno d’accordo con Heaster e lo Xenofemminismo; leggere questo libro darà una boccata d’ossigeno al lettore che poi potrà decidere se usare quell’aria per approvare o criticare, ma intanto avrà, almeno per qualche tempo, i polmoni pieni nonostante l’imperante atmosfera soffocante.
Davide Molinari
Helen Hester, Xenofemminismo, ed. Produzioni Nero, 2018.