> di Piero Borzini*
La filosofia è molte cose e può essere considerata da molti punti vista. Qui, vorrei restringere il concetto di filosofia al suo ruolo di strumento pratico per dare un senso al mondo e alla nostra posizione nel mondo. Ma anche restringendo la filosofia al mero ruolo strumentale troppe questioni rimangono aperte, troppe risposte restano vaghe. Limitiamoci quindi a dire che, sul piano concettuale, la filosofia ci può offrire quei punti di riferimento normativi e morali che ci aiutano a collocare noi stessi e le nostre emozioni in un quadro di riferimento fatto di relazioni a cui si può complessivamente dare il nome di “vita” o di “esistenza”. Dalla filosofia-strumento ci attendiamo un quadro di riferimento chiaro in ogni aspetto valoriale all’interno del quale possiamo collocare in modo razionale e coerente le nostre scelte, le nostre azioni, i nostri pensieri, le nostre aspirazioni, e via dicendo. Tutto ciò, tuttavia, appare piuttosto rigido: sembra più una mappa toponomastica utile per non perdersi per vie della città semisconosciuta della vita. Un quadro di riferimento troppo rigido potrebbe non essere adatto per muoverci in un mondo in cui le condizioni oggettive e soggettive mutano in continuazione: il quadro di riferimento deve essere elastico quanto basta per offrici un orientamento nelle mutevoli e più disparate situazioni.
Detto questo sulla filosofia come strumento, ci si deve chiedere chi sono i Maestri filosofi che ci forniscono il quadro di riferimento e le scale valoriali per poterci muovere consapevolmente nella vita. Ci sono Maestri, i grandi Filosofi, che costruiscono cattedrali di pensiero, quadri di riferimento onnicomprensivi enormemente complessi e nei quali ogni elemento di pensiero cerca di essere coerente con tutti gli altri. Ci sono altri Maestri che restringono le loro analisi e i loro insegnamenti ad ambiti più ristretti della vita e della morale. Ce ne sono altri ancora che suggeriscono regole e norme – più o meno rigide, più o meno adattabili – da adottare ogniqualvolta si debba fare una scelta.
Tutto questo per dire non solo che la Filosofia è un termine difficile da definire, maneggiare, etichettare, ma anche il termine “Maestro” non è meno difficile da definire, maneggiare, etichettare. Qui, riferendomi ad una recente lettura, attribuirò il termine di Maestro alla Lumaca (il mollusco strisciante, per intenderci), e più precisamente alla chiocciola descritta nel libro di Elisabeth Tova Bailey, Il rumore di una chiocciola che mangia (Marsilio editore, 2018).
Esiste una gran quantità di metafore e di aforismi moraleggianti e filosoficheggianti sulla lumaca, sulla sua lentezza e sulla sua dimora autotrasportata. Oltre a questa filosofia spicciola c’è il precedente letterario di Giovanni Francesco Angelita, il quale scrisse, nel 1607, un saggio intitolato: Della Lumaca e ch’ella sia maestra della vita umana, lodandone le virtù e i suggerimenti filosofici cui essa può condurre affermando, tra l’altro, che «la Chiocciola è di moto tardo, per ammaestrarci che l’esser veloci fa gli uomini inconsiderati e balordi» (Pomi d’Oro. Antonio Braida editore in Recanati 1607: pp. 149-182, visibile in internet all’indirizzo goo.gl/vfLfrh – ultimo accesso 30 marzo 2019).
Ne Il rumore di una chiocciola che mangia, l’autrice descrive la propria drammaticissima situazione di invalidità conseguente a una misteriosa malattia e come, in una situazione così destruente come l’immobilità coatta, essa abbia trovato ragioni forti per continuare a vivere “semplicemente” osservando l’insignificante e minuscola vita di una insignificante e minuscola chiocciola. L’autrice descrive la sua pesante situazione con una tale leggerezza e con tale poesia che c’è davvero da credere la piccola chiocciola sia stata per lei un Maestro di Filosofia. Benché contenga dettagliati aspetti di biologia e di storia naturale, quella della Bailey è un’opera narrativa che, quasi ad insaputa dell’autrice, assume i tratti di un conte philosophique, Avendolo interpretato come tale, ne discuto qui attribuendo all’autrice il ruolo del discepolo e alla chiocciola quello di Maestro. Per farlo, mi servo di piccoli frammenti estratti qua e là dall’opera, frammenti nei quali aleggia una “piccola” filosofia che – seguendo proprio gli ammaestramenti provenienti dalla chiocciola – finiscono con trasformarsi in qualcosa di fondamentale importanza.
In apertura, l’autrice cita Rainer Maria Rilke. Nella citazione si recita tra l’altro: «Non cercate risposte che non possono venirvi date perché non le potreste vivere» (Lettere a un giovane poeta, 1929). Poche pagine più in là, l’autrice afferma: «Quando il corpo diventa inutile, la mente continua a correre … inseguendo le solite domande: perché, che cosa e quando, e del loro parente molto alla lontana, il come. La caccia è sfiancante, le risposte vaghe» (p. 21).
Con la malattia, l’autrice ha perso la propria identità fatta di lavoro, attività, movimento, amici, relazioni. Immobile nel letto, prima ancora di cercare una nuova identità (forse perché spera di recuperare presto quella andata perduta) essa si rifugia nella razionalità, come se capire “come, quando e perché” si sia verificato ciò che si è verificato potesse dare un senso alla sua immobilità e alla sua perdita di identità. Il frammento poetico di Rilke mira a tenere a freno la ragione. La razionalità, infatti, governa le nostre azioni quando siamo sani, ma quando siamo malati e la malattia è grave, non solo la ragione non trova risposte e non porta la pace interiore, ma la fatica di cercare con la ragione risposte soddisfacenti può far perdere la ragione stessa.
Nella situazione in cui si trova l’autrice, il fallimento della ragione è a tutto campo e tale fallimento – quello di una ragione che fino ad allora aveva dato senso a tutti gli aspetti della vita – sembra spazzare via il significato stesso della vita: «Avevo creduto di essere indistruttibile ma mi sbagliavo. Ero convinta che se qualcosa fosse andato storto la medicina moderna mi avrebbe guarito, ma anche qui mi sbagliavo … La facilità con cui la salute conferisce alla vita significato e scopo, è sconvolgente con quanta rapidità la malattia possa rubarci queste certezze» (pp. 20-22).
La stessa idea di tempo perde significato. Immobilizzata nel letto, essa vede il tempo fermarsi. Il movimento del corpo (il potere andare da qui a là) e il tempo sono strettamente interconnessi. Se il “là” esce dalle proprie prospettive e il “qui” è l’unica cosa che resta, anche il tempo perde di significato: «Un tempo il futuro mi aveva attratto aprendomi davanti molte strade allettanti, mentre ora mi rimaneva soltanto un unico e impossibile percorso. Quindi, era nel passato, con i suoi ricchissimi strati sedimentari, che la mia mente si spingeva» (p. 27).
Questo è il contesto esperienziale in cui si trova l’autrice prima dell’arrivo del Maestro di Filosofia, la chiocciola. Le era stato portato un mazzolino di violette colte nel bosco vicino all’ospedale e, nascosta sotto le foglie, c’era una piccola chiocciola. La narratrice non si era accorta dell’ospite nascosto tra le violette e aveva fatto mettere il vasetto sul comodino, per sentirne almeno il profumo, per godere del loro colore. Di notte, però, con l’udito forse potenziato dalla malattia e complice il silenzio assoluto nella stanza, l’autrice coglie uno strano debolissimo rumore provenire dalla parte del comodino: il rumore di una chiocciola che mangia. In quel preciso momento, grazie a quella nuova presenza viva, molte cose si ribaltano nel modo di pensare dell’autrice, nelle sue percezioni, nelle sue valorizzazioni. Con la sola sua presenza in movimento (un movimento lento, ovviamente) la chiocciola opera un radicale mutamento nel quadro di riferimento (filosofico, perché no) nella mente della malata. Così, quella presenza inattesa diviene un elemento a cui si può ancorare lo scorrere del tempo. Il tempo e la sopravvivenza cominciano così a recuperare una parvenza di significato: «Il suono minuscolo e intimo della chiocciola che mangiava mi diede una netta sensazione di compagnia e spazio condiviso … Spesso la sopravvivenza dipende da qualcosa di specifico: una relazione, una fede, una speranza in equilibrio sull’orlo delle possibilità. O da qualcosa di più effimero: il modo in cui il sole filtra dal vetro duro … o il vento che è così rumoroso da farsi sentire attraverso le pareti isolanti di una casa» (pp. 28-30).
Grazie alla presenza della chiocciola che di notte sgranocchia foglie, briciole o pezzetti di carta, l’autrice riprende un certo contatto con la razionalità e, data la sua grave situazione, rimane in bilico tra la ragione e il cuore, fra speranze e disperazione, generate entrambe della ragione e dai suoi fallimenti. Citando Edward O. Wilson: «Più l’esplorazione si approfondirà, più essa coinvolgerà una parte maggiore di quanto è vicino al cuore e allo spirito dell’uomo» (Biofilia, 1984) (p. 32), essa afferma che le scoperte scientifiche, oltre al loro ruolo empirico, costituiscono sempre nuovi argomenti per scavare non solo nei meandri della filosofia morale ma anche in quelli dell’animo umano, poiché questa, la filosofia, è strettamente intrecciata con i problemi della vita reale.
Con i suoi movimenti notturni, con il suo vivere “lì accanto”, la chiocciola offre all’autrice un nuovo ancoraggio alla realtà, alle possibilità della ragione e della scienza e, con queste, qualche ventata di speranza, una speranza offerta dalla ragione e dalla ragione stessa respinta, a causa delle brutte esperienze precedenti: «Io quella speranza non l’avevo mai chiesta; non la volevo nemmeno perché era sempre seguita da una delusione» (pp. 35-36). Da Marx, a Ernst Bloch, a innumerevoli teologi cristiani, la speranza è stata coniugata come “forza”, come qualcosa su cui costruire, qualcosa in cui riporre fiducia. La speranza, tuttavia, è una sorta di narrazione in cui si costruiscono eventi futuri tutt’altro che certi, e si guarda a loro come a qualcosa di concreto e raggiungibile. Tuttavia l’esperienza insegna che gran parte delle speranze naufragano sepolte sotto colpi di una forza entropica che distrugge le speranze trasformandole in delusioni, tanto più dolorose quanto più vive erano state le speranze. È per questo che in certi momenti l’autrice rifiuta il salvagente lanciatole dalla chiocciola: preferisce non sperare.
La metafora della lentezza e dei piccoli passi è classicamente associata alla figura della lumaca o della chiocciola che dir si voglia. L’autrice accenna a ciò in alcuni brevi e significativi passi e con appropriate citazioni sull’argomento, la prima delle quali è del medico canadese William Osler (1849-1919): «Non pensare alla quantità di cose da ottenere, alle difficoltà da superare o allo scopo da raggiungere, ma applicati con passione al piccolo compito più prossimo, e lascia che ti basti per una giornata» (p. 39). Una seconda citazione chiama in causa il poeta e pittore giapponese Kobayashi Issa (1763-1828): «Sali sul monte Fuji, o lumaca, ma piano, piano» (p. 149). L’autrice stessa, osservando con pazienza la chiocciola, sembra assorbirne un insegnamento filosofico legato, guarda caso, a una lentezza quasi mistica del movimento: «Osservarla strisciare era una distrazione gradita e mi forniva una specie di meditazione. I miei pensieri spesso frenetici e frustrati gradualmente si calmavano per adattarsi al suo passo lento e regolare. Con il suo movimento lento e scorrevole, la chiocciola era una perfetta maestra di tai chi» (pp. 40-41). L’osservazione della lentezza e dei piccoli passi ribalta completamente la velocità del nostro contemporaneo modo di vivere, una velocità che porta a bruciare le tappe bruciando nel contempo il significato più profondo del godere pienamente la vita. Si tratta di filosofia spicciola o di qualcosa di più profondo? Se si tratti o meno di filosofia spicciola è una domanda priva di senso. Il senso profondo della vita si trova nei dettagli oltre che nelle mete perseguite; si trova nel percorso all’interno del quale ogni singolo passo viene compiuto e ogni singolo attimo di fatica viene vissuto. La meta finale finirà probabilmente con l’essere raggiunta; la vetta della montagna si troverà alla fine sotto i nostri piedi, ma la felicità costituita dai singoli passi compiuti supera l’effimera felicità del raggiungimento della meta perché questa, si sa, costituisce sempre l’inizio di un nuovo percorso. Lentezza e piccoli passi, quindi, sono legati a doppio filo al tema della felicità, entità difficile da definire, ma che costituisce una delle ambizioni principali dell’animo umano. Al tema della felicità, non quella del facile consumo attribuita da Edgar Morin alla velocità e al consumismo contemporaneo ma quella legata agli attimi fuggenti da cogliere e conservare come oggetti preziosi, è oggetto di alcune riflessioni dell’antropologo Marc Augé (Momenti di Felicità, Raffaello Cortina 2017).
La lentezza e il tempo sono entità di inscindibili. Al tema (oggettivo e filosofico al contempo) s’è già accennato poco sopra ma il legame di prossimità tra l’autrice, la sua malattia e il ritmo dettato dalla chiocciola portano spesso in primo piano la questione “tempo” e gli insegnamenti “filosofici” ad essa connessi. Da Emily Dickinson l’autrice trae una citazione più che appropriata riguardante la dimensione relativa del tempo: «La velocità di chi è malato è pari a quella della chiocciola» (Lettera a Charles H. Clark, 1894) (p. 51). E su tale dimensione disorientante del tempo e sul fatto che questo occupi uno “spazio” straordinariamente grande nella sua vita di ammalata, l’autrice afferma: «Il tempo svaniva a colpi di secondi. Ma il rapporto tra il tempo e la chiocciola mi confondeva. Lei si muoveva nel terrario mentre le lancette dell’orologio si spostavano appena, quindi spesso pensavo che viaggiasse più veloce del tempo. Poi, assorbita nell’osservazione, scoprivo che il tempo era passato senza che me ne accorgessi … La malattia me ne aveva concesso una tale abbondanza che il tempo era quasi tutto ciò che avevo» (pp. 51-52).
Cosa ben strana, il tempo: accelera, rallenta, si espande, corre, si blocca, strabocca, scompare. Da fisico e da filosofo, Carlo Rovelli ha pubblicato diversi saggi sulla quasi assurda, volubile, eterea, e quasi inafferrabile e irreale dimensione del tempo. Il fatto è che, qualunque cosa ci sia là fuori a cui si dà il nome di “tempo”, quel che conta per l’uomo – e questo è un tema filosofico – è come egli viva la percezione del “suo” tempo, vale a dire della dimensione temporale con la quale, di volta in volta e nelle più varie situazioni della vita, egli deve fare i conti. La chiocciola (fortunata lei) su questa questione non ha dubbi. Essa si rifiuta di correre. Ma la domanda è: nella sua dubbia consapevolezza e in un tempo che è diverso dal nostro, la chiocciola sa di essere lenta o crede di essere veloce? Nel tempo che appartiene all’uomo il suo vivere appare lento: ma dette percezioni – quella della lentezza e quella del tempo – sono entrambe nostre costruzioni mentali. Come stiano davvero i fatti è difficile dire. Né la fisica né la filosofia ci danno risposte del tutto esaurienti.
Uno dei nuclei centrali della meditazione dell’autrice è l’esistenza, la propria esistenza. In particolare, tutto ruota sul senso da dare alla propria esistenza, dopo che questa è stata sconvolta da una situazione improvvisa che ha sradicato la persona dalla sua rete di relazioni e l’ha scaraventata in un’isola di immobilità e solitudine. Questo tema, che permea l’intera opera, viene reso pubblico in modo esplicito solo in brevi passaggi. Un primo passaggio esplora il fatto che l’esistenza del singolo trova un significato se attorno ad essa ci sono altre esistenze con cui mettersi in relazione. Senza altre esistenze accanto a noi a formare un quadro di riferimento, la stessa domanda sul significato dell’esistenza perde di significato: «La osservavo senza pensare; scrutavo dentro il terrario solo per sentirmi collegata a un’altra creatura. A pochi centimetri da me qualcuno viveva un’altra vita» (p. 48). Affermando “la osservavo senza pensare”, l’autrice lancia uno sguardo su uno dei misteri che collegano il pensiero al linguaggio e viceversa. Solitamente pensiamo usando parole e frasi che forniscono una struttura logica e formale ai pensieri; tuttavia, una certa parte dei nostri pensieri avviene senza parole. Si tratta di un pensiero figurato, fatto di sequenze di immagini e di sensazioni. È una forma di pensiero ancestrale – che condividiamo con gli animali e anche con i bambini in età prelinguistica – il quale prepara il terreno per nuovi pensieri e per nuove consapevolezze. Quanto alla constatazione di “un’altra vita” vissuta a pochi centimetri dall’autrice, questa prossimità di vissuti, per quanto apparentemente indipendenti l’uno dall’altro, fa emergere (si potrebbe dire dal nulla) una rete di relazioni cui agganciarsi e all’interno del quale ricercare il senso della propria esistenza. L’autrice qui sembra voler dire che gli esseri umani, anche i più solitari per scelta o per necessità, in fondo non sono isole, ma alberi. Essi appaiono come entità separate, ma sotto la crosta della terra le loro radici si toccano, si intrecciano, si scambiano informazioni. Questo genera sensazioni e la consapevolezza di non essere soli. L’inconsapevole vita della chiocciola a pochi centimetri da lei crea quella minuscola rete di relazioni cui l’autrice disperatamente si appiglia consapevolmente: «Guardare un’altra creatura vivere la sua vita, in qualche modo ha dato senso anche a me, l’osservatrice. Se la vita contava per la chiocciola e la chiocciola contava per me, voleva dire che anche la mia vita contava qualcosa, così ho continuato a viverla» (pp.158-159). Dalla situazione appena descritta, vale a dire dall’emergenza di una tenue relazione tra una vita probabilmente inconsapevole di sé (quella della chiocciola) e quella consapevole di una persona alla ricerca di nuovi significati per la propria vita, l’autrice trae un’esperienza esistenziale profonda (e ciò si ricollega a contenuti esistenzialistici) che le impone di attribuire ai singoli aspetti della propria esperienza nuovi particolari significati, costruendo ex novo scale di valori o rimaneggiandone di precedenti (ciò ricollegandosi all’ambito delle prospettive costruttiviste). Le variazioni nella scala dei valori modulano profondamente i punti di riferimento del nostro sentire, giungendo a modificare le percezioni, il senso che attribuiamo ai singoli aspetti – anche minimi – della vita quotidiana, i nostri scopi immediati e quelli più a lungo termine, la percezione del nostro esistere nel mondo, la percezione del tempo e il senso che attribuiamo al suo fluire, e altre bazzecole del genere. Tutto questo, in fondo, appartiene alla filosofia perché uno dei principali scopi della filosofia è appunto quello di proporre scale di valori nei quali riconoscersi e che fungano da quadro di riferimento per dare un senso all’esistenza nelle variabili e imprevedibili situazioni che la vita ci impone.
* Piero Borzini (1950), una carriera ospedaliera dedicata all’immunologia, al trapianto, alla terapia rigenerativa. Da una ventina d’anni si dedica ad argomenti all’interfaccia tra scienze biomediche, epistemologia, sociologia, antropologia. Ha pubblicato: Immunologia, evoluzione, pensiero (2009); Diventare umani (2013); William Bateson, l’uomo che inventò la Genetica (2015); Non fare troppe domande (2016). Ha pubblicato articoli per Methodologia-on-line e collabora con saltuari articoli con la rivista PaginaUno. Tiene un blog (doveosanolegalline) dedicato ai rapporti tra scienza e società: https://doveosanolegalline.blogspot.com/.
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7 aprile 2019 alle 08:09
Ho seguito il suggerimento di lettura in wordpress e ho trovato questo prezioso articolo che suggerisce vari approfondimenti di pensiero e soprattutto ricorda quanto sia importante per ogni individuo rientrare nel suo personalissimo ritmo vitale spesso troppo sollecitato da agenti esterni con conseguente alterazione dello stato di salute. Dico questo perchè mi ritrovo molto spesso in estremo disagio fisico e psichico con i miei tempi “biologici” e quelli che mi vengono richiesti. Mi identifico in quella lumaca per natura ma non posso conservarne i tempi e questo è un problema. Grazie per l’articolo per di più stampabile in pdf che sono felice di condividere .
7 aprile 2019 alle 09:06
Uno dei pregi dell’osservazione della chiocciola, con la sua sistematica “lentezza”, e’ cio’ che riconduce l’autrice del libro a cogliere la vita momento per momento, nella consapevolezza della realta’ attimo per attimo.
La’ dove invece la nostra ragione ha l’abitudine a vagare nel passato e nelle innumerevoli ipotesi di futuri possibili, che in ultimo sono la causa dell’ansia e delle frustrazioni di gran parte delle persone della nostra civilta’ occidentale.
Ho detto civilta’ occidentale, proprio per marcare la differenza fra le nostre abitudini mentali, in cui la ragione si impone sempre l’obbligo del “fare” o del “dover fare”; in contrapposizione invece al pensiero filosofico proveniente dall’Oriente: buddismo, Taoismo (per citare solo alcuni esempi) in cui si impone di richiamare l’individuo alla consapevolezza del momento, all’essere della mente nel momento presente, piuttosto che lasciarla vagare nel passato e nel futuro con conseguenze di ansia e stress.
L’autrice, soffermandosi ad ascoltare e osservare la chiocciola nel suo vivere momento per momento, riduce lo stress della sua mente, che vaga continuamente nel passato e nel futuro, fosco quanto improbabile; ed infine ritrova, in questa operazione di consapevolezza del suo essere, un salutare miglioramento del suo stato d’animo, e una nuova ragione di vivere.
7 aprile 2019 alle 15:32
Scritto profondo e particolarmente interessante!
7 aprile 2019 alle 20:38
grato parmi sentire prossimità alla poesia