Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Mohammed Arkoun: l’islam come fatto religioso

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>Alessia Filippazzo*

 

Mohammed Arkoun è stato un pensatore di origini algerine, ma presente negli ambienti intellettuali parigini fin dagli anni ’50 del ‘900. I suoi numerosi e asistematici scritti possiedono un tema di fondo comune che è possibile sintetizzare nell’espressione – adoperata spesso dall’autore stesso – «ripensare l’islam».
La volontà di Arkoun di ripensare la religione islamica, volontà spesso espressa con estrema urgenza, dipende da necessità che si stagliano su diversi fronti e a diversi livelli:
• innanzitutto, un ripensamento di tale religione è indispensabile nelle società islamiche, nelle quali dilagano condizioni sociali e politiche fortemente ideologizzate che limitano non tanto la libertà di pensiero, quanto piuttosto la possibilità di un’analisi che non accetti di limitarsi alla ripetizione o al commento e pretenda di ottenere una qualche risonanza;
• ritornare a riflettere sulla religione islamica significa anche assolvere a un compito, oggi ineludibile, che chiama donne e uomini – intellettuali e non – a fermare l’avanzata dei radicalismi;
• d’altra parte, però, Arkoun sostiene la necessità di ripensare l’islam anche – e forse primariamente – negli spazi occidentali, nei quali non vengono sfruttate tutte le metodologie critiche che gli stessi pensatori europei hanno arduamente determinato e vagliato.
I paesi caratterizzati dalla religione islamica, diversi e molteplici sotto molti punti di vista, vivono condizioni politiche e sociali spesso conflittuali che, secondo Arkoun, derivano dall’imposizione della modernità occidentale nell’epoca del colonialismo. Tale modernità imposta, infatti, ha scardinato credenze, costumi e norme tipiche delle società islamiche, ma non è stata in grado di offrire un modello positivamente condivisibile. Nell’epoca della decolonizzazione tale situazione ha causato una frantumazione di queste società in una serie di posizioni sociali e politiche riassumibili in due gruppi: i simpatizzanti per la modernità occidentale, che auspicavano una mediazione tra i valori europei e quelli propriamente islamici; i conservatori che, per non cedere al dominio culturale moderno, preferivano ritornare all’antico modello islamico. Questa è, secondo Arkoun, una delle cause che ha originato il radicalismo islamico ed è anche uno dei motivi che spinge l’autore ad insistere sulla necessità di un ripensamento della religione islamica anche nello spazio geopolitico occidentale.
Scrive Arkoun:

Da una parte, tutto il personale politico legato al funzionamento dello Stato ha virato verso una gara demagogica basata sul modello islamico, contrapposto al modello occidentale, per evitare qualsiasi ritorno della dominazione coloniale; d’altra parte, le nuove masse […] politicizzate dai discorsi populisti, ma escluse dal potere e anche dal lavoro, s’impadronirono dello stesso modello islamico per radicalizzare la critica degli apparati statali mostrandone l’irrimediabile e originaria illegittimità (Arkoun, 1994, p. 209).

Secondo l’autore, l’insieme dei fattori sopra elencati ha condotto alla costruzione di ciò che egli definisce «Islam essenzialista» (Arkoun, 2014, p. 84) o semplicemente «Islam» con l’iniziale maiuscola, eretto su posizioni teologiche trascendenti, eterne e immutabili.

1. L’Islam essenzialista
Come accennato sopra, Arkoun denuncia l’assenza di un’adeguata analisi critica da parte degli intellettuali occidentali, gli unici in grado di dare inizio a un’opera di demistificazione dell’islam, che sia anche capace di restituire a tale religione il suo effettivo spazio concreto. Secondo l’autore, infatti, i pensatori europei si limitano a considerare la religione islamica come un fatto privato che non entra in gioco nelle dinamiche sociali e politiche e che pertanto rimane – e deve rimanere – inanalizzabile.
A tal proposito egli sostiene che «l’osservatore o il lettore descrittivista crede di mancare l’oggettività dei fatti se introduce le distinzioni richieste dall’analisi critica là dove percepisce solo confusioni e mancanze» (Arkoun, 2014, p. 83).
Ne consegue che le analisi sull’islam il più delle volte non analizzano affatto, ma reiterano concettualizzazioni che confermano lo stato di cose precedentemente già definito.
D’altra parte, però, l’«Islam essenzialista» è anche – e prima di tutto – frutto della costituzione di una «Ragione araba» concepita come «ragione superiore» (Arkoun online, p. 305) fondata sulla Parola di Dio contenuta nel Corano.
A tal proposito, l’autore sottolinea che:

La rivendicazione di una Ragione eterna in armonia prestabilita con un insegnamento rivelato, è sempre stata presente non soltanto nelle differenti scuole di pensiero nell’Islam, ma anche nell’ebraismo e nel cristianesimo. La fede nel dato rivelato conforta, chiarisce e guida la ragione umana che, lasciata a se stessa, non può che errare (Arkoun online, p. 305).

In tal modo la ragione umana si è da un lato sottomessa alla parola di Dio, ma dall’altro lato «la credenza in un’origine divina dell’Intelletto che garantisce il radicamento ontologico delle operazioni della ragione» (ibidem), ha reso la stessa ragione trascendente come quella Parola da cui dipende.
Per tentare di comprendere il modo in cui tale ragione agisce, Arkoun prende come esempio paradigmatico la Risala di al-Shāfiʿī :

nel quadro di un corpus finito e chiuso (il Corano + gli hadith autentici) […] i versetti accumulati sono letti senza alcuna difficoltà linguistica, teologica o storica; sono ritenuti abbastanza chiari (bayan) da non necessitare alcun tipo di esegesi; sono accompagnati da una breve parafrasi per corroborare più che per esplicitare. (Arkoun online, pp. 317-318)

Secondo l’autore, ciò è indizio di una presunta coincidenza tra Ragione e Rivelazione, poiché entrambe create l’una per l’altra dallo stesso Dio. Per questa ragione, il senso ambiguo delle scritture sacre – definito una volta per tutte dall’ortodossia – non è più percepito, mentre si rinforza un «sentimento di trasparenza» (ibidem) che, per Arkoun, indica un oblio della «complessità linguistica, letteraria e semiotica» (ibidem) e che non fa altro che appiattire il «discorso religioso plurivoco sul piano di un letteralismo o di un concettualismo univoco» (ibidem). All’interno di questo ambito chiuso da confini rigidamente stabiliti, qualsiasi studio sui testi sacri non può che limitarsi al commento e cioè appunto alla continua ripetizione di temi già discussi, tramite metodi e termini già trattati.
È ciò che il pensatore franco-algerino definisce con l’espressione «corpus ufficiale chiuso»: esso, costruito dalla tradizione ortodossa, costituisce il limite di un adeguato esercizio dell’immaginazione religiosa che, invece di ricrearsi continuamente, rimane legata ad una costrittiva ripetitività. Inoltre, il sentimento di trasparenza suscitato nel lettore dall’univocità del corpus, non fa altro che perpetuare lo stato di cose, senza lasciare nessuna possibilità di svolgere un lavoro della memoria religiosa attivo e consapevole.
Si è creata così una «ragione fondamentalista» e cioè una ragione che «cessa di estendere l’esame critico dei fondamenti invocati dal sistema cognitivo nella quale essa opera» (Arkoun, 2004, p. 138). Ciò che è in gioco, secondo l’autore, non è soltanto la chiusura in se stessa della teologia islamica, ma – ancor più radicalmente – la stessa identità religiosa di un gruppo o di un individuo che, in tal modo definita, viene sottratta al processo sociale e culturale legato al mutamento storico, cristallizzandosi invece – in maniera definitiva – in una definizione trascendente, immutabile ed eterna.

2. La religione come «fatto religioso»
Per venir fuori da questo stallo, Arkoun propone la seguente soluzione: il ripensamento della religione islamica deve passare attraverso la sua riconcettualizzazione in termini di «fatto religioso» considerato «nelle sue realizzazioni antiche e nelle sue manifestazioni attuali» (Arkoun, 2004, p. 142).
Il punto di vista di Arkoun non coincide con quello del teologo che studia, seppur con più o meno razionalità, i contenuti di fede religiosi: la sua è una prospettiva filosofico-antropologica il cui obiettivo è quello di analizzare il fenomeno religioso in quanto processo culturale che appartiene a un gruppo sociale. L’intento dell’autore non è dunque quello di desacralizzare un contenuto di fede, ma, lasciandolo intatto, restituire all’islam in quanto religione la sua collocazione storica e culturale all’interno di una società. La sua critica non è volta all’analisi della fede religiosa in sé, ai suoi dogmi o ai suoi dettami, ma a come tali elementi, presi singolarmente e insieme, entrino a far parte della vita e dell’identità di un gruppo sociale, in che modo lo compongano e lo strutturino.
Per tali ragioni, Arkoun dichiara di voler trattare la religione islamica tenendo conto del fatto che essa prima di tutto possiede «origini e impatti psicologici» (Arkoun, 2003, p. 35). Con tale espressione l’autore non vuole esprimere l’intenzione di relegare la religione nell’ambito dell’irrazionale né di allontanare da essa qualsiasi pretesa intellettuale, ma di problematizzare il concetto stesso di verità che essa propone, la quale, lungi dall’essere un qualcosa di fattuale e di esperibile concretamente, è piuttosto un messaggio mitico, simbolico e ritualistico, oggetto della facoltà immaginativa prima che di quella strettamente concettuale. Il senso mitico della rivelazione, infatti, risiede nel fatto che la sua verità viene comunicata in termini allegorici e metaforici mai univoci, esposti pertanto ad interpretazioni diverse.
Trattare della religione islamica come di un fatto, pertanto, significa analizzarne la presenza e l’influenza che possiede rispetto alla coscienza, sia essa individuale o collettiva.
La religione è, infatti, prima di tutto fenomeno della coscienza e ciò che i tradizionali tipi di analisi non riescono a focalizzare è il suo peculiare livello psicologico (Arkoun, 2003, p. 35), che viene prima – perché ne sta a fondamento – di ogni disquisizione puramente intellettuale dei concetti e delle norme di fede. Prima di diventare delle teologie normative e/o filosofiche le religioni sono i «mitici, simbolici, ritualistici modi di essere, pensare e conoscere» (Arkoun, 2003, p. 21): esse «danno soluzioni immaginative alle questioni permanenti nella vita umana» (Arkoun, 2003, p. 33). Proponendo miti, eventi extra ordinari e rituali simbolici, infatti, la religione colpisce innanzi tutto la facoltà immaginativa del credente, che si rappresenta primariamente in immagini i contenuti da quella proposti.
Pertanto, dato che «ci sono molti livelli e forme della ragione in interazione con livelli e forme dell’immaginazione, come è mostrato dalla tensione tra logos e muthos, o simbolo e concetto, metafora e realtà, o in senso proprio, ẓāhir e bāṭin nell’Islam» (Arkoun, 2003, p. 24), l’intento di Arkoun non è quello di eliminare qualsiasi approccio strettamente concettuale al fenomeno religioso, ma quello di analizzare prima di tutto il livello psicologico-immaginativo della religione come primo livello di una «critica della ricezione» (Arkoun, 2004 p. 130), nelle sue «origini e incidenze psicologiche» (Arkoun, 2003 p. 35).
Per comprendere meglio la teoria arkouniana è necessario chiamare in causa Paul Ricoeur a cui l’autore deve molto per l’elaborazione del suo pensiero.
Secondo Ricoeur «il fatto non è un avvenimento […], bensì è il contenuto di un enunciato che mira a rappresentarlo» (Ricoeur, 2003, p. 253); esso possiede un carattere proposizionale (Ricoeur, 2003, p. 253) che trasforma l’avvenimento da “fatto” a “il fatto che” qualcosa sia avvenuto, con un conseguente spostamento all’indietro della fattualità: dall’esperienza effettiva del mondo all’ordine del discorso.
Ora, che l’islam diventi da dato di fatto a “il fatto che…” implica che qualcuno possa pronunciare tale frase: il fatto che l’islam esiste, dipende dal fatto che esso rappresenta qualcosa per qualcuno. Il carattere proposizionale del fatto islamico è perfettamente coerente con una teoria che abbia di mira il fenomeno religioso in quanto fenomeno linguistico-culturale e che, inoltre, non si accontenta di prendere in carico gli usi di un concetto e i sistemi di pensiero nei testi già scritti o nei discorsi pronunciati; essa si applica al processo stesso di articolazione del senso per integrarne i quesiti propri ad una critica della ricezione (Arkoun, 2004, pp. 129-130).
Trattare dell’islam come di un fatto significa tentare di demistificarne tanto la presenza assolutizzante nelle società islamiche, quanto permettere agli studiosi occidentali di considerarlo come uno dei fatti che entrano attivamente in gioco nella vita di una comunità. Il ripensamento della religione islamica deve dunque avvenire all’interno di un ambito in cui la religione venga considerata non più soltanto come un dato trascendente, immutabile e assoluto, ma anche come «dimensione universale dell’esistenza umana» (Arkoun, 2003, p. 19).
Ripensare l’islam significa oggi assolvere ad un compito di estrema urgenza e attualità: «si tratta di rifare il lavoro di problematizzazione e di riconcettualizzazione dei fatti religiosi» (Arkoun, 2010, p. 140).

BIBLIOGRAFIA

Mohammed Arkoun, Humanisme et islam, Vrin, Parigi 2014.
Mohammed Arkoun, Islam et modernité, in A. Gresh, Un peril islamiste?, Editions Complexe 1994.

Mohammed Arkoun, La question éthique et juridique dans la pensée islamique, Vrin, Paris 2010.

Mohammed Arkoun, Le concept de raison islamique, documento ad accesso libero nella pagina personale di Mohammed Arkoun,
https://sites.google.com/site/mohammedarkoun/home.

Mohammed Arkoun, Penser l’espace méditerranéen aujourd’hui, in Diogene 2004/2 (n. 206).

Mohammed Arkoun, Rethinking islam today, in Annals of the American Academy of Political and Social Science, Vol. 588, Islam: Enduring Myths and Changing Realities, Luglio 2003.

Paul Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, tr. it. di D. Iannotta, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003.

 

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*Alessia Filippazzo, classe 1991, si è laureata a Palermo in Scienze Filosofiche presentando una tesi magistrale dal titolo Arkoun, la remémoration e un’inconciliabile alterità. Si occupa di ermeneutica e di filosofia delle religioni, con particolare attenzione alle complesse e delicate dinamiche che entrano in gioco nel rapporto tra Oriente e Occidente. Tra le sue pubblicazioni, Occidente e Islam: scontro di civiltà? (in«L’altro – Das Andere – Rivista culturale»).

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