Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Modalità del Tempo. Saggio con quattordici proposizioni.

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Giuseppe Brescia*

Ciò che è, ciò che fu, ciò che sarà” (Omero, Esiodo, Epicuro, Heidegger)

Discorrendo di “Trascendentalità del Tempo”, appaiono  imprescindibili le basi dottrinali  conquistate presso gli antichi Greci e rivisitate nella ermeneutica filosofica della “modernità” (Heidegger, Popper, Teoria fisica e cosmologica contemporanea ). Mi sta in mente il Proemio alla Teogonia di Esiodo (vv. 20-40): «Ma a che tali discorsi sulla quercia e la roccia ? / Orsù, dalle Muse iniziamo, che a padre Zeus / inneggiando col canto rallegrano la mente grande in Olimpo; / dicendo ciò che è, ciò che sarà, ciò che fu, / con voce concorde; e instancabile scorre la voce / dalle loro bocche, dolce» (cfr. il mio capitolo Dolcezza e Giudizio. Oscurità e luce nella ‘Teogonia’ esiodea, pp. 243-247 da I conti con il male. Ontologia e gnoseologia del male, Bari 2015, nella Parte Terza, Limiti alla bestia). La voce delle Muse è “dolce”, prospetticamente tesa a cantare “passato, presente e avvenire”. Le Muse nacquero tutte “a un sol parto”, figlie di ‘Mnemosyne’, la Memoria (indisgiungibile da ‘Lesmosyne’, l’Oblio) e del padre Zeus (vv. 53-65). E il “retto giudizio” di Zeus dà “dolci parole”, “risolve ogni contesa”, “perché è per questo che i re sono saggi, perché alle genti / offese nella assemblea danno riparazione, / facilmente con le dolci parole placandole; / quando giunge come un dio lo rispettano / con dolce reverenza, ed egli splende fra i convenuti” (vv. 80 sgg.). Così:«La dolcezza entra nella struttura costitutiva del giudizio, portato dalla saggezza dei re giusti, in ogni occasione ribadita». E in opposizione anche a “discorsi e ambigui discorsi”, qui si parla di “Contesa odiosa che genera Pena dolente e altri contrasti, Discordie e Inganni” (vv. 226-232).
Martin Heidegger, due millenni dopo, vi allude nelle dense pagine sul Detto di Anassimandro, del 1946, elegantemente accolte negli Holzwege (cfr. Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, Firenze 1968, pp. 322-325). Quivi, infatti, Heidegger cita non Esiodo, ma Omero, per l’inizio della Iliade:«Si alzò nuovamente / Calcante il Testoride, il più saggio di tutti gli àuguri, / che conosceva ciò che è, ciò che sarà, ciò che fu, / e che già aveva condotto dinanzi a Troia le prore achee / per la divinazione donatagli da Febo Apollo».
Sì che, abbiamo: “Divinazione” in Calcante, presso Omero; “Giudizio” (atto di “addolcimento”, e poetico e pratico), presso Esiodo. Codeste sono le forme del sapere in cui agli inizi del pensiero occidentale (Bruno Snell, Max Pohlenz, Werner Jaeger) si dis-tende la dimensione tri-partita, eppure compatta, del Tempo (qui cade il riferimento ermeneutico alla posteriore “Trascendentalità del Tempo”, sulla linea Kant – Carabellese – Bergson – Assunto, che oso pregiare).
Eppure, Heidegger ha in mente Esiodo, dacché invoca Mnemosyne (p. 235 dei citati Sentieri interrotti). «Il sapere custodisce la visione. Esso è memoria dell’esser-presente. Il sapere è la memoria che ha a mente l’essere. Ecco perché Mnemosyne è la madre delle muse. Il sapere non è la scienza in senso moderno. Il sapere è la salvaguardia pensante della verità dell’essere». Heidegger ha bene a mente il passo di Esiodo, a proposito della “madre delle Muse”; non già per la tri-unità trascendentale del Tempo. Per ciò stesso, non esalta Esiodo ( sì bene, solo Omero ), a tale riguardo ( ciò che è, ciò che sarà, ciò che fu ); e nemmeno, come vedremo tra poco, Epicuro.
Attualizzando, con il ‘colpo d’audacia’ della ‘interpretazione’ ( valorizzato da Hans G. Gadamer in Verità e Metodo del 1960), a proposito di Omero, riletto nella “dimensione dello storicismo”, attingo ancora a Popper, per il quale:«le dottrine storicistiche ( olistiche ) non sono peculiari del marxismo. Sono, anzi, le più antiche dottrine del mondo, (..) sostenute anche nei tempi antichi da Platone e, prima di lui, da Eraclito e da Esiodo»; raccogliendo «uno dei più antichi sogni della umanità: il dono della profezia, l’idea che possiamo sapere cosa ci riserva il futuro e avvantaggiarci di tale conoscenza uniformando a essa la nostra idea di condotta» ( cfr. Congetture e confutazioni, trad. it., Bologna 1972, voll. I-II; da Conjectures and Refutations, London 1969, pp. 337-339 ). Esiodo, però, era andato ancora “oltre” ( se così può dirsi ), dal momento che Zeus, proprio lui, è perfino “beffardo”, ma sa – nel contempo – “eterni consigli”. Conosce bene “l’inganno” e, in parte cogliendolo nel cuore, dà principio ad una forma di dialettico combattimento, del dia-leghesthai interiore ( ben chiarisce Livio Sichirollo le origini del termine nella sua Dialettica ); per superarlo, applicando la “giustizia giusta”, il quasi pre-moderno “diritto mite” ( ai vv. 886-887 ). E tutto ciò compie, avendo sposato “Meti”, “che sa più di tutti gli dèi e gli uomini mortali”. Zeus è capace, quindi, di “benignità non ingannatrice”, del “giudizio” come atto di “benignità” o “interpretazione” ( secoli  prima della Porzia Belmonte di William Shakespeare, in fondo la tranese Giustina Rocca ), “jus dicere”, sempre “espresso con sovrana epperò dolce parola nella assemblea”. Così, il “diritto” e i “retti pensieri” riportano la vicenda della “giustizia”, della “pena” o “ammenda” e del “fio” ( per il primo frammento Diels di Anassimandro ), a “ristoro dei mali” ( linee su cui imporrà la propria originale visione, di nuovo, Heidegger ).
Torno, per ciò, al Tempo. Tra le due versioni del “detto di Anassimandro” ( con Nietzsche: “secondo l’ordine del tempo”; con il Diels: “secondo l’ordine stabilito”, nella chiusura ), Heidegger pregia la riduzione e revisione filologica del Burnet, a sua volta incentrata sul neoplatonico Simplicio, che nel 530 d. C. ca. «stese un ampio commentario alla Fisica di Aristotele. In questo commentario Simplicio incluse il testo del detto di Anassimandro, conservandolo così all’Occidente» (Sentieri Interrotti, pp. 299-303). Il testo che abbiamo presentato e tradotto è desunto dal commentario di Simplicio alla Fisica, dove è riferito come un detto di Anassimandro. Ma il commentario non lo cita con la precisione indispensabile alla definizione esatta dell’inizio e della fine del detto di Anassimandro. Ancor oggi eminenti specialisti della lingua greca accettano il testo del detto nella redazione da noi presentata all’inizio. Ma già quel benemerito ed eminente studioso della filosofia greca che risponde al nome di John Burnet – a cui dobbiamo l’edizione oxfordiana di Platone – nella sua opera Le origini della filosofia greca ha fatto ampie riserve sull’inizio del frammento com’è abitualmente ricavato da Simplicio. Contro l’opinione del Diels, Burnet afferma: ‘Diels fa incominciare la citazione effettiva con le parole ex on dè e ghènesis. Ciò è in contrasto con l’uso greco di mischiare la citazione col testo. E’ raro che un autore greco incominci immediatamente con una citazione ( cfr. 2^ ed., 1908 trad. ted., p. 43, nota 4). A causa di queste riserve, Burnet fa incominciare il detto di Anassimandro con le parole katà tò chreòn. In verità la parte del frammento che precede katà tò chreòn è, per costruzione e suono, assai più aristotelica che arcaica. Il medesimo suono tardo è tradito anche dalle parole: katà tèn tou chrònou tàxin, che chiudono il frammento nel testo abituale. Se si segue il Burnet nel rifiutare la prima parte del frammento, non si può più conservarne nemmeno l’ultima. Resterebbe allora come testo originario di Anassimandro soltanto questo:…katà tò chreòn: didònai gàr autà dìken kaì tìsin allèlois tès adikìas. «Secondo la necessità; infatti esse pagano reciprocamente l’ammenda e il fio della loro ingiustizia». Queste d’altronde sono le precise parole nei cui riguardi Teofrasto osserva che Anassimandro parla un linguaggio piuttosto poetico” ( pp. 316-318 ).
L’editore e amico italiano di Martin Heidegger, Pietro Chiodi ( che lavorò alla traduzione di Holzwege a diretto contatto col filosofo tedesco ), annotava accettando ( p. 350 ): “Per la critica del testo cfr. anche Fr. Dirlmeier, Der Satz des Anaximander v. Milet, in “Reinisches Museum fur Philologie”, LXXXVII (1938 ), pp. 376-382. Concordo nella delimitazione del testo, ma non nei motivi”. In effetti, il saggio del 1946 di Heidegger è un precipitato intellettuale di tutte le sue idee topiche della maturità ( il luogo della poesia e dei poeti; il da-sein; il venire all’essere e il dileguare dallo stesso; il nesso Terra-Cielo e il Ge-viert; la interpretazione della ‘volontà di potenza’ di Nietzsche; la falsa antitesi tra ‘essere’ e ‘divenire’ imputata dossograficamente a Parmenide e Eraclito; la critica dello ‘storicismo’; il “rammemorare”, e via ). E s’impone, su tutto, la chiusa epistemologica, ‘ultramoderna’, di supporto etico e antropologico, “destinale”. C’è il primato della “attività”, delle “opere del cuore” coniugate alle “opere dell’occhio”, dell’orientarsi verso il mondo e verso le cose stesse ( sempre nelle direzioni della “Quadratura” e nel rapporto tra mondo “chiuso” e mondo “aperto”, desunto dalla poesia di Rainer Maria Rilke ). Ma la chiusa heideggeriana sorprende per virtù prolettica, dettata settant’anni addietro (1946 ). «L’uomo sta per slanciarsi su tutta la terra e nella sua atmosfera, sta per impadronirsi da usurpatore del regno segreto della natura – ridotto a ‘forze’- e per sottoporre il corso della storia ai piani e ai progetti di una dominazione planetaria. Quest’uomo in rivolta ( probabile allusione al per allora recente libro di Albert Camus ) non è più in grado di dire semplicemente che cosa è ( ist ), di dire che cos’ è che una cosa è. Il tutto dell’ente è divenuto l’unico oggetto di un’unica volontà di conquista. La semplicità dell’essere è sepolta in un oblìo totale. Quale fra i mortali avrà la possibilità di spingersi col pensiero sino nel fondo dell’abisso (Abgrund) di questo sconvolgimento ? Si ha un bel cercare di chiudere gli occhi di fronte a questo abisso. Si possono innalzare paraventi su paraventi. Ma l’abisso resterà sempre lì innanzi. (…) C’è qualche salvezza ? Essa c’è in primo luogo e soltanto se il pericolo è ( ist ). Il pericolo è se l’essere stesso va all’estremo e capovolge l’oblìo che proviene dall’essere stesso. Ma se l’essere, nella sua stessa essenza, man-tenesse l’essenza dell’uomo ? E se l’essenza dell’uomo riposasse nel pensare la verità dell’essere ? Allora il pensiero deve poetare l’enigma dell’essere. Esso porta l’aurora del pensato nella vicinanza di ciò che è da pensarsi» ( p. 348 ). E’ trasparente l’allusione ai progressi della ricerca fisica e cosmologica, delle teorie quantistiche, circa i buchi neri e gli altri infiniti mondi, non a caso preconizzati proprio da Anassimandro, filosofo dell’infinito (Apeiron) e della esistenza spazialmente dis-tesa di altri universi ( ancor prima di Giordano Bruno ), nei frammenti 16-20 Diels; proprio oggi che il pensiero si fa “tecno-scienza” e fantastica di Interstellar ( sulle tracce di Stephen Hawking e Kip Thorne ), o riduce la natura a scrigno di “forze”, protendendosi nella sovrumana ricerca della loro “unificazione”. Tutto ciò forse spiega, tra l’altro, le ‘riserve’ cautelativamente introdotte, a proposito di Heidegger, da Carlo Rovelli nel recente L’ordine del tempo ( Adelphi 2017, pp. 76 e 158-159 ). Ora che in tanti paiono assurti al luogo di ‘neo-anassimandrei’ , mi piace raffrontare l’annunzio di Heidegger ad un’altra critica epistemologica, la critica di Erwin Chargaff , scopritore autentico della doppia elica nella struttura del DNA, allorché nella splendida autobiografia edita il Italia per Garzanti, Il fuoco di Eraclito, avanzava forti riserve sull’abuso di potenza da parte dei ricercatori nello sperimentare e frantumare il “vivente originario”, corpi e genomi e molecole, chiedendosi drammaticamente dove i geni scomposti andrebbero a finire e come avrebbero potuto alterare la catena biologica ( cfr., per questa parte il mio carteggio con Chargaff, buon conoscitore di estetica moderna e della Poesia di Croce, nelle Ipotesi e problemi per una filosofia della natura, Adda, Bari 1987; con il “Wegdenken”. Ricomposizioni su Nietzsche e Heidegger, ivi 1988 ). Raccolgo, così, il saggio in quattordici proposizioni.
1) La differenza tra Omero e Esiodo, in rapporto al Tempo, è che in Esiodo esiste l’ acmé, il momento culminante del tempo della “decisione”; in Omero, nient’affatto, bastando al poeta epico la mera menzione della serie ‘passato-presente-futuro’, in quanto contenuto del vaticinio iniziale di Calcante. In Omero, la citazione del Tempo è, perciò, spaziale, numerica o seriale. In Esiodo, invece, c’è la ‘potenza’ della interpretazione etico-giuridica: per la qual cosa, ‘passato presente e avvenire’ sono  immanenti alla dolcezza delle parole delle Muse e alla dolcezza del retto giudicare di padre Zeus in assemblea, anzi – propriamente – alla “dolcezza”, in quanto “addolcimento”, adeguamento delle fattispecie ai singoli casi umani, nell’ atto del “Giudizio”.
2) In Omero, il Tempo è materia di vaticinio; presso Esiodo, invece, è forma del Giudizio: ‘sorge’, ‘matura’ e ‘si afferma’ in seno all’assemblea, tale da superare perfino il contrasto dialettico interno, lo scambio dei linguaggi e delle parti, l’attrattiva di parole ingannevoli e subdole, grazie all’inervento della sposa Meti, producendo il “ristoro dai mali” e “splendendo” nel successo della “decisione”.
3) Anche in Heidegger, il man-tenimento, che sarebbe etimologicamente dedotto ( secondo il gusto del pensatore, in questo indiretto erede del Vico ) da *Xeir, la ‘mano’, può essere tradotto, o inteso, come la “dolcezza del giudicare”, del “retto giudicare”; dal momento che la bilancia della giustizia postula precisamente un “equilibrio”, un “man-tenimento” appunto, a cui Heidegger non aveva pensato ( pregiando, invece, l’estremo appello “Ormai solo un Dio ci può salvare” ), e che finisce per rientrare in gioco sulle soglie dello “Abisso”, e impegnati dallo sgomento, o “sconvolgimento”, come siamo, di fronte al “pericolo” planetario che esiste, ma proprio perché esiste (per Heidegger ), come kìndunos, al tempo stesso, “ci custodisce”.
4) Solo che le “modalità”, le “funzioni” ( quindi, per questa parte, la critica all’essenzialismo o al nominalismo, che ricorre nelle filosofie del Tempo e delle forme, da Cassirer a Dilthey, o nella epistemologia avvertita di Karl Popper ), sono – ad avviso di chi scrive queste note – da recuperare egregiamente per la “salvezza” della ragione pensante e dei destini dell’umano.
5) Ma le Forme del Tempo, “passato, presente, avvenire”, avvertite alle fonti del pensiero occidentale, sono anche in Epicuro: «ciò che è, ciò che sarà, ciò che fu». Martin Heidegger non cita, sul punto, Epicuro, al frammento X dell’allievo fedele, Metrodoro, del Gnomologio Vaticano. «Ricordati che, pur essendo nato mortale e con un tempo limitato, grazie all’indagine sulla natura sei asceso all’infinito e all’eterno, e hai contemplato ciò che è, ciò che sarà e ciò che fu» ( fr. 37 della ediz. Korte: cfr. il mio La grammatica del Caos, in “Tempo Presente” di Angelo G. Sabatini, n. 420, dicembre 2015, alle pp. 46-50 ).
6) Così abbiamo, in effetti, tre ‘paradigmi originali’ ed ‘originari’ delle forme del Tempo, il tema che ritorna prepotentemente in campo nel dibattito filosofico e scientifico. In Omero, Iliade I, la classica sequenza è la materia del vaticinio di Calcante. Presso Esiodo, nei vv. 20-40 dell’ immensa sua Teogonia, la stessa si sporge come la forma del Giudizio, mercé la insistente categoria della “dolcezza”, prerogativa al canto delle Muse come ristoro dai mali, ma anche alla saggia decisione di padre Zeus: saggia decisione che – conquistata nel tempo e nel dialettico superamento di parole ingannevoli – genera altrettali “dolci parole”, riscuotendo il consenso dell’assemblea, per il “ristoro dai torti” subìti. Invece, in Epicuro, la “previsione”-“colpo d’occhio” su “ciò che è, sarà, fu”, è figura della Teoresi, come ‘indagine sulla natura’, che la sua scuola senza indugio alcuno gli riconosce per la “ascesa all’eterno e all’infinito”. Epicuro, anche, “anassimandreo” o “proto-anassimandreo”, sarebbe tornato utile allo Heidegger, dal momento che, dal suo punto di vista. Giustifica il “secondo necessità”. “Chi afferma che tutto avviene per necessità non ha alcunché da rimproverare a chi nega che tutto avviene per necessità. Infatti, egli afferma che anche ciò avviene per necessità” ( fr. XL del Gnomologia Vaticano ). Come Aristotele nella Fisica, Epicuro legge e traduce: “kat’ anànken”. E al susseguente frammento LIII, alludendo ai tanti propri calunniatori e detrattori, precisa: “Non bisogna portare invidia ad alcuno. Ai buoni, infatti, si farebbe un torto; i malvagi, quanto più hanno buona sorte, tanto più si danneggiano da sé “. Che cos’altro è codesto assioma, se non il “pagamento dell’ammenda e del fio”, nella eterna vicenda della universale “giustizia”, ri-vissuta “katà tò chreòn” ?
7) Ora, in siffatta ricomposizione ermeneutica, il “man-tenimento” heideggeriano va a sua volta “man-tenuto”, ma in un senso diverso, o ulteriore eppur comprensivo, rispetto a quello conferitogli dal filosofo di Messkirch. E cioè le tre accezioni o modalità di “ciò che è, ciò che sarà e ciò che fu” ( con Omero, Esiodo, Epicuro ) vanno comunque e sempre recuperate, mantenute e sollevate più in alto, in una simultanea visione d’insieme, portata nella riflessione della tarda modernità. Inoltre, la riflessione riposa nel Giudizio e per il Giudizio, là dove si incrociano le diverse manifestazioni, o forme, della “dolcezza’, Secondo il ‘man-tenimento’, diventa ora: ‘secondo le espressioni della dolcezza’, ancora “nel senso” ( Vico, Kant ); nella “cura” ( Jung, Heidegger ); nella “lotta” ( Simone Weyl ); nel ritrovato “Giudizio” ( Hannah Arendt ). Queso innesto è nei miei Tempo e idee e a conclusione de I conti con il male ( entrambi, lavori del 2015, cui rinvio ).
8) Forse Heidegger aveva ragione nel reinterpretare, potandolo, il detto di Anassimandro, contro le provocazioni della ricerca cosmologica della sua e nostra generazione. Alla ricerca di una “legalità universale” e di una più vasta e comprensiva ermenetica del “Tempo”, si può chiosare il “Perché non possiamo non dirci anassimandrei” ( H. Diels – W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, 3 voll. Berlin 1951-1952; G. Giannantoni, I Presocratici. Testimonianze e frammenti, 2 voll., Bari 1969-1986, I, pp. 106-107, pel frammento “B.1”; Giovanni Reale, I Presocratici, Bompiani, Milano 2017, pp. 196-202, che mantiene la redazione ‘tradizionale’ di “B.1”; J. Barnes, The Presocratic Philosophers, 2 voll. London 1979; John Burnet, Early Greek Philosophy, London 1930; Theodor Gomperz, Pensatori greci, ed. it., 2 voll., Firenze 1960, vol. I; Werner Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, ed. it., Firenze 1961; Bruno Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, ed. it., Torino 1963, passim; Rodolfo Mondolfo, L’infinito nel pensiero dell’antichità classica, Firenze 1956, Parte Prima; Giorgio Colli, La sapienza greca, Voll. I-III, Milano 1977-1980, al I° vol.; E. Zeller – R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, voll. I-V, Firenze 1932-1969 ).
9) Qui, da ultimo, si chiarisce bene: “L’infinito” è “materia infinita”, non “soggetto” ma “predicato”, un “oggetto cui appartenga la proprietà di esser infinito” ( pp. 135-140 della Parte I ). Si propone la “Eternità e vitalità della materia primordiale” ( pp. 152 sgg.); con la “Unità del mondo; vicenda di formazioni e di distruzioni; i mondi innumerevoli” ( pp. 175 sgg. ) e la “Nota su Anassimandro” ( pp. 187-205 ). Il “Ritorno a Esiodo” e alla sua Teogonia era stato còlto a p. 190 sulle tracce di H. Diels, Ueber Anaximander Kosmologie ( in “Archiv fur Geschichte der Philosophie”, 1897: “Ein Urpoetischer Gedanke”) e del francese Rivaud, Le problème du devenir ( Paris 1890, p. 33: “proche parent du Chaos d’ Hésiode”, è l’ àpeiron di Anassimandro ). La metafisica di Anassimandro: la giustizia cosmica; genesi e significato di questa concezione ( pp. 202 sgg. dello Zeller-Mondolfo ), comprende la analisi di Werner Jaeger: “grande idea di una legalità universale della natura”, o “nozione di una comunità giuridica” ( da Paideia, ed. it., Firenze 1960, I, pp. 219 sgg. ); e dello Stenzel, Metaphysique des Altertum ( pp. 14 sgg., che parla di “metafisica preteoretica” in Anassimandro ). Da ultimo, ma non ultimo, tra l’interpretazione di un “pessimismo mistico” con espiazione nello “annullamento dell’esistenza individuale” ( per Nietzsche, Erwin Rohde, Hermann Ziegler e Theodor Gomperz ) ed il gioco di “litigio tra gli opposti” ( Usener, Diels, Heidel e lo stesso Jaeger ), l’esegesi filosofica moderna pregia la visione comprensiva di John Burnet, onde la “ingiustizia si compie ed espia nei rapporti tra contrari”; ma gli alterni equilibri opposti “si pareggiano solo nello sbocco finale nella unità dell’ àpeiron” (p.10). Zeller e Mondolfo, senza accedere esplicitamente alla filologica delimitazione del testo del detto ( poi rilevata da Martin Heidegger ), chiariscono che: “in Anassimandro l’ adikìa dei contrari nel processo cosmico – tutto svolgentesi ( come ha acutamente notato il Joel ) per via di lotte, sopraffazioni e vendette reciproche, che son continui tentativi di distruzione vicendevole degli opposti – è una violazione incessante della legge del théion athànaton; la cui espiazione e riparazione quindi non può che essere nella comune dissoluzione dei contrari entro l’unità del principio”. “Onde viene la nascita agli esseri, in ciò si compie anche la loro dissoluzione, secondo una legge necessaria”. Aristotele, nella Fisica ( commentata poi da Simplicio, come si è visto ), taduceva chreòn con anànche. Heidegger scommette su “man-tenimento”, da *chéir, -òs. Ma il principio fondamentale, anche in Zeller-Mondolfo,  è ‘depurato’ da inizio e fine del celebrato frammento, come già per Burnet: non c’è “l’ordine del tempo”.
11) Codesto percorso filologico-filosofico-ermeneutico ci riporta all’oggi, ai progressi della indagine circa la “natura”, e le sue “forze”, in fisica teorica ed astrofisica. A proposito del conferimento del Nobel per la Fisica a Kip Thorne e suoi collaboratori, si è potuto osservare: “Un esempio di questo nuovo processo di verifica riguarda la previsione di Einstein secondo cui la velocità delle onde gravitazionali è pari a quella della luce. Questo implica che il gravitone, ovvero la particella mediatrice dell’interazione gravitazionale, ipotizzata ma non ancora scoperta, deve avere massa nulla, come il fotone. (…) Il modello standard descrive i componenti primi della materia e le loro integrazioni. Esso costituisce un quadro ben verificato sperimentalmente con la scoperta delle particelle W, Z e recentemente di quelle di Higgs. Dopo gli sviluppi ottocenteschi che portano all’unificazione di elettricità e magnetismo, il modello sancisce un altro passo in avanti verso la grande unificazione delle forze: costituisce il quadro unificante dell’interazione elettromagnetica con quella debole, responsabile del decadimento radioattivo. Si tratta di una teoria di campo quantistica che include la relatività ristretta e si basa sulla richiesta che il risultato di esperimenti, in cui queste interazioni sono determinanti, non deve dipendere dal luogo e dal tempo in cui si opera. Questo è un principio di simmetria locale ed è il punto di contatto tra il modello standard e la relatività generale di Einstein che descrive le proprietà della gravitazione” ( Giovanni Losurdo e Fulvio Ricci, L’era delle onde gravitazionali, in “Le Scienze”, Ottobre 2017, pp. 30-37; con intervista a Kip Thorne di Giulia Alice Fornaro, Il cacciatore di onde, pp. 38-39: “Probabilmente nei prossimi trent’anni sarà possibile esplorare la nascita dell’universo. Potremo osservare i primissimi momenti del cosmo e la nascita delle quattro forze fondamentali. Si stima per esempio che la forza elettromagnetica sia nata nel primo miliardesimo di secondo del’universo. Vedremo tutto con un discreto grado di sicurezza grazie alle onde gravitazionali generate come prodotto collaterale di queste forze. E potremo studiare altro, come collisioni di buchi neri, buchi neri che distruggono stelle e così via” ).
12) Questo “principio di simmetria locale”, “punto di contatto tra modello standard e relatività generale che descrive le proprietà della gravitazione”, con l’inesausta ricerca della grande unificazione delle quattro forze ai primi battiti dell’universo, riporta al sogno einsteiniano, vissuto a lungo, ma con alterna vicenda epistemica, negli ultimi anni dello scienziato: il “campo tensoriale simmetrico”. Thorne aggiunge ora: le “onde gravitazionali, generate come prodotto collaterale dell’esplosione iniziale di forza elettromagnetica”. – E se la funzione unificante fosse affidata, e così rigorosamente rappresentata, non già al “punto”, “regione”, o “cono di luce”, sì – bene – a forma in “guisa di spirale” ? E se il cosiddetto, e tanto discusso o invocato, “presentismo” fosse concepito in “guisa di spirale” ? Forma “locale” ab initio, ma “temporale”, di crescita su sé medesima, come telos e come sviluppo ( immagine suggestivamente poetica, filosofica e insieme geometrica dello svolgimento e della crescita dell’attività spirituale, prediletta dal genio gnomico di Wolfgang Goethe e ripresa dall’erede ‘non inerte’ Benedetto Croce, a qualificare la propria dottrina della filosofia dello spirito ). Inoltre, la “spirale” presenta l’indubbio vantaggio di potersi dilatare, così riassumendo in sé stessa la figura del “cono”, variamente discussa e valorizzata prima da Eugène Minkowski quindi da Carlo Rovelli e Mauro Dorato. E su di essa si potrebbero simmetricamente, o comunque armoniosamente, distribuire le equazioni delle forze elettromagnetiche e delle onde gravitazionali, a partire dalle origini dell’Universo, man-tenendo l’esigenza di un principio machiano di economia mentale trattato come “principio logico”; e – così –, anche, la formula dell’ultimo Einstein, sopra citata:  Gik = Gki. – C’è bisogno ( dice Einstein, sempre ), di un “intermedio”, un nuovo “intermedio”: ce lo fornisce la filosofia teoretica.
13) Sant’Agostino definisce il presente, come una forma dello “sgranarsi del presente”: nel libro decimo delle Confessioni lo chiarisce, una volta per tutte, come “presente del passato, presente del presente, presente del futuro” ( rispettivamente memoria, intuizione, attesa ). Ma Sant’Agostino sopravvive in Immanuel Kant e Pantaleo Carabellese, di cui abbiamo corretto l’assioma centrale di Critica del concreto come: “in quanto conoscenti, fummo; in quanto senzienti, siamo ricordiamo di essre stati e stiamo per essere; in quanto agenti, saremo” ( v. i miei Il tempo e le forme, 1981; Tempo e Libertà, 1984; Epistemologia ed ermeneutica nel pensiero di Karl Popper, 1986; fino all’ultimo Trascendentalità del Tempo ). Anche questa “guisa del tempo” comprende uno “sgranarsi del presente”, pur se diversamente sfaccettata e modulata. D’altra parte, anche in Che cos’è il tempo di Mauro Dorato, c’è l’esigenza di recuperare un modello di “simmetria”: e la “spirale” può assurgere a modello ‘intermedio’ tra “simmetria” e “simultaneità”, giusta la provvisoria conclusione di Trascendentalità del Tempo. L’apriori ( simultaneità della Analitica trascendentale, e della fisica post-kantiana ) non si può disgiungere ( per così dire ) dall’ aposteriori ( come inclina a fare il citato Mauro Dorato, affidando a Orilia la coeva Filosofia del Tempo, parallelamente edita da Carocci nel 2013 ). La simultaneità è un altro “ordine del tempo” ( di tipo teoretico-trascendentale ); ma lo è anche, o tende ad esserlo in parte, il “presente”, lo “sgranarsi del presente”, secondo una maglia in parte esclusa da Einstein in uno dei suoi tanti luoghi discussivi, ma pur ri-compresa nel primo dei sei modi di salvare il “presentismo”, dipanati nella serrata analisi del Dorato ( la “simultaneità” ). Gli altri modi indulgono alla persistente “spazializzazione del tempo”: come, ad es., accade per il presente “puntiforme”, per il presente – “regione spaziale” tratteggiato da Alexandrov ( modello “Alex”, come riassume il citato Dorato ), o per il presente “cono”, “cono di luce”.
14) Abbiamo, allora, il modello “località” ( Einstein Podolski Rosen, detto “EPR”; il realismo di Franco Selleri e altri; il presentismo come “dimensione puntiforme”; e, in definitiva, “spazio” ). E abbiamo, alternativamente, il modello “simultaneità” ( relatività ristretta; dimensione “apriori”; esperimenti di Bohr, Aspect e Grangier ed altri, a proposito di EPR; in definitiva “tempo”). E’ del tutto evidente che il quadro interpretativo cangia in base ai postulati e all’orizzonte delle aspettative del ricercatore; in base alle sue predilezioni filosofiche e ai “paradigmi” conseguentemente adottati. Noi pregiamo la linea Sant’Agostino – Kant – Bergson – Croce – Carabellese – Assunto; e le categorie della spirale fisica e spirituale di Goethe, delle forme ideali del tempo per Kant, dell’accadimento totale in rapporto ai singoli eventi di Croce, della critica alla spazializzazione del tempo in Bergson, del man-tenimento nell’alterna vicenda dei torti in Heidegger e del man-tenimento nella forma della teoria del Giudizio dagli antichi Greci a Carlo Antoni. E, dunque, il risultato ipotetico-congetturale del quadro epistemologico, alla fine, inevitabilmente, cangia. Ben per questo, nella nuova e audace ipotesi di lavoro, esso si ripone, e provvisoriamente riposa, nella immagine a un tempo locale-temporale della “Spirale”, come proposta di risoluzione della unificazione delle forze fondamentali dell’universo, su cui opportunamente provarsi a “distribuire” le rispettive equazioni matematiche, protendendo lo sguardo sulle “origini del mondo” ( non quello meramente “alchemico” dei “simboli” -si badi –, tuttodì rivisitati da qualche parte; bensì su quello delle “luci” spirituali, il “noi” della nostra mente, audacemente rappresentati nella teoria fisica e cosmologia contemporanea ). Non sappiamo se la “gravitazione” di Rainer Maria Rilke, fittamente postillato da Heidegger, alludesse alla “forza di gravità”. Ma l’immagine del “centro” che la “gravitazione traversa”, intuita dal poeta nelle Spate Gedichte, quando “dal dormiente cade copiosa la pioggia della gravità”, e i versi della Elegia di Duino «Ciò ci forgia, al di fuori della protezione, / un esser sicuro, là dove agisce la gravitazione / delle forze pure», ci sembrano suggestivamente appropriati a raffigurare un emblema della attuale ricerca a proposito del “centro” spiralico o conico, attraversato dalla forza gravitazionale dell’universo; si tratti della “gravitazione fisica di cui si parla abitualmente”, come “copiosa pioggia di gravità”, ovvero del “centro dell’ente nel suo insieme” ( Sentieri interrotti, p. 260 ).

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*Giuseppe Brescia, Presidente della Libera Università “G. B. Vico” di Andria, Preside titolare nei Licei, Medaglia d’oro per i benemeriti della Scuola nel 1990 e Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica, dopo la fase filologica (La poetica di Aristotele e Croce inedito, del 1984), ha espresso un sistema in quattro parti: Antropologia come dialettica delle passioni e prospettiva in due volumi (Bari 1999); Epistemologia come logica dei modi categoriali (2000); Cosmologia come sistema delle scienze di frontiera (1998) e Teoria della tetrade (2002). Ha lavorato all’innesto tra umanesimo storicistico epistemologia ed ermeneutica, dando valore attrattivo ai tempi del “tempo” e della “Lebenswelt“; alle Ipotesi e problemi per una filosofia della natura (1987), L’azione a distanza (1990) e Pascal matematico (1991); alle attualizzazioni dei problemi del male e del sofisma (Critica della ragione sofistica, 1997; Ipotesi su Pico, 2000 e 2011; Il sogno di Castorp e il progetto di Pico, 2002; Il vivente originario. Saggio sullo Schelling, Milano 2013).

 

 

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