Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Cervantes, “esemplare contemporaneo”, Ariosto e l’Italia (1/2)

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> di Giuseppe Brescia*

“Il poeta cristiano Ludovico Ariosto, a cui, se lo trovo qui a parlare in altra lingua che la sua,

non serberò alcun rispetto; ma se parla nel suo idioma, lo tratterò con ogni riguardo”

“E lo stesso accadrà a tutti quelli che vorranno tradurre in altra lingua libri di versi”

(Miguel de Cervantes, Capitolo sesto del Volume 1 del Don Chisciotte)

“Vedi Azzo sesto, un de’ figliuoli sui,/ Confalonier de la Cristiana croce:/

Avrà il Ducato d’Andria con la figlia/ Del secondo Re Carlo di Siviglia”

(Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, III, str. 39)

“ Ah se il nostro genio fosse un poco di più genio!” (Ralph Waldo Emerson)

1. Premessa


“La posizione di Cervantes nei confronti di Erasmo è sempre un problema di sfumature, come anche nei confronti dell’altra ala ‘destrorsa’, o ‘alla canonico toledano’, rappresentata dalla poetica del neoaristotelismo. Il suo stile mentale, modellato (come quello di Montaigne) secondo le più sottili tradizioni umanistiche, lo porta ad un continuo esercizio di sic et non, di simultanee entrate ed uscite da ogni problema, e ad una grande cautela nei confronti di qualsiasi presa di posizione radicale sul piano della realtà umana. Il prigioniero liberato ad Algeri nel 1580 è ormai un ingegno maturo. La sua permanenza in Italia come cortigiano del cardinale Acquaviva e soldato (1569-1575) facilitò la sua relativa ‘naturalizzazione’ nella letteratura dell’altra penisola, allora di rigore per i poeti spagnoli. Soprattutto Ariosto e Tasso gli risultarono familiari, e se il primo lo divertiva di cuore, il secondo lo riempiva di rispetto. Teofilo Folengo, come esempio consacrato dell’invenzione comica dell’epoca, non mancò di lasciare una traccia nel Quijote “. (1)

Pirandello prende molto dalla novella “L’avvocato Vetrata” e – in genere – dall’ironia cervantina. (2) Pirandello non manca di premettere una brillante ‘Prefazione’ al libro dell’ispanista Ezio Levi, di famiglia sefardita ferrarese e poi docente in Puglia a Firenze e Palermo, Lope de Vega e l’Italia (Firenze 1935), che fu anche autore di Motivos Hispanicos. (3) Miguel de Unamuno si sofferma sul “chisciottismo tragico” e il “sentimento tragico della vita”, oltre a presentire – con la novella Niebla – lo stesso tema pirandelliano dei Sei personaggi in cerca d’autore. La cosiddetta “generazione del Novantotto” deve ancora tanto al Cervantes; come la sociologia del geniale Ortega y Gasset (Madrid 1883-1955), autore de La rebellion de las masas e della pedagogia traslucida per la Espana invertebrada.

Miguel Cervantes de Saavedra (Alcalà de Henares 1547 – 1616) non si può associare tout court all’orizzonte controriformistico e tridentino. Pure, combatté con onore a Lepanto nel 1571, nel punto più vivo della battaglia, perdendo come si narra – una mano. Si innamorò dell’Italia, dove viaggiò molto anche al seguito dell’Acquaviva; e quando per sbaglio fu imprigionato ad Algeri, per salvare il fratello (1575), tentò varie volte la fuga, liberato poi da fra’ Juan Gil, uno dei Padri Trinitari, che usavano pagare il riscatto ai corsari musulmani oppure offrire le loro vite in cambio dei soldati e intellettuali di formazione cristiana. Alla fine della giornata terrena, pochi mesi prima della morte, Cervantes prese addirittura gli ordini di terziario francescano (anche se era stato autore di novelle licenziose, se non oscene, nella sua prima giovinezza). Segni e ricordi del “cordone francescano” sono dappertutto in Cervantes. Nella novella del ‘dottor Vetrata’, in riferimento a Tommaso Rotella, protagonista: “Così gli dettero una veste grigia e scura e una camicia assai larga, – precisa l’Autore – che egli indossò con molta circospezione e legò alla vita con un cordone di cotone”. E al Volume secondo, capo 23, del capolavoro, nell’incredibile episodio, magicamente complesso, della caverna di Montesino: “La discesa di Don Chisciotte avviene con una corda fissata intorno a lui”.

2. Nuova “Esemplarità” delle “Novelle esemplari”

La delicatezza degli affetti, l’influsso dell’Ariosto, l’ammirazione per l’Italia (anche meridionale) e – in breve – la polarità dialettica di “fragilità” esistenziale e “ricostituzione” del soggetto e della umana persona (felicemente risolta nel “giuoco” della ironia), ci sembrano i motivi di non perenta attualità della sua opera. In effetti, esplode quasi alla fine, con l’ estremo ventennio, la prodigiosa attività letteraria di Cervantes. Dopo la giovanile Galatea (1583), e dopo la “delusione storica” della sconfitta dell’Invincibile Armata (1588), provocata dalla maggiore agilità delle navi inglesi che s’incuneavano tra gli imponenti galeoni spagnoli sfruttando la sopravvenuta tempesta, Cervantes pubblica le Novelle esemplari (1613), il Viaggio nel Parnaso (1614), le Otto commedie e otto intermezzi (1615), le due parti del Don Chisciotte ( tra 1605 e 1615) e prepara I travagli di Persiles e Sigismunda (uscito postumo il 19 aprile 1616). Pietro Citati batte sulla tragica ripercussione della sconfitta navale del 1588. Franco Cardini ne stempera l’influenza, a mente della “rivincita” spagnola per il fallimento dell’impresa di Francis Drake, impresa fortemente voluta dalla Regina Elisabetta. (4)

Tutto ciò non toglie che il Cervantes in persona chiarisca nel Prologo alle Novelle esemplari, perché sian dette “esemplari”: per il fatto che «sono in accordo con la ragione e con i princìpi cristiani», offrendo «profittevoli esempi», non sappiamo poi con quanta sottile ‘autoironia’ (che è anche liberatoria catarsi per la perdita della mano realmente subìta) aggiungendo: «Se per caso venissi a sapere che la lettura di queste novelle può indurre il lettore in cattivi pensieri, mi taglierei la mano che le ha scritte piuttosto che pubblicarle».

Il giuoco dell’ironia è sempre vario, dal sottile al perfido, o dall’evidente e trasparente all’allusivo ed al sottinteso, sprofondando in piani sottostanti all’infinito (oserei dire, a ben altro riguardo, come accadrà nelle magnifiche invenzioni di Cornelis Escher, matematico e creatore).

Volfango Goethe, in una lettera a Schiller del 1795, giudicava con ammirazione: «Ho trovato nelle novelle di Cervantes un tesoro di insegnamenti e diletti».

Già per Hegel delle Lezioni sull’estetica (1831), se l’Ariosto «tratta comicamente la cavalleria, mettendone però in rilievo gli aspetti positivi, Cervantes la parodizza senza pietà». E il nostro De Sanctis, dopo di lui, nella Storia del ’70: «Orlando diventa don Chisciotte e, quando don Chisciotte entra in scena, tutto un mondo se ne va in frantumi». Jorge Luis Borges, in una “Nota preliminare” del 1946 alle Novelle esemplari, ammetteva: «Fra tutte le nazioni d’Europa, quella che ama di più è l’Italia, delle cui lettere fu tanto debitore». (5)

Pure, leggere Ariosto o Cervantes oggi non è la stessa cosa che legger gli Autori nel periodo del Risorgimento o dell’idealismo, né negli anni Cinquanta dello scorso secolo. La storia, idealmente essendo sempre “contemporanea” (benché non da appiattirsi ‘prammaticamente’ sul presente), produce una ermeneutica sempre nuova, fonte di vita nova e risposte rinnovate.

E così: – E se l’ “uomo di vetro” fosse prossimo – proprio oggi – ad “andare in frantumi”? E se il senso di ‘spaesamento’, la percezione dell’esser ‘gettati nel mondo’, l’angoscia sottile e segreta fattasi manifesta e quindi voltata in comicità ed ironia, tornassero come di prepotenza attuali?

Prendo in esame solo alcune delle “Esemplari”. La novella di Rincon e Cortado, poi ribattezzati in Rinconete e Cortadillo dal capomafia di Siviglia Monipodio, è emblematica, nel senso di «quanto fosse trascurata la giustizia in una città così famosa come Siviglia, dove gente tanto perniciosa e contraria alle leggi di natura viveva quasi allo scoperto». I due ragazzi ne vedono, e attraversano, di tutti i colori. Vestiti di abiti sdruciti e sformati, col colletto «inamidato per l’unto e sfilato e rotto da parere uno straccio», si danno del “Signor gentiluomo” e di “Vostra Grazia”. Giocano a carte del “Ventuno”, imparano e spiegano i trucchi, borseggiano e tagliano le valigie, si mescolano nel carico della flotta acquistando sacchi nuovi e puliti, intendono il rubare per un «mestiere libero ed esente da tributi o tasse» (se non «per servire Dio e la buona gente»), vengono ad associarsi alla banda ben organizzata di Monipodio, apprendono le regole della divisione del bottino, rispettano i giorni del Giubileo ma anche i “bravi” malfattori, riconoscono nel capobanda il «più rozzo e deforme barbaro del mondo», ne scimmiottano il linguaggio a base di strafalcioni, rispettano il gendarme coinvolto nei controlli d’ordine pubblico e nella protezione manigolda, satireggiano le buone pratiche di “credente e cristiano”, timoroso di Dio, e l’abilità nel fare «due migliaia di versi in un battibaleno», e così in un crescendo che coinvolge prostitute e donne di malaffare, “spie” e condannati a morte, autori di furti e omicidi: fino al vertice di rispondere – con Rinconete – di «saper fare un sacco di burle meglio che un sacco di Napolitani, e dare un colpo al più furbo meglio che prestare tre reali». L’altra novella, che si segnala per “esemplarità” o “attualità”, è quella dell’ Avvocato Vetrata, dove un giovane ancor qui di nome italico “Tommaso Rotella”, per una pozione propinatagli dall’amante, perde il senno, immaginandosi essere fatto di vetro, e perciò bisognoso di cautele nei viaggi, negli spostamenti e in tutte le abitudini. Tommaso gira per l’Italia, descrive bene ogni località, ammira le varie specialità di vini, si reca nelle Fiandre. Ma, ovunque, la sua “follia” gli guadagna la facoltà di «rispondere con proprietà e acutezza a tutte le domande»: il che equivale a smontare ogni ipocrisia e demolire ogni assurdità o incongruenza di ruoli e comportamenti sociali. Qui Cervantes grandeggia come nessuno. Quando cita ironicamente il Vangelo di Luca e l’Ecclesiaste, «Il marito della rigattiera capì la malizia di quelle parole e gli disse: – Fratello avvocata Vetrata ( così infatti egli diceva di chiamarsi ), voi sembrate più scaltro che matto».

Molti commentatori eruditi non capiscono – ancor oggi –, pretendendo di rinvenire errori o incongruenze nel Chisciotte e così inventandosi delle varianti che non abbisognano. Ed è come se Cervantes colpisse nell’ironia, anticipatamente, anche tutti costoro («Oh quante volte i nostri maggiori si staran rivoltando nella tomba! Oh premi, oh premi, quanti crimini si commettono nel vostro nome!»). Così, Cervantes non risparmia nessuno (prima che il Vetrata rinsavisca, ma costretto a emigrare nelle Fiandre, perché non più accompagnato dal credito della gente comune): poeti buoni e cattivi; “imitatori” e “vomitatori” della natura; stampatori di libri e profittatori del numero di copie; banditori e propalatori di segreti privati; mozzi di stalla e farmacisti; medici senza scrupoli e giudici iniqui; procuratori di Corte d’appello e millantatori di “alte e profonde lettere” («perché vi scappano tanto sono alte e non potete raggiungerle tanto sono profonde»); falsi nobili e burattini; “spadaccini” che (come alcuni dei nostri politici) si spacciavano per «maestri di scienza o arte, che ignoravano poi quando ne avevano bisogno», ed erano anche «un po’ presuntuosi», credendo di «poter ridurre a dimostrazioni matematiche (di per se stesse infallibili) i movimenti e i propositi violenti dei loro avversari». Cervantes salva solo gli scrivani e i frati; denunzia le “punture dei maldicenti”, in grado di superare anche la resistenza della immaginaria corazza di vetro. Dà il nome “Ruota”, in luogo di “Rotella”, all’avvocato rinsavito; ma conclude che «uno degli uomini più saggi del mondo» non vien più creduto, proprio quando agli importuni interroganti può rispondere «ancor meglio con un po’ più di riflessione», ed esattamente «con tutta la pienezza di giudizio e la logica di discorsi che aveva una volta». In definitiva, c’ è, in queste pagine, Pirandello ma più che Pirandello ante litteram. Ci sono l’Italia e l’Europa; la dimensione fondativa della scienza estetica: «Però ammirava e rispettava la scienza della poesia, perché racchiudeva in sé tutte le altre scienze»; e Vico e Assunto e Croce e Carlo Antoni del Commento a Croce e Marcelino Menendez y Pelayo. E ci sono i nostri costumi; la infinita tragedia e commedia della vita; e le “presunzioni fatali” e i “sofismi” espressi dal “potere”; lo spaesamento e la fragilità; ma anche la “forza dei deboli”: «A ciò rispose: – Sebbene di vetro, non sono così fragile da lasciarmi andare con la corrente del volgo, il più delle volte in errore». Ci è la critica di coloro che considerano la poesia “come un sollievo o passatempo”; degli opportunisti che «durante la bonaccia sono diligenti, durante la burrasca sono pigri, mentre durante una tormenta comandano in molti e obbediscono in pochi»; e, alla fine, la denunzia della «Corte, che alimenta le speranze di sfacciati pretenziosi, e distrugge quelle dei virtuosi modesti»: – «Tu offri abbondanti risorse ai buffoni svergognati e lasci morire di fame gli onesti ingegni!»

Il senso di un’esistenza continuamente minacciata è anche traslucida e spietata ironia: Cervantes, nostro “contemporaneo”. “Esemplare”, bensì; ma in un senso diverso da quello parenetico e religioso: ‘paradigmatico’, attuale e parlante nel “metodo esistenziale” di lettura del mondo.

Ognuna delle condotte satireggiate dal Cervantes può fornire chiavi di lettura nella nuova stagione “orwelliana”, post “1984”-“1994”: segnatamente quelle del poliziotto corrotto e del giudice iniquo. La lettura delle “pieghe” o delle “guise” dell’inganno ci parla ancora. « – Io scommetterei che quel giudice nasconde delle vipere nel seno, delle pistole nella cintura e dei fulmini nelle mani, per distruggere tutto ciò che cade sotto la sua giurisdizione. Ricordo di aver avuto un amico che in occasione di un processo penale emise una sentenza così esagerata da superare di gran lunga la colpa dei delinquenti. Gli domandai perché avesse pronunciato quella crudele sentenza, facendo una così palese ingiustizia. Mi rispose che intendeva concedere l’appello, dando modo, così, ai signori del Consiglio, di mostrare la loro carità, moderando e riducendo nei giusti limiti e proporzioni quella sua severa condanna. Gli risposi allora che sarebbe stato meglio pronunciare la sentenza in modo da risparmiare a quei signori tutto quel lavoro e da ottenere per sé la qualifica di giudice retto e giusto». (6)

Oggi si potrebbero addurre esempi della “ragione sofistica” (fine delle repubbliche, leaders politici condannati per giustizialismo, banche decotte salvate e non, indagini giudiziarie su disastri di varia natura, e via). Ma, ermeneuticamente, quel che più preme – all’interno del richiamo a Orwell – è appunto il capovolgimento dei valori : “Illegality is Legality” – “Guarantee is Pain” – “Autonomy is Eteronomy”, enucleato nel turning point della “crisi”, a inoltramento del linguaggio ossimorico del Miniver di “1984”. (7) Perché, in effetti, Orwell si occupa di Cervantes due volte, attraverso la ripresa comica di Charles Dickens, e la interpretazione di Nietzsche, nelle sue “Cronache letterarie” quotidiane degli anni Quaranta, per trovare il don Chisciotte «più patetico di quanto lo fosse per il suo Autore». In Charles Dickens. III, a proposito di “Grandi speranze”, osserva Orwell: «Psychologically the latter part of Great Expectations is about the best thing Dickens ever did; throughout this part of the book one feels ‘Yes, that is just how Pip would bave behaved’. But the point is that in the matter of Magwitch, Dickens identifies with Pip, and his attitude is as bottom snobbish. The result is that Magwirch belongs to the same queer class of characters as Falstaff and, probably, Don Quixote – characters who are more pathetic than the author intended». (8)

Più tardi, in As I Please (‘Tribune’ del 1° dicembre 1944), partendo dalla minaccia dei “V2” nazisti su Londra, Orwell cita il “Diario di nessuno” di Maurice Baring, da poco tradotto in russo, per sottolineare: «The interesting thing, however, is to follow this book up to its origins. What does it ultimately derive from ? Almost certainly, I think, from Don Quixote, of which, indeed, it is a sort of modern anglicized version. (..) But apart from the comparative mildness of the things that befall him, one can see in the endings of the two books the enormous difference between the age of Cervantes and our own. The fact is that , in spite of the way we actually behave, we cannot any longer feel that the infliction of pain is mere funny. Nietzsche remarks somewhere that the pathos of Don Quixote may well be a modern discovery. Quite likely Cervantes didn’t mean Don Quixote to seem pathetic – perhaps he just meant him to be funny and intended it as a screaming joke when the poor old man has half his teeth knocked out by a sling-stone. However this may be with Don Quixote, I am fairly certain that it is true of Falstaff. Except possibly for the final scene in Henry V, there is nothing to show that Shakespeare sees Falstaff as a pathetic as well as a comic figure». (9)

Ora, da parte il fatto che con ogni probabilità da questi luoghi deriva il celebre raffronto, o incontro, tra il Cervantes e lo Shakespeare ideato da Anthony Burgess, Orwell ribadisce – dal suo punto di vista – la grande distanza tra la “età di Cervantes” e la “nostra”, come dire tra la “utopia degli antichi” e la “distopia dei moderni”. Ma, nel contempo, lascia aperta la possibilità di rintracciare, non solo nel Chisciotte ma anche attraverso le Novelle, quanta parte della dissoluzione degli ideali, del capovolgimento di valori, falsificazione di linguaggi o adozione di sofismi fosse rappresentata in nuce nell’età cervantina. Stiamo perciò, sommessamente, con Orwell e oltre Orwell, a proposito di Cervantes “esemplare”. (10)

3. Cervantes e Quevedo

 

In realtà, come ha detto Miguel de Unamuno (1864-1936), Cervantes ha scritto i propri capolavori «per salvare noi»; e così: «ci sono tanti Don Chisciotte quanti sono i lettori». O, per meglio dire, vichianamente, ognuno di noi recapitola a ogni istante nella propria esistenza la vita universale, reinterpretando il mondo del continuo (C. L. Ragghianti). Dunque, si può fantasticare del serrato colloquio Shakespeare – Cervantes ( che giammai ci fu ); oppure, in aderenza al “sentimento tragico della vita” e alla satira dei mali sociali, fermarsi al più realistico rapporto tra Cervantes e Francisco de Quevedo (Madrid 1580 – Villanueva de los infantes 1645), l’altro contemporaneo e ‘titano’ di Spagna, al punto di contatto più sicuro e immediato, proprio tra le Novelle esemplari ed I sogni, raccolta lucianèa dalla tormentata e continua rielaborazione strutturale, bene degna di appassionare tutti gli echi dell’altro mondo.

Los Suenos devono esser stati composti tra il 1606 e il 1627; mentre le Novelle esemplari si pubblicarono il 1613. «Ciò starebbe a dimostrare che almeno i più antichi dei Sogni sono anteriori alle Novelle, e che, di conseguenza, non si potrebbe parlare di vera e propria ispirazione né tanto meno di imitazione. Ma l’obbiezione cade, se si tiene in conto l’uso dell’epoca di dare diffusione alle opere letterarie, soprattutto se di breve mole, assai prima che vedessero la luce per le stampe». Dice di Quevedo, Cervantes, nel Viaggio di Parnaso: «Costui è figlio di Apollo; costui è figlio di Calliope musa». E Quevedo, nel comporre una romanza del 1618, ricorda con simpatia Cervantes, parafrasando in parte il celebre testamento del Don Chisciotte. I due si conobbero tra il 1601 e il 1606 proprio nella Valladolid dove vivevano, risiedendovi la Corte; e dove il Burgess vorrà immaginare l’altro dialogo tra l’ Hidalgo e il Bardo. Furono in frequentazione, scambiandosi la riverenza per Dante, Ariosto, Erasmo e Juan Valdès. Ma Quevedo andava un poco oltre in audacia etico-politica, espressamente dissacrante; ed era costretto a scansare i provvedimenti restrittivi della censura controriformistica, facendo più volte marcia indietro. Cambiava i titoli della raccolta e dei vari capitoli: ‘I sogni’; le ‘Veglie sonnolente e Verità sognate’; ‘L’Inferno corretto’, o il ‘Discorso di tutti i diavoli’; gli ‘Scherzi dell’infanzia e le burlette ingegnose’ (nel ’27, nel ’29, nel ’31; fino al 1645, dove tutti i titoli sono stravolti). Così, l’editore Astrana Marìn, nel 1932, decise di tagliar corto, riducendo drasticamente a “sette” i racconti originali e rifiutando le manomissioni e correzioni, soppressioni e aggiunte, anche d’ autore! Ma generando un “ipertesto” di proporzioni straordinarie, che aspetterà a lungo il suo ‘editore’! Peggio che per la serie delle varianti autorizzate dal Dalì o dal De Chirico, per le tante incisioni e prove d’autore, secoli più tardi!

Ora, non del tutto condivido il giudizio per cui: «Il distacco tra l’atteggiamento spirituale, sereno, placido, ‘esemplare’ di Cervantes, e quello aggressivo, amaro, pungente di Quevedo, è spiegato più che a sufficienza dal carattere di quest’ultimo». (11) E non lo condivido, soprattutto perché lo stesso Cervantes punge e sferza a suo modo i malaffari e le corruzioni del mondo, del ‘suo’ e del ‘comune’ mondo, napoletano italico e ispanico. Piace anche a me per un attimo fantasticare come un serrato dialogo tra i due scrittori. Cervantes: – Hai perfettamente ragione, nella tua denuncia, Francisco. – Solo che io diverto più elegantemente; ma, proprio per poter elegantemente divertire, debbo distesamente narrare”. Quevedo: – Io invece, Miguel… . E Cervantes: – Tu invece, Francisco…– Quevedo: – Io mando direttamente a quel paese, Miguel caro… Cervantes: – E, per spedire direttamente all’altro mondo, da buon figlio di Apollo, sei indotto a interrompere sul più bello ( o, sul più brutto!) bruscamente i Tuoi Sogni.

Così andò per il Sogno del Giudizio universale, dove Quevedo immagina una visione in cui, al suono delle trombe angeliche, si spalancano i sepolcri, si levano i defunti e il tribunale della Somma Giustizia pronuncia le proprie condanne, nel giorno del Giudizio. E mentre gli uomini risorti sono tuttavia immersi non solo nel ricordo ma anche nell’influsso dei peccati commessi, sopraggiunge un “astrologo” ad annunziare che la prevista data del Giudizio universale è sbagliata, con potente efficacia satirica verso l’abito rinascimentale e umanistico di affidarsi alla “tirannia degli astri” (Napoli, Ferrara, Mantova, Roma, Venezia e via). Subentrata una enorme confusione nel parapiglia generale tra le anime impaurite, l’ autore avverte l’improvvisa interruzione del sogno, ridestandosi. Nello Sbirro indemoniato, è anche la satira della fallace giustizia terrena; dal momento che uno sbirro posseduto dal demonio interroga lungamente il diavolo a proposito dell’inferno, dei peccatori e delle pene che vi si trovano e dell’adempimento dei destini che tocca i vari ceti ( poeti, sovrani, mercanti, donne, e innamorati ). Ricca di echi danteschi, la storia si arresta per una confessione del demonio, onde la Giustizia sarebbe ascesa in cielo per non aver trovato in terra asilo, pur avendolo cercato in tutti i modi. E identico tema è nel Sogno dell’Inferno, di evidente ascendenza dantesca e cervantina, perché la narrazione della “legge del contrappasso”, che colpisce le anime, si arricchisce di insegnamenti non solo morali ma bibliofili, a mente della celebre rassegna della Biblioteca “da buttare”, nella Parte prima del Don Chisciotte, al discusso Capitolo sesto, con speciale riguardo a opere esaltanti l’ oramai “inattuale” cavalleria.

Noteremo, per excerpta, l’importanza de L’ora di tutti e la fortuna assente, rassegna in quaranta paragrafi dei mali del mondo: tra cui la situazione dell’Italia sospesa sulla corda tra Francia e Spagna; il cavallo di Napoli pomo della discordia; il granduca di Moscovia che dovrebbe apprendere dal popolo l’arte del buongoverno; gli Olandesi ribelli al loro Re; il granduca di Firenze che precede gli alchimisti e le arti subdole dei Francesi, visti nel tentativo di assoggettare la nemica Spagna; fino al Gran Turco che respinge i consigli dei “rinnegati” per seguire i suggerimenti disinteressati degli “schiavi” cristiani, a indiretto elogio della morale cattolica. Entrambi gli autori vissero nelle splendide città italiane; ed entrambi furono a repentaglio nelle stesse. A Venezia, Quevedo fu accusato di congiura verso il Doge, e arrestato. Nella Napoli, in cui dimorarono, scrissero i più alti elogi (come Cervantes nel Viaggio di Parnaso) per la “più bella città del mondo”. Qui Napoli è «la bella Parténope, sentada / a la orilla del mar, que sus piés liga, / de castillos y torres coronada, / por fuerte y por hermosa en igual grado / tenida, conocida y estimada». E qui sogna e si ridesta – il poeta – rivedendo “una ciudad famosa”: «Y dìjeme a mì mismo: No me engano:/ Esta ciudad es Nàpoles la ilustre, / Que yo pisé sus ruas màs de un ano». Mentre, nel Don Chisciotte, al racconto del capraio ( Volume 1, 51 ), Napoli è detta «la màs rica y màs viciosa ciudad que habìa en todo el universo mundo».

Il giovane Croce, maestro di erudizione, studiò tutti i passaggi di Cervantes su ed in Napoli, le sue dimore, e le influenze da lui ricevute, nei Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, segnatamente con Due illustrazioni al ‘Viaje del Parnaso’ del Cervantes (1899). I. Il Caporali, il Cervantes e Giulio Cesare Cortese II. Viaggio ideale del Cervantes a Napoli nel 1612.

Non tocca del Quevedo, il narratore di letteratura universale Harold Bloom, inteso a strutturare per le dieci sefirah tutti gli autori amorosamente compulsati. E sia (pur cogliendo incongruenza tra la affermazione decisa – in lui – di un “canone occidentale”, e il percorso “cabalistico” in senso stretto, con riguardo alla letteratura del “Genio”) !

Tanto varrebbe, allora, rifarsi al verso montaliano, assunto a emblema metodologico, «Occorrono troppe vite per farne una», beninteso in senso non evoluzionistico, da “selezione della specie” (Montale era allora sotto il parziale influsso di Boutroux e Bergson), ma della “memoria storica”, incessantemente immessa negli “autori” (Impegno ermeneutico che seguii in Tempo e Idee, Milano, Albatros 2015, con particolare riguardo a Croce, Assunto, Franchini, Vittorio Enzo Alfieri, Cinzio Violante e Carlo Emilio Gadda). Oppure, con aderenza al soggetto attuale, vedere la “memoria storica” rappresentata nelle dimensioni della “Biblioteca” ideale: la Biblioteca di Cervantes, da “buttare”; la Biblioteca di Vico, da “salvare”; la Biblioteca del Trinity College, a Dublino, come Templum da *temno, o ‘Volta celeste ritagliata’, da “contemplare”; e la Biblioteca del finale di “Interstellar” di Christopher Nolan, da “mediare”, per la parete-confine creata tra padre e figlia e il ponte stabilito nei messaggi; o la Biblioteca di Borges e Italo Calvino, come ‘labirinto’, da “attraversare”; e la Biblioteca di “Ulysses”, – per dir così – da “chiacchierare”.

Si vuol dire che resta la “sapienza dei secoli”, storicamente di volta in volta modulata, a costituire l’asse portante della ideazione letteraria. Per “Interstellar”, essa è vissuta nella relazione affettiva conquistata nello spazio-tempo. Per Vico, essa è vista nella libreria paterna che aveva raccolto, e ancora accoglieva, la “Ingens Sylva” del sapere. Per Cervantes, era deviata nell’ideale cavalleresco, oramai in disarmo e in disuso. Per James Joyce, il più moderno, l’asse portante della “Biblioteca” è nel processo del fare poetico, nell’idealismo delle “forme”, rivisitati attraverso la chiacchierata tra il bibliotecario Russell e Telemaco: e dunque ( alla faccia di qualche anti-idealista contemporaneo ), tale da stabilire un autonomo riferimento “epistemologico”.

4. La Biblioteca di Don Chisciotte e il “non detto” sul Cervantes

In uno dei momenti insieme più esilaranti e incompresi del Don Chisciotte, al capitolo sesto del Volume primo, gustiamo dunque la parodia della Biblioteca del Seicento, «Dell’ampio e brillante esame che il curato e il barbiere fecero della biblioteca del nostro fantastico cavaliere». (12) Dopo aver “dannato al fuoco” il primo libro di cavalleria stampato in Spagna, il famoso Amadigi di Gaula, e le Gesta di Splandiano (“figlio legittimo” di quello), e l’ Amadigi di Grecia, e l’ Olivante di Laura, e il Florimarte di Ircania, il Cavalier Platir, con il Cavaliere della Croce; il signor curato ed il barbiere (consenziente la governante) arrivano allo Specchio delle imprese cavalleresche, che consente loro di imbattersi nei venerati nomi degli italiani Boiardo e Ariosto. «– Lo conosco quel signorino – disse il curato. – Lì c’è Rinaldo di Montalbano coi suoi amici e compagni, che erano più ladroni di Caco, e i dodici Pari, con il veridico storico Turpino; ma in verità, mi limiterò a condannarli soltanto all’esilio perpetuo, se non altro perché rientrano nella trama del famoso Matteo Boiardo, donde tessé a sua volta la sua tela il poeta cristiano Ludovico Ariosto, a cui, se lo trovo qui a parlare in altra lingua che la sua, non serberò alcun rispetto; ma se parla nel suo idioma, lo tratterò con ogni riguardo. – Io ce l’ho in italiano – disse il barbiere ; – ma non lo capisco. – E non sarebbe affatto un bene che lo capiste – rispose il curato. – Ma il signor Capitano avrebbe potuto farne a meno di portarlo in Spagna e voltarlo in castigliano, perché gli ha tolto gran parte del suo pregio nativo; e lo stesso accadrà a tutti quelli che vorranno tradurre in altra lingua libri di versi: che per quanto vi mettano diligenza e vi dimostrino abilità, non arriveranno mai al livello che hanno nella loro creazione originale».

Dove Cervantes allude al capitano Jeronimo Ximenes de Urrea (Zaragoza 1510 – Napoli 1573), partecipe il 1536 allo sfortunato assalto della fortezza di Muy (in Provenza) con Guglielmo di Moncada e Garcilaso de la Vega, nonché combattente nella campagna italiana di Carlo V e Viceré in Puglia a partire dal 1566, dove per un attimo scompaiono sue notizie, se non fosse per la precedente traduzione in castigliano dell’ Orlando Furioso (Anversa 1549; Lione 1566) e della Arcadia del Sannazaro (1555). Sappiamo del suo poema encomiastico El victorioso Carlos V (1579) per la vittoria di Muhlberg, successo della Monarchia Cattolica; e della filastrocca scritta sulla falsariga della Canciòn V di Garcilaso de la Vega, «De vuestra torpe lira / ofende tanto el son en un momento / mueve al discreto a ira…». (13)

Il punto è che la generalizzazione che Don Chisciotte cava dal raffronto tra l’originale poetico del Furioso e la sua resa in castigliano dell’Urrea, sùbito s’impone in sede di dottrina estetica: «e lo stesso accadrà a tutti quelli che vorranno tradurre in altra lingua libri di versi: che per quanto vi mettano diligenza e vi dimostrino abilità, non arriveranno mai al livello che hanno nella creazione originale». Quarant’anni dopo gli studi giovanili su Cervantes a Napoli, nella Poesia del ’36 ma ancora fino alle preziose Postille aggiuntevi nel 1942-43, Benedetto Croce teorizzerà con più distesa argomentazione questo concetto, nel paragrafo V, L’intraducibilità della rievocazione, del secondo capitolo La vita della poesia, a proposito della impossibilità della traduzione di poesia. (14) Che sono, allora, le originali traduzioni di opere di poesia? Sono – chiarisce il filosofo – “due casi” : o «sono semplici strumenti per l’apprendimento delle opere originali». Oppure: «sono le traduzioni del secondo genere, le traduzioni poetiche, perché esse, movendo dalla ri-creazione della poesia originale, l’accompagnano con gli altri sentimenti che sono in chi la riceve, il quale, per diversa condizionalità storica e per diversa personalità individuale, è diverso dall’autore; e su questa nuova situazione sentimentale sorge quel cosiddetto tradurre, che è il poetare di un’antica in una nuova anima». Tutto ciò – dice Croce – perché: «L’impossibilità della traduzione è la realtà stessa della poesia nella sua creazione e nella sua ri-creazione». Ma il filosofo ed estetologo medesimo, pur conoscendo magistralmente e l’Ariosto e il Cervantes, non cita mai quest’ultimo, ‘classico’ suo precedente, nella negazione che un traduttore di poesia possa giammai serbare il “pregio nativo”, o il “livello che hanno nella loro creazione originale”, le opere di Poesia.

Perché questo “non detto” in Croce? Non sappiamo. Forse, egli può o deve aver assunto il brano cervantino in succo e sangue, più o meno consapevolmente, fino al punto da averlo fatto e proprio e quindi dilatato in altra, personale, argomentazione. O, forse, non volle tributare gli onori del “classico” – in questo proposito – al narratore geniale di Spagna. Certo, la “lacuna” rimane. Per occuparsi direttamente del Don Chisciotte (anche in Poesia antica e moderna del ’41), Croce metterà un altro quarantennio, rispetto ai diligenti lavori di erudizione giovanile, generalmente associando in vari luoghi Chisciotte a Falstaff, per evidenziare l’ufficio più che comico dei grandi personaggi. Ma quando se ne occuperà, d’intorno al 1939-’40, riconoscendo il carattere “geniale” del Cervantes, noterà squilibrio tra le due Parti del Don Chisciotte, seguendo uno spunto di Goethe, per cui la seconda parte indulge al “farsesco” (Conversazione col Cancelliere Mueller del 1819: «fin quando l’eroe si fa illusioni è romantico, ma, quando egli viene soltanto berteggiato e burlato, l’interesse decade»). Ma nessun cenno apporrà alla felice teoria dell’intraducibilità della poesia preconizzata dal Cavaliere ispanico. E nemmeno lo farà, sino alla fine, nelle Letture di poeti, del 1950, a proposito di Cervantes: ‘Persìles y Sigismunda’ ( Bari 1950, pp. 52-62 ). Il “non detto”, per dir così, permane: e, con esso, resta come l’impressione di un debito non saldato.

D’altronde, il critico e storico dell’estetica spagnolo Marcelino Menendez y Pelayo, amico di Croce, nella sua fondamentale Historia de las ideas esthétiquas en Espana, che dà molto di più di quanto dichiarato nel titolo, (15) adotta qualche giudizio limitativo sull’estetica cervantina, che non del tutto condivido. Intanto critica alcune forme di fetiquismo cervantino ( p. 389 ); poi afferma: «Màs especioso parece convertir à Cervantes en maestro de preceptiva literaria, porque al fin habia practicado la literatura toda su vida, y es cosa cierta que siempre merecen consideraciòn las idea de los artistas sobre su arte, mucho màs que las ideas de los profanos. Pero entre los profanos y los artistas està los criticos» ( p. 391 ). «Sòlo el genio cientifico unido al genio artistico, en Goethe, llegò à vislumbrar algo. Pero los tiempos de Goethe non eran los de Cervantes, afortunadamente para la frescura de su inspiraciòn. Cervantes tenìa doctrinas literarias; pero oso decir que estas doctrinas, sobre nada nuevas, tampoco eran adquisidas por esfuerzo proprio, ni decendìan de propias observaciones sobre sus libros, sino que eran las mismas, exactamente las mismas, que ensenaba cualquiera Poética de entonces, la de Cascales ò la del Pinciano… » ( p. 392 ).

Però, Menendez y Pelayo salva qualcosa: «Lo que salva del olvido algunos de estos preceptos de Cervantes es la viveza, la gallardia, la hermosura con que estàn expresados» ( p. 392 ). Chi non ricorda la definizione della poesia che dà don Chisciotte nel suo colloquio con il cavaliere del Verde Gabbano? – «La poesia, senor Hidalgo, à mi parecer, es como una doncella tierna y de poca edad, y en todo extremo hermosa, à quien tienen cuidado de enriquecer, pulir y adornar otras muchas doncellas, que son todas las otras ciencias, y ella se ha de servir de todas, y todas se han de autorizar con ella. […] Ella es hedra de una alquimìa de tal virtud, que quìen la sabe tratar la volverà en oro purisimo de inestimabile precio.., no se ha de ser vendible en ninguna manera.., non se ha de dejar tratar de los truhanes, ni del ignorante vulgo, incapaz de conocer, ni estimar los tesoros que en ella se encierran. […] La razòn es porque el arte non se aventaja à la naturaleza, sino perficiònala: asì que mezcladas la naturaleza y el arte, y el arte con la naturaleza, sacaràn un perfectìsimo poeta» ( pp. 392-393 ). Quindi, il Menendez cita passi de La Gitanilla, e del Viaje del Parnaso: «Moran con ella en una misma estancia / La divina y moral filosofìa, / El estilo màs puro y la elegancia. / Puede pintar en la mitad del dìa / La noche, y en la noche màs obscura / El alba bella que las perlas crìa» ( p. 394 ). Dove, il Cervantes attesta in versi la dottrina delle “origini della dialettica”, serbata in nuce nella teoria e prassi della “alchimia”. (16) E’ anche la chiave del “barocco”, “capolavoro dell’arte barocca”, stando ai termini dell’analisi di Joaquìn Casalduero, Sentido y forma de Los trabajos de Persìles y Sigismunda ( Buenos Ayres, Edit. Sud-Americana, 1947 ), poi ripresa dal Croce. (17) L’opera appena postuma del Cervantes, infatti, è in quattro libri di una storia presa da Eliodoro, il vescovo e poeta di Teagene e Carecla: dove “i primi due si svolgono nel settentrione, tra i geli e gli uragani, e gli ultimi due nel sole del mezzogiorno, e i comuni lettori, non afferrando l’unità delle due parti né lo stretto rapporto che è in tutti i suoi moltissimi episodi, non intendono questa creazione di un genio, questo capolavoro dell’arte barocca” ( sintetizza il Croce ): perché ( nella formula del critico spagnolo accettato ) in ognuna della sue opere “appaiono le due zone di luce e di ombra, la luminosità dell’immaginazione, che è unità e ordine, e l’oscurità della realtà, che è varietà e disordine, il cielo col suo presagio e il mondo col suo prodigio”. Certo, la generalizzazione estetica del Casalduero e poi di Eugenio D’Ors, “laddove il barocco crea la bellezza col dolore”, non può del tutto persuadere Croce. Ma la “origine della dialettica”, nelle intense polarità luce-ombra, gelo e sole, nord e sud, luce della fantasia ( come unità e ordine ) e oscurità del reale ( varietà e disordine ), “cielo nel suo presagio” e “mondo nel suo prodigio” ( “Origini della dialettica” su cui si travaglieranno Carlo Antoni e Raffaello Franchini ), caratterizza efficacemente il trapasso tra teoria e prassi alchemica ( che Cervantes conosceva, e il Quevedo parodiava ) e filosofia moderna. E così, nella “babele” delle “diverse lingue” tra la donna e il barbaro sull’isola deserta ( Libro I, Cap. IV del Persìles y Sigismunda ), “è eterogeneità necessaria affinché abbia luogo l’attrazione che l’unità della creazione vuole” ( Casalduero 1948, pp. 41-43; Croce 1950, p. 60 ).

Ma il “critico”, dell’età della “critica”, Menendez, pur giustamente espungendo ogni “precettistica” dall’estetica della modernità, limita di molto l’ originalità della coscienza estetica cervantina, anche negli spunti più interessanti.

Il curioso è che, molti anni più tardi, il citato critico Harold Bloom se ne uscirà con una trovata non dissimile, anche se diversamente modulata: “Il volume 2 di Don Chsciotte ha continui richiami al volume 1, chiarendo sempre che il volume 1 è un libro e il volume 2 no. Lo stesso Cervantes è il volume 2; questo secondo Don Chisciotte è ciò che William Blake ha chiamato “il vero individuo, l’immaginazione”. (18) Ossia: è il problema dell’ “opera” di fronte all’autore, l’ “individuo” ( “reale”, ma in senso fisico o metafisico, pratico o da Mondo 3 della ‘Conoscenza oggettiva’, direbbe Popper ? )

Ma è proprio così !? – Questo è il punto. Da parte l’assunzione “biblica” delle umane lettere per Bloom, e quindi del ruolo e ufficio della “Parola”; da parte il canone metodologico distinzionistico di Croce tra “poesia e non poesia”; non siamo oggi del tutto soddisfatti della tentata “amputazione” del capolavoro cervantino. E se fosse, invece, ipotesi per ipotesi e teoria per teoria, che:”il Volume 1 e il Volume 2 del Don Chisciotte stanno al Cervantes; come l’ Ulysses e Finnegans Wake stanno al Joyce” ? Quel “nostro Giacomo Joyce”, come lo dicono Croce e Nicolini nella Bibliografia vichiana del 1947-48, al secondo laborioso tomo ? Ed è come se Cervantes ( chiedendo venia per questa seconda nostra immaginativa, spontaneamente fiorita sui testi ) ci dicesse: – Ma come ? Non avete ancora capito ? – Io sono un genio filosofico, Travestitomi nei personaggi, Per farvi divertire! Mentre: “Joyce è un filosofo, Travestito da letterato, E che si diverte!”. ( 19)

Il fatto è che, storicamente, tra il 1605 e il 1615, date delle due parti del Chisciotte, ci sono state, appunto, le Novelle esemplari (1613) e, con le stesse, il colloquio assiduo tra Cervantes e Quevedo, a Valladolid: dunque, l’impressione di esagerazione “farsesca” ( di cui si faceva interprete Volfango Goethe ) è dovuta alla influenza di Quevedo su Cervantes, dei Sogni sulle Novelle e – poi – anche sul Secondo Volume del Chisciotte. Ma questa influenza è reciproca, come accade tra i grandi che spesso si scambiano – con ogni sollecitazione – il giuoco delle parti.Così, dopo il nostro percorso tra le idee estetiche “da salvare”, riprendiamo un attimo il giro dei poemi cavallereschi “da buttare”, sempre con la guida del signor curato e del barbiere.

Ci imbattiamo, allora, oltre che nel Don Belianigi, nella Storia del famoso Cavaliere Tirante il Bianco, la cui interpretazione ha dato luogo alle più sottili quanto male apposte congetture. E qui il “non detto” su Cervantes equivale al non voler “dire” l’essenziale sul suo capolavoro, per seguire le alcinesche seduzioni dello specialismo erudito. Vediamo meglio.

“- Per l’amor di Dio ! – esclamò a gran voce il curato -. C’è dunque il Tirante il Bianco ! Datemelo qua, compare, perché faccio conto d’avere trovato un tesoro di divertimento e una miniera di risate. Qui c’è don Chirieleison di Montalbano, valoroso cavaliere, e suo fratello Tommaso di Montalbano, c’è il cavalier Fonseca, e la lotta che il prode Tirante sostenne con l’alano, ci sono le arguzie della donzella Piacerdimiavita, con gli amori e gli inganni della vedova Posata, e la signora Imperatrice, innamorata di Ippolito, suo scudiero. Vi dico la verità, signor compare, che per il suo stile questo è il più bel libro del mondo: qui i cavalieri mangiano, dormono e muoiono nel loro letto, e fanno testamento prima di morire, e mille altre cose che mancano nel modo più assoluto a tutti gli altri libri del genere. Ciò nonostante, vi dico che chi l’ha composto, poiché certamente tutte quelle sciocchezze non le ha scritte a bella posta, meriterebbe d’esser gettato alle galere per tutto il resto della sua vita. Portatevelo a casa e leggetelo, e vedrete se non è vero quello che ho detto”. (20)

Il fine poeta e ispanista Vittorio Bodini non manca, a piè di pagina, di notare: “Questo è conosciuto come il passo più oscuro del Don Chisciotte; e da un secolo a questa parte ha dato luogo a una ridda di ipotesi da parte dei più illustri cervantisti spagnoli, da Juan Caldeòn a Hartzenbusch, da Benjumea a Menéndez y Pelayo, che hanno proposto le più sofisticate varianti per cavarne un senso, fino a Rodrìguez Marìn, che più onestamente si dà per vinto, limitandosi a ricapitolare la storia dei tentativi di interpretazione. Neanche i più insigni traduttori si son sottratti ( dal famoso Conte di Caylus al nostro Giannini ) a questa vana gara di congetture. – Tutto ciò non manca d’essere strano, e molto curioso. Perché il problema non esiste affatto, come può vedere il lettore italiano da questa versione in cui non abbiamo fatto altro che seguire letteralmente il testo. Il fatto è che ai commentatori è parso di vedere una contraddizione fra le lodi del libro di Tirante il Bianco, fatte dal curato, e il severo giudizio sul suo autore. Altra contraddizione, che aggrovigliava di più le cose, era fra certi meriti realistici riconosciuti al romanzo e il fatto che il curato lo trovi pieno di sciocchezze. Queste difficoltà ( apparenti ) suggerivano ipotesi e interventi sulla sintassi esterna del Cervantes: che era il cammino sbagliato, perchè qui la sintassi è addirittura cristallina ed esprime un concetto ironico e sottile, una complessa sintassi interiore a cui i commentatori non hanno badato. Che dice infatti il curato ? Che il libro è spassosissimo, una miniera di risate. E poi aggiunge: ma colui che lo ha composto meriterebbe d’esser gettato in galera perché tutte quelle sciocchezze non le ha scritte a bella posta per divertire, e con la coscienza che si trattava per l’appunto di sciocchezze. Per la pazzia che dimostra la sua credulità meriterebbe dunque la galera, e qui si direbbe addirittura che il Cervantes metta le mani avanti, precisando la propria posizione critica di fronte alla materia del proprio libro, perché non gli tocchi un giudizio analogo a quello toccato all’autore di Tirante il Bianco”. Il restauro critico bodiniano va benissimo per noi, che abbiam poc’anzi suggerito, a proposito della “genialità” cervantina, la formula: “Io sono diventato un filosofo, Travestitomi nei miei personaggi, Ma per farvi divertire !”. Che è proprio quel che manca all’assurdo e incongruente poema di Tirante il Bianco, perciò oggetto di fiera rampogna.

Valga il vero, dell’originale spagnolo: “ – !Valàme Dios ! – dijo el Cura, dando una gran voz -. ! Que aquì esté Tirante el Blanco! Dàdmele acà, compadre; que hago cuenta que el hallado en él un tesoro de contento y una mina de pasatiempos. Aquì està don Quirieleisòn de Montalbàn, valeroso caballero, y su hermano Tomàs de Montalbàn, y el caballero Fonseca, con la batalla que el valiente de Tirante hizo con el alano, y las agudezas de la doncella Placerdemivida, con los amores y embustes de la viuda Reposada, y la senora Emperatriz, enamorada de Hipòlito, su escudero. Dìgoos verdad, senor compadre, que, por su estilo, es éste el mejor libro del mindo: aquì comen los caballeros, y duermen y mueren en su camas, y hacen testamento antes de su muerte, con otras cosas de que todos los demàs libros deste género carecen. Con todo eso , os digo que merecìa el que lo compuso, pues no hizo tantas necedades de industria, que el echaran a galeras por todos las dìas de sua vida. Llevade a casa y leedle, y veréis que es verdad cuanto dél os he dicho”. (21)

* Giuseppe Brescia, Presidente della Libera Università “G. B. Vico” di Andria, Preside titolare nei Licei, Medaglia d’oro per i benemeriti della Scuola nel 1990 e Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica, dopo la fase filologica (La poetica di Aristotele e Croce inedito, del 1984), ha espresso un sistema in quattro parti: Antropologia come dialettica delle passioni e prospettiva in due volumi (Bari 1999); Epistemologia come logica dei modi categoriali (2000); Cosmologia come sistema delle scienze di frontiera (1998) e Teoria della tetrade (2002). Ha lavorato all’innesto tra umanesimo storicistico epistemologia ed ermeneutica, dando valore attrattivo ai tempi del “tempo” e della “Lebenswelt”; alle Ipotesi e problemi per una filosofia della natura (1987), L’azione a distanza (1990) e Pascal matematico (1991); alle attualizzazioni dei problemi del male e del sofisma (Critica della ragione sofistica, 1997; Ipotesi su Pico, 2000 e 2011; Il sogno di Castorp e il progetto di Pico, 2002; Il vivente originario. Saggio sullo Schelling, Milano 2013; I conti con il male, 2015).

Note

(1) F. MARQUEZ VILLANUEVA, Cervantes, alle pp. 473-495 con Bibliografia della Storia della civiltà letteraria spagnola. Dalle origini al Seicento, diretta da Franco MEREGALLI, Utet, Torino 1990; ma anche, dello stesso autore, Fuentes literarias cervantinas, Gredos, Madrid 1973.

(2) V. – tra l’altro -, dello scrittore siciliano, L’ironia comica nella poesia cavalleresca, “Nuova Antologia”, CXXXVIII (1908), pp. 421-437.

(3) ‘Prologo’ di Ramon Menéndez Pidal, Firenze 1933: cfr. il mio La filologia ispanica di Ezio Levi, in “La Gazzetta di Mantova” – “La Storia”, di mercoledì 7 dicembre 2016, p. 32.

(4) Cfr. “Luoghi dell’ Infinito”, aprile 2016, pp. 14-21.

(5) Tutte le opere, Milano 1985, Volume secondo, pp. 791-795.

(6) Molte edizioni italiane delle Novelle esemplari, ad eccezione di quella della B.U.R., ai nn. 1056-58 e 1059-62, e della Mursia di Milano, sono antologie comprensive di cinque, o sei di esse, su dodici, quali la traduzione di A. Giannini, per la Collana “Scrittori Stranieri” della Laterza, Bari 1912; o della UTET di Torino 1942, per le cure di Giovanni Maria Bertini; o nella resa di Mirella Ferracuti Garutti, con Introduzione di Giuseppe Mariani, Edizioni Paoline, 1962.

(7) Cfr. il mio “1994”. Critica della ragione sofistica, Laterza, Bari 1997.

(8) The Collected Essays, Journalism and Letters: Volume 1, Edited by Sonia Orwell and Ian Angus, ‘An Age like this’ 1920-1940, Penguin Books, London 1945-1968, pp. 475-483: mie le sottolineature nel testo. E, nello stesso contesto, si dice dei personaggi dickensiani: “No doubt Mark Tapley and Sam Weller are derived to some extent from Smollett, and hence from Cervantes”.

(9) The Collected Essays, Journalism and Letters: Volume 3, ‘As I Please’ 1943-1945, London 1968, pp. 320-324.

(10) V. Anthony BURGESS, A Meeting in Valladolid, in The Devil’s Mode, London 1989: ripreso a suo modo da Harold BLOOM, Il Genio, trad. it., nella Prima Sefirah, B.U.R., Milano 2002. – Ho sostato con piacere su Anthony Burgess, con Il ‘triplo gioco’ di Anthony Burgess, in Joyce dopo Joyce, L’Arte Tipografica, Napoli 2004, pp. 97-102.

(11) Antonio GASPARETTI, Nota a I sogni, B.U.R., Milano 1959, p. 21

(12) Edizione e traduzione di Vittorio Bodini, Einaudi, Torino 1957, pp. 63-73.

(13) Cfr., tra l’altro, Paolo SAVI-LOPEZ, Un petrarchista spagnuolo ( Gutierre de Cetina ), in “Rassegna Pugliese di Scienze Lettere e Arti”, XII/9, dicembre del 1895; B. CROCE, Lodi di Dame napoletane del secolo XVI, Napoli 1894; Giovanni Maria BERTINI, L’ Orlando Furioso nella sua prima traduzione ed imitazione spagnola, in “Aevum”, VIII/2, 1934, pp. 357-402; Maxime CHEVALIER, L’Arioste en Espagne (1530-1650): Recherches sur l’influence du Roland Furieux, Bordeaux, ‘Institut d’ Etudes Ibériques et Ibéro-Américaines’, 1966; L. ARIOSTO, Orlando Furioso, ediciòn bilingue de la traducciòn de Jeronimo de Urrea (1549), a cargo de Cesare Segre y M. de las Nieves Muniz Muniz, Catedra, Madrid 2002; Maria Caterina RUTA, Cervantes e l’Italia. Un furto di parole in corso, in “Parole rubate”, n. 8, dicembre 2013, pp. 97-124; e come curiosità, Francesco GUCCINI, Don Chisciotte, nel duetto con Juan Carlos Biondini.

(14) Cfr. le pp. 106-112 della edizione adelphiana, a cura di Giuseppe Galasso, Milano 1994; con la p. 296 per la relativa “Postilla”.

(15) 1883-1891; Tercera Ediciòn, Madrid 1920, Tomo III – Sieglos XVI-XVII, alle pp. 377-397.

(16) Cfr., sul punto, i miei volumi Teoria dei colori Alchimia e Apocalisse in Newton, Vitale Edizioni, Sanremo 2016; e Il sogno di Castorp e il progetto di Pico, Laterza, Bari 2005: anche sulla base della venerazione della Madonna dei Miracoli, al controsoffitto del 1633 nella Basilica di Andria.

(17) Letture di poeti, Bari 1950, alle pp. 52-62 del saggio sul “Persìles y Sigismunda”.

(18) Cfr. Il Genio, cit., Milano 2002, p. 66; con le dotte e appassionate divagazioni del Don Chisciotte cavalca ancora. Contro la solitudine, in “Corriere della Sera” – “Cultura” del 19 febbraio 2005.

(19) V. il mio Tra Vico e Joyce, Laterza, Bari 2007.

(20) Op. cit., Torino 1957, pp. 68-69.

(21) El ingenioso Hidalgo Don Quijote De la Mancha, Espasa-Calpe, Madrid 1940 e 1965, Collecciòn Austral, p. 40 in: 37-41.

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