> di Rossella Attolini*
Abstract: In this essay we want to analyze Nietzsche’s second Untimely Meditation, entitled On the Use and Abuse of History for Life (1874), in order to show the meanings of the adjective “untimely” (unzeitgemäß, literally ‘‘not according to time”). This adjective is present in the titles of the other Meditations too (Nietzsche published four of them, but he wanted to published thirteen Meditations, and that shows how great was the project to communicate his “untimely messages”). The intention of the philosopher, in each of these essays, is to show the different and opposite points of view (Gesichtspunkte) to those currents and shared in his time. That is what emerges from the Preface to On the Use and Abuse of History for Life, in which he defines as “untimely” the attempt, carried out in the book, to denounce the historical illness as damage of his time and to make men aware of it. But the denunciation is possible, as he admits, just because he is «a student of past eras, especially the greek one». As philologist in fact Nietzsche believes that the greek time can teach a “overhistorical” point of view on life, which can only be the condition of the rebirth of man and culture.
Nel presente saggio si intende analizzare la seconda Considerazione inattuale di Nietzsche, intitolata Sull’utilità e il danno della storia per la vita (1874), al fine di mostrare i significati dell’aggettivo «inattuale» (unzeitgemäß, letteralmente, “non secondo il tempo”). Tale aggettivo figura nel titolo anche delle altre Considerazioni – Nietzsche ne pubblicò in tutto solo quattro, ma ne aveva previste tredici (Cfr. la lettera a Georges Brandes del 10/04/1888, in Briefe von Friedrich Nietzsche, n. 1014, www.nietzschesource.org, 23/05/2016): ciò dimostra quanto fosse grande il progetto di comunicare i suoi “messaggi inattuali”. L’intenzione del filosofo, in ciascuna di queste Considerazioni, è innanzitutto mostrare dei punti di vista (Gesichtspunkte) diversi e contrari rispetto a quelli correnti e condivisi nel suo tempo (Cfr. la lettera a Georges Brandes del 4/05/1888, in Briefe von Friedrich Nietzsche, n. 1030, www.nietzschesource.org, 23/05/2016). È quanto emerge anche dalla Prefazione a Sull’utilità e il danno della storia per la vita, in cui egli definisce come «inattuale» il tentativo, di «intendere come danno, colpa e difetto dell’epoca qualcosa di cui l’epoca va a buon diritto fiera» (Nietzsche 2007, p. 4), specificando che si tratta della sua «formazione storica; perchè credo addirittura che noi tutti soffriamo di una febbre storica divorante e che dovremmo almeno riconoscere che ne soffriamo» (Nietzsche 2007, p. 4). Nietzsche si vuole fare portavoce del male divorante del suo tempo, la malattia storica. Ma la denuncia di essa gli è resa possibile, come egli confessa, solo in quanto «allievo di epoche passate, specie della greca» (Nietzsche 2007, p. 4). I «sentimenti tormentosi» (Nietzsche 2007, p. 4) che prova riguardo il suo tempo, sono causati, infatti, dalla sua esperienza di filologo, la quale è a sua volta condizione di «esperienze inattuali» (Nietzsche 2007, p. 4):
«Ma questo devo potermelo concedere già per professione, come filologo classico: non saprei infatti che senso avrebbe mai la filologia classica nel nostro tempo, se non quello di agire in esso in modo inattuale – ossia contro il tempo, e in tal modo sul tempo e, speriamolo, a favore di un tempo venturo» (Nietzsche 2007, pp. 4-5).
Secondo Nietzsche, quindi, lo scopo della filologia è di agire in modo inattuale. Ma ciò è ignorato dai suoi colleghi: infatti, ancora un anno dopo, nel 1875, egli scriverà che è interesse dei filologi del suo tempo che non si sappia che l’antichità, intesa nel suo aspetto più profondo, renda inattuali (Nietzsche 2009, 5 [31]). Essi, spiega Nietzsche, condividono, infatti, il pregiudizio sulla felicità del mondo antico, e, se questa loro convinzione fosse confutata, vacillerebbero tutti i loro studi (Nietzsche 2009, 5 [31]). Comprendere la verità sui Greci, come vedremo, è invece fondamentale per assumere un punto di vista inattuale e per agire in modo inattuale. Per capire il rapporto che intercorre, secondo Nietzsche, tra filologia e inattualità, è necessario illustrare il significato che egli attribuisce alla filologia. Esso emerge dalla prolusione intitolata Sulla personalità di Omero, tenuta all’inizio del semestre estivo del 1869 all’Università di Basilea e pubblicata in forma privata con il titolo Omero e la filologia classica. In questo testo Nietzsche si augura un cambiamento del modo di intendere la filologia, prospettando l’unificazione di quest’ultima con la filosofia.
«È diffusa l’opinione che la filologia abbia a che fare solo con i pensieri fissati per iscritto, e perciò solo con uomini del passato e con la loro concezione del mondo, mai però direttamente con la natura. Come se essa esaminasse solo gli occhiali con cui uomini lontani vedevano il mondo. – Ma se noi cerchiamo di intendere questi uomini straordinari, insieme ai loro pensieri, solo come sintomi di correnti spirituali, come sintomi della vita interrotta degli istinti, tocchiamo direttamente la natura. Lo stesso accade quando procediamo fino all’origine del linguaggio» (Nietzsche 1993, p. 188).
Chi si arresta ai pensieri scritti è quella «genia di filologi dei nostri giorni» (Nietzsche 1993, p. 287) che si affaccendano come «talpe, con le cavità mascellari rigonfie e lo sguardo cieco, contente di essersi accaparrate un verme, e indifferenti verso i veri, urgenti problemi della vita» (Nietzsche 1993, p. 287). Ma i pensieri scritti sono soltanto un effetto di superficie che lo sguardo del filologo deve oltrepassare, per estendere la sua comprensione alle manifestazioni della vita, sino alla natura. Nietzsche scrive che la filologia è in parte storia, perché vuole «comprendere in immagini sempre nuove» (Nietzsche 1993, p. 219) il fluire dei fenomeni, le manifestazioni degli individui e dei popoli. È scienza, perché spinge la sua ricerca a «sondare nel più profondo istinto dell’uomo, l’istinto linguistico» (Nietzsche 1993, p. 219), con il quale egli cerca di afferrare ed esprimere la sfuggente «vita ininterrotta degli istinti» (Nietzsche 1993, p. 219). Essa è, inoltre, estetica, poiché intende «dissotterrare un mondo ideale disperso» (Nietzsche 1993, p. 220) e contrapporlo come opera esemplare di fronte allo stato presente. Lo stretto legame tra filologia, storia e arte verrà ribadito anche nella Considerazione sulla storia (Cfr. Nietzsche 2007, pp. 98-99). L’unione di filosofia e filologia è auspicata e mostrata anche da Giorgio Colli. I filologi sono considerati da Colli, alla lettera, amanti del lógos: essi «vogliono decifrare il “discorso della vita”, scoprire la realtà attraverso le parole, della natura e soprattutto degli altri uomini» (G. Colli 2010, p. 31). Questa decifrazione, che attraversa le «parole» come sintomi per giungere a un testo ulteriore, a un tessuto di segni più ampio, non esibisce una conoscenza pura. La decifrazione filologica è estranea ai «filosofi puri» (G. Colli 2010, p. 31), guidati dalla fede razionalistica nell’autosufficienza del discorso astratto, che «estraggono per così dire il lógos dal lógos, allontanandosi ancor di più dalla realtà intima» (G. Colli 2010, p. 31), facendo dell’espressione l’unico fine. Il desiderio che guida la conoscenza pura – che essa animi la scienza o la filosofia – trova infatti soddisfazione nella chiarezza immobile dell’astrazione. La dimensione “logica” tuttavia può rendersi autosufficiente, soltanto una volta che ha deciso di allontanarsi dal sentire, di recidere la sua provenienza, di ergersi a puro discorso razionale senza più uno sfondo.
Come abbiamo visto, la conoscenza del passato, per Nietzsche, e non di un passato qualsiasi, ma dell’epoca greca, non deve essere sterile a se stessa, ma deve servire agli uomini per vivere. C’è un agire inattuale del sapere, che, pur giustificandosi in base a pensieri senza tempo, perchè descrivono qualcosa che è sempre uguale a se stesso («la natura» o «vita ininterrotta degli istinti»), può e deve, secondo il filosofo, agire sul tempo, modificandolo e guidandolo verso il meglio. Nietzsche non ha quindi scelto la rassegnazione di fronte alla consapevolezza del male del suo tempo; egli spera, al contrario, di poterlo ancora “svegliare”. Ma la necessità di una presa di coscienza e la volontà di cambiare le cose costituiscono i tratti caratteristici della filosofia marxista, attualissima al tempo di Nietzsche. Gli si potrebbe quindi obiettare che la sua speranza di «non interpretare il mondo ma trasformarlo», come recita l’imperativo filosofico di Marx, è tutt’altro che inattuale. Ma l’inattualità di Nietzsche va cercata in altro. Un indizio ce lo offre innanzitutto proprio il titolo della Considerazione sulla storia, in cui si esprime l’urgenza di capire se se sia utile studiarla o meno. Questa è infatti già una domanda inattuale, dato che la scienza in generale e quindi anche la scienza storica vanta il “disinteresse” tra le sue caratteristiche fondamentali. Egli si domanda se la storia sia utile, non a qualche scopo in particolare, ma a vivere. Se egli giudica la sua considerazione inattuale è perchè ritiene che nel suo tempo non si viva più, schiacciati da un eccesso di storia. Quest’ultima viene intesa genericamente da tutti come: 1) una scienza disinteressata, oggettiva e giusta; 2) un sapere enciclopedico da incamerare fino alla sazietà; 3) un processo che disvela sempre più il suo senso (Cfr. Nietzsche 2007, p. 13). Nietzsche avverte la necessità che l’uomo di conoscenza del suo tempo, che ha sposato questa concezione di storia, da fantasma esangue, a causa di uno studio fine a se stesso, si “reincarni” e reciti pienamente la sua parte nel mondo. Nietzsche vuole, cioè, che venga riabilitato l’animale nell’uomo. Non a caso il primo capitolo della Considerazione si apre con l’immagine, ispirata al leopardiano Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, di un gregge di animali che, legati come sono solo al piacere e al dolore dell’«istante» (Augenblick, momento non misurabile, battito di ciglia), vivono senza noia, senza finzione e senza dolore (cfr. Nietzsche 2007, p. 6). Come potrebbero soffrire, infatti, se non ricordano o dimenticano quello che fanno subito dopo averlo fatto? Per Nietzsche il segreto della felicità degli animali sta nel poter dimenticare, cioè nella capacità di sentire in modo «non storico» (unhistorisch zu empfinden, cfr. Nietzsche 2007, p. 6). Questa capacità è presente anche negli uomini in diversi gradi, ma mai in modo assoluto: sin da subito, infatti, nella loro vita, essi sono costretti a risvegliarsi dal loro oblio di bambini e a imparare la parola «c’era» (Nietzsche 2007, p. 7).
Ci sono uomini, comunque, scrive Nietzsche, che sanno dimenticare (perchè hanno una natura forte che trasforma il passato in forza vitale) e uomini che non sanno dimenticare, per cui sono schiacciati dal passato, anche da una minima sofferenza (cfr. Nietzsche 2007, p. 9). Notiamo l’equivalenza implicita stabilita da Nietzsche tra saper dimenticare il passato e saper dimenticare il dolore passato, come se nel passato ci fosse solo dolore. La natura dei primi uomini, quindi, scrive Nietzsche, «ciò che non vince, lo sa dimenticare; esso non esiste più, l’orizzonte è chiuso e completo, e niente può rammentare che al di là di esso ci sono ancora uomini, passioni, dottrine e scopi. E questa è una legge generale; ogni vivente può diventare sano, forte e fecondo solo entro un orizzonte (Horizont)» (Nietzsche 2007, p. 9). Se ciò non accade, continua Nietzsche, si avvia a fine prematura (Nietzsche 2007, p. 9). Il ricordo, infatti, come egli nota, per poter essere fecondo d’azione, non deve mai essere ricordo di tutto, cioè non può avere come oggetto la totalità delle cose, ma deve sempre essere selettivo. Dato che il ricordo costituisce l’essenza della conoscenza storica, quest’ultima non può essere intesa come scienza; in essa l’uomo deve selezionare solo modelli e spunti da cui partire per agire. Il ricordo è infatti deleterio per l’azione: è importante saperlo dosare, perchè l’eccesso di esso provoca immobilità o sofferenza estrema. L’eccesso di conoscenza è nocivo, in generale, per l’uomo: questo Nietzsche lo scrive anche nei suoi appunti preparatori alla Nascita della tragedia, affermando che la conoscenza va calibrata con l’arte, nel senso che deve essere completata e corretta da quest’ultima. E’ necessario, quindi, che l’uomo delinei attorno a sè, tramite precisi ricordi, un preciso orizzonte, per non vivere nel fiume infinito del divenire, nel caos indistinto delle cose passate: questa condizione è chiamata da Nietzsche punto di vista «antistorico» (Nietzsche 2007, p. 95). Il destino dell’uomo dipende sia dalla sua capacità di sentire in modo non storico (=quindi dalla sua capacità di dimenticare), sia dalla sua capacità di ritagliarsi un preciso orizzonte nella storia (Cfr. Nietzsche 2007, p. 10). Inoltre il dimenticare è condizione di ogni grande azione (Cfr. Nietzsche 2007, p. 12). Nello stato non storico, però, caratterizzato da un coinvolgimento di tutti i sensi e da uno stato di incoscienza, l’uomo agisce con ingiustizia, dal momento che le sue azioni si svolgono in un orizzonte limitato che ha tagliato fuori tutto il resto. Il sapere che nel cuore di chi agisce c’è cecità e ingiustizia, quindi assenza di senso, è definito da Nietzsche come il punto di vista «sovrastorico» (überhistorisch, cfr. Nietzsche 2007, p. 12). Per chi guarda da questa prospettiva, in ogni momento il mondo è completo e tocca il suo termine: la storia cioè, nonostante le sue apparenti trasformazioni, non cambia nel suo cuore e, di conseguenza, non cambia anche la conoscenza di essa (Cfr. Nietzsche 2007, p. 14). Rappresentanti del punto di vista «sovrastorico» sono anche l’arte e la religione, perchè esse «sanno la guardare ciò che è immutabile e fisso, volgendo lo sguardo dal divenire» (Nietzsche 2007, p. 95). La storia, quindi, è al servizio di una forza non storica, cioè della vita (cfr. Nietzsche 2007, pp. 15-16). Ma se la storia è al servizio della vita, anche la conoscenza della storia deve esserlo.
Per Nietzsche, quindi, deve esistere un modo di conoscere la storia che stimoli la vita e la conservi, risolvendo il problema dell’infiacchimento che egli vede nell’umanità e il pericolo della sua futura possibile estinzione. Gli antichi greci, a tal proposito, rappresentano un popolo che ha, rispetto ai suoi contemporanei, un diverso rapporto con la storia: per essi, scrive il filosofo, «colto e storicamente colto non sono la stessa cosa» (Nietzsche 2007, p. 33), vale a dire che per loro la conoscenza non ha necessariamente un’impronta storica. A causa della loro diversa concezione di cultura essi possiedono, secondo Nietzsche, ciò che gli uomini del suo tempo hanno perso: l’individualità (Nietzsche 2007, p. 33). La differenza tra interiorità ed esteriorità, cara ai tedeschi, è segno, infatti, afferma Nietzsche, della perdita dell’integrità: l’uomo è diviso tra un dentro e un fuori e cela il suo dentro (sempre se questo non si è ancora volatilizzato) con un’ «uniforme» (Nietzsche 2007, p. 43). Il tedesco è uguale agli altri nell’azione: quand’anche egli possa pensare, scrivere, stampare liberamente e diversamente, quando agisce, però, agisce come gli altri, non riesce ad andare oltre la convenzione (Nietzsche 2007, pp. 41 sgg.). Questo, secondo Nietzsche, deriva dal fatto che il tedesco del suo tempo ha troppa storia dentro di sè, un caos disorganizzato che non riesce a manifestarsi in un’azione unica (Nietzsche 2007, p. 36). Così dall’azione di un uomo è impossibile capire il suo carattere, perchè essa è accidentale rispetto a quel carattere, è accessoria, non lo esprime (Nietzsche 2007, p. 36). Inoltre, una vera azione, a rigore, non esiste affatto negli uomini del suo tempo: essi sono «cause senza effetti» (Nietzsche 2007, p. 41). Essi cioè non agiscono, ma si sono ridotti a puri conoscitori, «astrazioni concrete» (Nietzsche 2007, p. 43). E’ sbagliato, però, avverte Nietzsche, dare più importanza all’interiorità che all’esteriorità, perchè l’uomo è un essere che deve soddisfare i suoi bisogni, non rimangiarseli o illudersi di appagarli in modo astratto con i pensieri.
In un appunto del 1876 Nietzsche scrive che il valore della vita contemplativa si è ridotto e che il motivo per cui la sua Considerazione è inattuale è che in essa lo spirituale in senso religioso e lo spirito in senso umoristico non sono contrari (Nietzsche 1967, 17 [41]). Nietzsche sta cercando di ribaltare il pregiudizio platonico-cristiano per cui la vita dedita alla conoscenza sia migliore rispetto a quella improntata all’azione inconsapevole, non subito filtrata dalla conoscenza e dalla coscienza. Si dovrebbe raccomandare un riequilibrio tra vita contemplativa e vita attiva (ecco perchè egli parla di riduzione del valore dato alla vita contemplativa, non di eliminazione). Gli uomini del suo tempo, afferma Nietzsche, possono fare affidamento solo ai loro ragionamenti; infatti, se lasciassero libero l’istinto, non riuscirebbero a muoversi (Cfr. Nietzsche 2007, p. 40). Essi hanno soffocato l’animale che c’è in loro e chiamano questo «cultura» (cfr. Nietzsche 2007, pp. 32 sgg.). Ma la cultura deve coincidere con la vita, avere i suoi stessi scopi, non deve essere solo un suo ornamento. Nietzsche afferma che il modello sono ancora una volta i greci per superare questa scissione dentro-fuori: solo sapendo, come loro, reagire alla «inondazione delle tante cose straniere e passate» (Nietzsche 2007, p. 98), solo sapendo ricordare, cioè operare una selezione in base ai bisogni e agli istinti più suoi, che gli dicono cosa deve evitare e cosa no, cosa deve ricordare e cosa no, l’uomo potrà salvarsi. Un atteggiamento di questo tipo nei confronti della storia, viene a perdere sul versante della conoscenza oggettiva, nel significato che a questo termine danno i malati di storia, cioè quello di «purezza» (Nietzsche 2007, p. 50).
Nietzsche propone tre modi di conoscere la storia che si ispirano alla capacità dei greci di selezionare e ricordare. In primo luogo egli parla della conoscenza storica «monumentale» (Nietzsche 2007, p. 16). L’uomo che rappresenta questo tipo di conoscenza guarda alla storia convinto di trovare delle analogie con la sua vita e di poter rivivere e rifare dei grandi momenti che hanno caratterizzato la vita di grandi uomini. Le azioni che si ispirano a quei modelli andranno quindi a comporre la sua unità e a racchiudere tutta la sua essenza. Quando morirà, egli consegnerà all’oblio gli scarti della sua vita, ma le sue azioni rimarranno per sempre linfa vitale degli altri uomini a venire che vorranno ispirarsi a lui. Egli, in questo modo, avrà servito gli uomini futuri. Avrà dimostrato che ciò che una volta fu possibile, lo può essere ancora una volta: questa convinzione sarà denominata in seguito da Nietzsche “eterno ritorno dell’uguale” è sarà da lui considerata come il segreto che gli iniziati greci hanno appreso nei misteri (Cfr. Nietzsche 1986, 8 [15]). Il punto di vista degli storici monumentali è inattuale, perchè essi non si ispirano nell’azione agli uomini a loro contemporanei, dappertutto rozzi e ostacolanti il loro volere, ma a uomini del passato: non un passato “reale” o oggettivo, ma inventato, falsificato, distorto, perchè creduto condizione simile a quella che il loro tempo offre per agire (Cfr. Nietzsche 2007, p. 21). Nietzsche descrive anche altri due modi di conoscere e fare storia: «antiquario» e «critico». Lo storico antiquario serve la vita perché il suo orizzonte coincide con quello della sua patria: la sua storia è la storia del luogo in cui è nato, si sente parte inesorabile di esso, e non si staccherebbe mai da ciò che costituisce tutto il suo mondo. Preservando le tradizioni, l’arte, la storia che ha ricevuto in eredità, egli si sente il custode della storia (cfr. Nietzsche 2007, pp. 24 sgg.). Egli, però, avverte Nietzsche, rischia, nel suo venerare il passato anziché divinarlo, di soffocare ogni novità, ogni nuova azione e di far sì che «i morti seppelliscano i vivi» (Nietzsche 2007, p. 23). La conoscenza antiquaria della storia può scadere quindi nell’idolatria del passato e nella venerazione di ciò che è passato solo perché è passato.
L’amore incondizionato per ciò che è stato viene assolutamente meno, invece, in colui che lo condanna e lo critica a causa della sua ingiustizia. Egli giudica, infatti, in modo inattuale e sovrastorico, guarda cioè dal punto di vista della vita. Quest’ultima, come abbiamo visto, incarnando esattamente l’ingiustizia e la cecità di un qualcosa che vuole sempre insaziabilmente se stesso, come aveva insegnato Schopenhauer, «merita di perire» (Nietzsche 2007, p. 29), pensa lo storico critico. E’ importante però che la critica non generi solo critica: il tipico storico della sua epoca, afferma Nietzsche, è infatti malato di impotentia, vale a dire di un eccesso di critica (Cfr. Nietzsche 2007, p. 46). Egli non sa andare oltre le sue critiche trasferendole su un piano di azione e non sa trovare l’unità nei fenomeni che studia: al contrario, la storia, che, come abbiamo visto, per Nietzsche non è altro che un aspetto della filologia, deve essere alimentata secondo lui dalla volontà di oggettività. Quest’ultima, lungi dall’essere, come credono i contemporanei, ricerca della conoscenza giusta, deve invece essere ricerca dell’«unità» (Nietzsche 2007, p. 51). In generale, infatti, tutti i tre tipi di storici sono «sovrastorici», cioè sanno che la vita è una, indipendentemente dalle sue manifestazioni temporali (Nietzsche 2007, p. 14). Essi sanno mantenere il loro sguardo sui tempi, non sentendosi tardivi o epigoni, solo perchè sono venuti dopo. I tre tipi di conoscenza storica rappresentano il bilanciamento tra capacità di ricordare e capacità di dimenticare, auspicata da Nietzsche. E’ a partire da ognuno di loro che, potenzialmente, per il filosofo, può nascere una nuova cultura sul modello di quella greca, antistorica per eccellenza (Nietzsche 2007, pp. 98-99). E’ evidente, comunque, sia dal numero delle pagine dedicatevi, sia dall’importanza data all’aspirazione alla grandezza che la caratterizza, che la storia monumentale sia preferita da Nietzsche alle altre.
Nel 1871, quattro anni prima della pubblicazione della Considerazione inattuale sulla storia, Nietzsche ha pubblicato la Nascita della tragedia dallo spirito della musica. In questo libro, che mostra anche la personale interpretazione nietzschiana delle idee di Schopenhauer, Nietzsche da filologo e conoscitore dei greci, vi espone la loro antica sapienza senza tempo: essa è racchiusa nelle parole del Sileno che, interrogato dal Re Mida su quale sia il meglio per l’uomo, risponde che esso è non nascere o morire al più presto (Cfr. Nietzsche 1993, p. 35). Questa idea pessimistica che troviamo anche nell’Edipo a Colono di Sofocle è per Nietzsche un’inconfutabile e dolorosa verità, la ragione della strutturale sofferenza e insieme della grandezza del popolo greco. Senza questa disincantata certezza sulla vita, essi non avrebbero generato il mondo perfetto degli dèi e la bellezza artistica (Nietzsche 1993, p. 35). Nella Nascita della tragedia, infatti, viene espressa l’idea che il bello deriva dal brutto, e la felicità germoglia sul terreno del dolore. Nella Considerazione sulla storia Nietzsche si pone l’arduo compito di rendere attuale il pensiero del Sileno, per due motivi inattuale: perchè non fa parte della forma mentis della sua epoca, e perchè è un pensiero vero che travalica la sfera razionale della dimostrazione (non a caso è un mito a rappresentarlo al meglio). Inattuale quindi è un modo originariamente greco di “sentire” la vita e la sua essenza di ingiustizia e cecità. Ma inattuale è anche la filosofia di Schopenhauer, non acclamata infatti dai suoi contemporanei, che è espressione ulteriore di questo sentire e che Nietzsche intimamente condivide, pur combattendo contro il pessimismo di questa indimostrabile certezza: la vita è volontà, quindi dolore. Il collegamento dell’inattualità con il problema della vita e con l’arte in Nietzsche è stato sottolineato da Thomas Mann. Le sue Considerazioni di un impolitico (1918) riecheggiano nel titolo le Considerazioni inattuali di Nietzsche. Se l’aggettivo «inattuale» significa non voler essere portavoce delle idee del proprio tempo e anzi criticarle, «impolitico» in Mann è sinonimo di «inattuale», nella misura in cui egli non condivide la politica, la «nuova moda», figlia della storia francese, che minaccia di diffondersi in Germania al tempo della prima guerra mondiale. L’impoliticità e l’avversione alla democrazia caratterizzano fortemente anche Nietzsche secondo Mann, per il quale politica è sinonimo di democrazia. Essere impolitico significa pertanto non essere democratico, ma soprattutto essere veramente «tedesco», non necessariamente nel senso geografico del termine (Nietzsche, infatti, era di origini polacche, come sottolinea Mann). Il vero tedesco, secondo Mann, come Nietzsche ma anche Wagner, Schopenhauer e Goethe mostrano nei loro scritti, non vuole tacere o nascondere la vera natura della vita, che non cambia mai, illudendosi con false pretese di migliorarla, al contrario dei democratici che credono nel progresso. Questi artisti vogliono piuttosto celebrare la vita nel suo essere così com’ è e propugnano, pertanto, un tipo di arte impolitica, che non serve la causa del (presunto) bene e del (presunto) male. In Nietzsche, infatti, l’arte non si fa portavoce delle istanze di progresso e di uguaglianza tra gli uomini. L’ arte deve coprire, correggere, giustificare, e solo nell’ educazione al bello l’umanità può trovare, secondo lui, il proprio compimento e completamento. L’arte in Nietzsche, sottolinea Mann, non è la fine della volontà, contemplazione apatica delle idee, come voleva Schopenhauer, e neanche celebrazione isterica della bellezza (come ha creduto D’Annunzio) ma è volontà al massimo grado e rappresentazione insieme, vita e coscienza della vita, spirito e animalità. Secondo Mann, infatti, l’insegnamento più importante che ha lasciato Nietzsche è quello di «conservare la vita» (in questo senso, a fronte di un eccesso di illuminismo, secondo Mann, Nietzsche recupererebbe l’istanza conservatrice e fatalista di Hegel nei confronti della vita). Nietzsche non dev’essere quindi ricordato, per Mann, come il teorico del superuomo, ma come lo psicologo della decadenza che ha visto nell’arte l’ antidoto al fenomeno europeo della ipertrofia del razionalismo e dell’astrazione che distanzia dalla vita.
La negazione della razionalità come essenza del processo storico rende Nietzsche inattuale in un’ epoca che crede fermamente al progresso in tutti i campi (si pensi al pensiero scientifico ottocentesco, in cui domina la visione positivistica di Comte o alla nota tesi hegeliana secondo cui la razionalità è connaturata alla realtà, nella Prefazione ai Lineamenti alla filosofia del diritto: «ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale»). La seconda Considerazione inattuale è, a tal proposito, illuminante sul rapporto che intercorre tra Nietzsche e Hegel. E’ noto che quest’ultimo abbia posto un forte accento sulla dimensione storica, processuale della verità, la quale coinciderebbe appunto con la storia, cioè con il dispiegamento e la manifestazione di un principio razionale. Per Hegel la filosofia è la risultante della storia del sapere e della storia delle azioni che quel sapere ha come oggetto. La filosofia è attuale nel senso che prende atto del presente e lo spiega alla luce dell’intera storia dell’umanità. Ogni uomo è figlio del proprio tempo, e non può uscire fuori da esso; il filosofo quindi se ne sta fuori dalla storia potendola guardare solo a posteriori, e riconoscere che il proprio tempo è razionale e concorre con tutti i tempi al progresso della storia. La considerazione nietzschiana è una critica allo storicismo di matrice hegeliana, anche se si pone nel solco di una speranza tipica della visione storicistica: quella che l’umanità possa andare verso il meglio. Dieci anni dopo rispetto alla pubblicazione di Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Nietzsche infatti, confesserà in un appunto che, quando ha scritto per la prima volta la parola «inattuale» sui suoi libri, questa ha espresso troppa giovinezza, inesperienza e oscurità: «Oggi io comprendo, che con questo tipo di lamento, entusiasmo e insoddisfazione, io invece appartenevo al più moderno dei moderni» (Nietzsche 1975, 2 [201]). E’ il 1885 e Nietzsche mostra una visione pessimistica riguardo a un possibile cambiamento dell’umanità. In un altro appunto dello stesso anno egli scrive, infatti, di sentirsi sì, ancora inattuale, ma di non aver trovato ancora degli uomini che, come lui, portano una «maschera» (Cfr. Nietzsche 1975, 36[17]). Come si può notare, la funzione della maschera è quella di coprire, separare il volto dall’esterno. Più in avanti, nella sua riflessione, Nietzsche definisce il filosofo anche «eremita» (Nietzsche 1975, 36[17]). Notiamo come le parole «maschera» ed «eremita», indicando una separazione temporale e spaziale, esprimano il significato di «inattuale». Sempre nell’appunto menzionato, Nietzsche chiama se stesso e gli uomini che assomigliano a lui anche «tentatori», Versuchenden: in tedesco – ma anche in italiano – il verbo «cercare» (suchen) e il verbo «tentare» (versuchen) sono molto simili, ma hanno due significati diversi, ed è come se Nietzsche li usasse entrambi, per indicare che chi “cerca” (=il filosofo) nello stesso tempo “pecca”, perché non accetta più la visione del mondo consacrata dalla tradizione, dall’abitudine e dalla pigrizia degli uomini “non pensanti”. Nietzsche elogia, invece, i «pensatori che pensano altro e nello stesso tempo non si accontentano del pensiero» (Nietzsche 1975, 36[17]), perché non vogliono essere solo teste pensanti ma uomini d’azione (contrariamente agli uomini astratti già descritti nella Considerazione inattuale sulla storia). Nietzsche vuole totalmente distinguersi dai pensatori del suo tempo: i «liberi pensatori» nordamericani. Essi, infatti, hanno come lui riconosciuto la necessità di non «credere alle anime, perché io nego la personalità e la sua apparente unità e trovo in ogni uomo la testimonianza di molte diverse maschere, per cui per me lo spirito assoluto e la conoscenza pura significano favole, dietro le quali si nasconde una contraddizione» (Nietzsche 1975, 36[17]). Tuttavia, ciò che separa questi pensatori da lui, scrive Nietzsche, oltre al fatto che non hanno ancora negato Dio, sono le «valutazioni» (Nietzsche 1975, 36[17]). Essi, infatti, a differenza di lui, sono politicamente orientati in senso democratico e vogliono uguali diritti:
«essi vedono nelle forme delle antiche società fino ad ora le cause dell’umana degenerazione e povertà, essi si entusiasmano per la distruzione di queste forme di società. Essi sono i “livellatori”: io voglio anche nelle cose dello spirito, guerra e contrarii e più guerra e più contrarii che mai» (Nietzsche 1975, 36[17]).
Il passo è una chiara allusione e critica dei marxisti e degli hegeliani. Esso continua così:
«non iniziamo con la rappresentazione dell’attuale ordine e differenza di valori degli uomini, ma noi vogliamo anche il contrario di un assomigliare, di un riequilibrio: noi insegnamo l’estraneazione in ogni senso, laceriamo abissi, come nessuno ancora ha fatto» (Nietzsche 1975, 36[17]).
Ma cos’è l’estraniazione se non un sinonimo di inattualità? Ciò può accadere però solo nel pensiero e tramite il pensiero, attraverso una guerra contro le idee del tempo attuale, al fine di distaccarsene. In un appunto del 1887, Nietzsche scrive che «i tedeschi di oggi non sono più pensatori» (Nietzsche 1975, 9 [188]); se lo fossero, infatti, egli continua, capirebbero che il principio di cui egli ha parlato in Così parlò Zarathustra, cioè la volontà di potenza, non è da intendersi come base di un sistema. Nietzsche ha infatti constatato amaramente che il suo pensiero, in quanto essenzialmente ostile al sistema, è incomprensibile ai tedeschi. Il suo pensiero si conferma così inattuale, perchè non (ancora) compreso dal suo tempo. L’appunto si conclude con questa frase: «Io non faccio più attenzione al lettore: come potrei scrivere per il lettore?…Ma io scrivo su di me, per me» (Nietzsche 1975, 9 [188]). Questa frase è emblematica di come ormai Nietzsche si sia reso conto che i suoi libri non possano arrivare al lettore del suo tempo e che, per lui, sia inutile scrivere: la sua natura inattuale gli chiede quindi di rinchiudersi in una dimensione privata. Nietzsche confessa, infatti, come emerge dalle sue parole, di avere ora un particolare rapporto con la scrittura: essa è lo specchio dei propri pensieri più profondi, comprensibili a lui solo. Quello che scriverà da ora in poi, non avrà più lo scopo di comunicare e trasmettere un messaggio a un numero molteplice di individui, ma avrà una funzione simile a quella di un diario personale. Nietzsche non ha più intenzione di scrivere per farsi capire e per ‘‘agire sul suo tempo”. Scrivere per se stesso significherà, da questo momento, pensare senza una maschera, nella dimenisione di pura inattualità che solo i greci hanno conosciuto.
Bibliografia
Briefe von Friedrich Nietzsche, www.nietzschesource.org.
G. Colli, Apollineo e dionisiaco, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano, 2010.
T. Mann, Considerazioni di un impolitico, Adelphi, Milano, 1997.
F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano, 2007.
F. Nietzsche, Frammenti postumi inverno/primavera 1875-primavera 1876, Adelphi, Milano, 2009.
F. Nietzsche, Appunti filosofici 1867-1869 – Omero e la filologia classica, Adelphi, Milano, 1993.
Nietzsche, Frammenti postumi (1875-1876), Adelphi, Milano, 1967.
F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Orsa Maggiore Editrice, Settimo Milanese (MI), 1993.
F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885-1887, Adelphi, Milano, 1975.
F. Nietzsche, Frammenti postumi 1884-1885, Adelphi, Milano, 1975.
F. Nietzsche, Frammenti postumi 1882-1884, Adelphi, Milano, 1986.
* Rossella Attolini svolge il Dottorato di ricerca presso la Albert-Ludwigs-Universität di Friburgo in Brisgovia. Oggetto dei suoi studi è, sin dagli anni universitari, la filosofia di Giorgio Colli e il suo contributo alla comprensione del pensiero di Nietzsche. Nel 2014 è stata fellow del Kolleg Friedrich Nietzsche di Weimar (ex Nietzsche-Archiv). Nel 2015 si è abilitata all’insegnamento di Storia e Filosofia nei licei.
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