> di Matteo Loconsole*
Sommario: In questo saggio l’autore, partendo dai presupposti linguistici del Tractatus logico-philosophicus, tenta di definire quale rapporto ci sia tra la sfera dell’etica, i cui contenuti per Wittgenstein rientrano nella categoria dell’ineffabile, e la vita religiosa.
Parole chiave: Wittgenstein; Linguaggio; Etica; Fede; Religiosità
Abstract: In this paper the author, starting from the language assumptions of the Tractatus logico-philosophicus, tries to define what is the relationship between the ethics field, whose contents for Wittgenstein are into the category of the ineffable, and religious life.
Keywords: Wittgenstein; Language; Ethics; Faith; Religiosity
Dopo tutto […] è poi vero che le parole dicono tutto? Che cosa possono dire le parole? Non distruggono piuttosto il simbolo che si cela oltre la loro portata?
V. Woolf, Flush: biografia di un cane, p. 31.
INTRODUZIONE
Può un non “credente” essere religioso? Probabilmente, l’opinione comune non potrebbe che negare una tale ipotesi o, per lo meno, sarebbe dubbiosa a riguardo. Si è soliti pensare, infatti, che essere religiosi significhi credere in una dottrina e praticare ciò che essa prescrive. Questa convinzione, nella maggior parte dei casi, ha fatto della religione una sorta di codice, un insieme di regole, che avrebbe dovuto indicare all’uomo la ‘retta via’ affinché ottenesse la salvezza dell’anima. Merito di Wittgenstein è stato quello di sovvertire il concetto di religione individuando, nel sentimento religioso, il mostrarsi della vita etica.
Obiettivo di questa trattazione sarà quello di dimostrare che, nonostante non possa parlarsi di etica, essa può comunque mostrarsi nella vita di un uomo che abbia una condotta religiosa.
Per dimostrare questa tesi si vedrà, in primo luogo, che il compito della filosofia, nell’accezione wittgensteiniana, è quello di stabilire i limiti del dicibile e, inoltre, che tutte quelle filosofie che hanno provato a pronunciarsi in materia di etica, senza considerarne l’ineffabilità che le è propria, sono insensate (§1); in secondo luogo, si esaminerà il concetto di vita religiosa e si vedrà come lo stesso Wittgenstein, pur non essendo stato un credente stricto sensu, abbia condotto la sua vita in modo religioso (§2).
§1 Filosofia: un bagliore tra le tenebre del nonsenso
Cos’è la filosofia? Nel Tractatus logico-philosophicus Wittgenstein scrive:
Lo scopo della filosofia è il rischiaramento logico dei pensieri.
La filosofia è non una dottrina, ma un’attività.
L.Wittgenstein, TLP, 4.112.
La filosofia, quindi, è definita come un’attività di chiarificazione. Essa si configura come il tentativo di sbarazzarsi della confusione dovuta a un cattivo uso del linguaggio, tracciando la linea di confine tra senso e nonsenso e, quindi, tra ciò che può dirsi e l’ineffabile. Come osserva Ray Monk, obiettivo del Tractatus era appunto quello di ‘ripulire’ le filosofie dai loro errori evitando di rispondere a domande che, già nella loro formulazione, erano insensate (Cfr. R. Monk 2008, pp. 20-21; cfr. Id. 1991, pp. 289, 297, 327, 503). L’unico modo per evitare il proliferare di questi nonsensi filosofici, sarebbe stato quello di formulare una teoria del linguaggio logicamente perfetto, ossia «[u]n linguaggio segnico […] il quale si conformi alla grammatica logica […]» (L. Wittgenstein, TLP, 3.325). Non a caso, nel Tractatus Wittgenstein affermerà che «[t]utta la filosofia è critica del linguaggio» (Ivi, 4.0031). Ma cos’è il linguaggio? E soprattutto: perché Wittgenstein definisce le teorie filosofiche dei nonsensi? Per rispondere a queste domande occorrerà comprendere il significato della teoria del linguaggio come raffigurazione, secondo la quale la proposizione è una raffigurazione della realtà che descrive (Cfr. R. Monk 1991, p. 123; cfr. L. Wittgenstein, TLP, 4.023).
In primo luogo, si consideri che la funzione delle proposizioni è quella di asserire o negare una porzione della realtà o, come più avanti si dirà, di asserire o negare fatti (Cfr. B. Russell, Introduzione, p. 4). Inoltre, ciò che permette a una proposizione di comunicare uno stato di cose è il fatto di avere, con la realtà che descrive, una comune struttura logica: la proposizione deve essere logicamente articolata nello stesso modo in cui è articolata la realtà che descrive. Solo in questo caso la proposizione sarà “immagine logica” della realtà e (Cfr. L. Wittgenstein, TLP, 4.03, 4.032), solo in quanto immagine di uno stato di cose possibile, essa sarà sensata. D’altro canto, solo una proposizione sensata potrà essere vera, o falsa, a seconda che essa concordi, o discordi, con lo stato di cose di cui è raffigurazione (Cfr. R. Monk 1991, p. 124; cfr. Id., 2008, p. 29; cfr. L. Wittgenstein, TLP, 4.06; cfr. Id., Quaderni 1914-1916 (02/10/1914), pp. 136-137). Quindi, poiché la proposizione raffigura uno stato di cose e, poiché «[l]a totalità delle proposizioni è il linguaggio» (L. Wittgenstein, TLP, 4.001), ne segue che il linguaggio non è altro che l’espressione sensibile della realtà. Ora, l’immediata conseguenza di questo discorso, ossia che tutto ciò che è fuori della realtà non può essere espresso dal linguaggio, è ciò su cui è necessario concentrarsi per comprendere quanto in questo paragrafo si vuole dimostrare: l’insensatezza delle filosofie nella loro accezione tradizionale.
Prima di tutto si osservi che, nel definire la funzione raffigurativa del linguaggio, sono stati menzionati i concetti di “fatto” e “stati di cose”, definiti come ciò di cui il linguaggio è immagine, e si è attribuito alla realtà la proprietà di essere articolata. Ma cosa s’intende con questi concetti? La risposta la si trova nelle prime proposizioni del Tractatus. In esse, infatti, Wittgenstein asserisce che α) «[i]l mondo è la totalità dei fatti» (Ivi, 1.1; cfr. Ivi, 1); β) i fatti rappresentano «[…] il sussistere di stati di cose» (Ivi, 2); γ) e«[l]o stato di cose è un nesso d’oggetti […]» (Ivi, 2.01; cfr. R. Monk 1991, p. 133). Gli oggetti, quindi, rappresentano ciò che è fisso ed è la loro configurazione, ossia la reciproca relazione che tra essi intercorre, a determinare gli stati di cose, o i fatti, di cui il mondo si costituisce. Il mondo, quindi, è formato non da cose, bensì da fatti, con la differenza che le cose sono semplici, mentre i fatti sono articolati (Cfr. R. Monk 2008, p. 41; cfr. L. Wittgenstein, TLP, 2.0271, 2.0272).
E proprio questo, che i fatti siano articolati, è ciò che conduce Wittgenstein, attraverso il concetto di “immagine”, alla nozione di pensiero. Nel Tractatus, infatti, si legge che «[n]oi ci facciamo immagini dei fatti» e (L. Wittgenstein, TLP, 2.1), più avanti, che l’«immagine è un modello della realtà» (Ivi, 2.12). Ora, come si è detto riguardo alle proposizioni, la capacità raffigurativa dell’immagine risiede anch’essa nel fatto di avere, con lo stato di cose che rappresenta, una comune struttura logica. Inoltre, anche in questo caso, un’immagine ha senso solo se rappresenta il sussistere di uno stato di cose possibile (Cfr. Ivi, 2.15, 2.151, 2.18, 2.201). A questo punto, data la definizione di immagine, si può introdurre la fondamentale nozione di “pensiero”. Il pensiero è l’immagine logica dei fatti (Cfr. Ivi, 3), ed è espresso nelle proposizioni del linguaggio (Cfr. Ivi, 3.1). In altri termini, si potrebbe dire che il pensiero è una sorta di mediatore tra la realtà, di cui ci si fa un’immagine, e la possibilità di esprimersi su di essa, per mezzo del linguaggio.
Questa analisi conduce alla tesi più importante di questo paragrafo: può dirsi solo ciò che può essere pensato, ossia ciò di cui ci si può fare un’immagine. Il linguaggio, quindi, non ha alcun senso se tenta di raffigurare ciò che è fuori delle condizioni di pensabilità, ossia ciò che è fuori della realtà. E questa asserzione preannuncia la questione dell’insensatezza delle filosofie. Esse, infatti, hanno provato a esprimersi sull’impensabile avventandosi «[…] contro i limiti del linguaggio […]» (L. Wittgenstein, Conferenza sull’etica, p. 18; cfr. Id., Pensieri diversi, p. 84). Ora, però, prima di giungere al tema centrale della trattazione e capire cosa per Wittgenstein costituisca il regno dell’ineffabile, è opportuno ricordare che la proposizione sensata è quella che rappresenta uno stato di cose possibile e, inoltre, che la proposizione è vera se concorda effettivamente con il fatto di cui è immagine (Cfr. L. Wittgenstein, TLP, 4.2, 4.062; cfr. D. Antiseri 1974, p. 16). Da questo, infatti, segue che «[…] i fatti sono ciò che corrisponde alle proposizioni (vere)» e (R. Monk 2008, p. 41), per Wittgenstein, «[l]a totalità delle proposizioni vere è la scienza […]» (L. Wittgenstein, TLP, 4.11; cfr. R. Monk 2008, p. 41).
Adesso, a fronte delle premesse sinora enunciate, si può procedere spiegando la funzione chiarificatrice della filosofia e, di conseguenza, il motivo per cui le filosofie, nell’accezione tradizionale, sarebbero dei nonsensi. Prima di tutto, si consideri che la critica di Wittgenstein è rivolta a tutte quelle filosofie che hanno cercato, proponendo teorie, di definire l’essenza dell’etico. Ma «[l]’etico non si può insegnare. Se io potessi spiegare a un altro per il solo tramite di una teoria l’essenza dell’etico, allora l’etico non avrebbe proprio alcun valore» (L. Wittgenstein, Appunti di conversazioni con Wittgenstein, p. 24). Ora, l’impossibilità di pronunciarsi in materia di etica può essere spiegata nel modo seguente. In primo luogo, si consideri che per Wittgenstein «[i]l senso del mondo dev’essere fuori di esso […]» (Id., TLP, 6.41). Inoltre, come è scritto nella Conferenza sull’etica, se da un lato «[…] si può mostrare come tutti i giudizi di valore relativo siano pure asserzioni di fatti, nessuna asserzione di fatti potrà mai essere, o implicare, un giudizio di valore assoluto» (Id., Conferenza sull’etica, p. 9), ossia un giudizio etico. Per di più, se anche si rispondesse a tutte le possibili domande scientifiche, e quindi ci si raffigurasse tutti i fatti nel mondo, non sarebbero in alcun modo toccati i problemi vitali (Cfr. Id., TLP, 6.52; cfr. Id., Conferenza sull’etica, p. 9). In secondo luogo, si consideri che l’etica, poiché sorge «[…] dal desiderio di dire qualcosa sul significato ultimo della vita, il bene assoluto, l’assoluto valore […]» (Id., Conferenza sull’etica, p. 18), «è soprannaturale […]» (Ivi, p. 11), ossia al di là del mondo. Quindi, poiché le proposizioni della scienza possono descrivere solo stati di cose e, poiché «[l]’etico non è uno stato di cose» (L. Wittgenstein, Ludwig Wittgenstein e il circolo di Vienna, p. 81; cfr. Id., La conferenza di Wittgenstein sull’etica, p. 36; cfr. R. Monk 2008, p. 51), ne segue che su di esso non ci si può pronunciare. Le proposizioni etiche, infatti, sarebbero insensate.
In questo senso la filosofia è un’attività di chiarificazione. La filosofia, infatti, delimita dall’interno l’impensabile attraverso il pensabile: essa stabilisce il dicibile, ossia le proposizioni della scienza naturale (Cfr. L. Wittgenstein, TLP, 4.111, 4.113-4.115), determinando così l’ineffabile, ossia ciò che ha valore assoluto: l’etico (Cfr. Id., Conferenza sull’etica, p.8). Dopotutto, già in una lettera a Ludwig von Ficker riguardante il Tractatus, Wittgenstein aveva scritto «[…] il mio lavoro consiste di due parti: di quello che ho scritto, ed inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante» (Id., Lettere a Ludwig von Ficker, p. 72); e questa seconda parte è l’etica.
§2 Etica come religiosità
Dopo aver definito la funzione chiarificatrice della filosofia e aver posto l’etica nella sfera dell’assoluto, si consideri un passo fondamentale della Conferenza sull’etica. In esso si ribadisce che solo le proposizioni scientifiche hanno senso; quelle dell’etica, invece, sono insensate perché «[…] con esse io mi proponevo proprio di andare al di là del mondo, ossia al di là del linguaggio significante […]» (Id., Conferenza sull’etica, p. 18; cfr. D. Antiseri 1974, p. 35). L’errore dei filosofi, quindi, è stato quello di aver posto domande sull’ineffabile, adottando il metodo della scienza. Ora, però, se il modo di procedere dei filosofi è privo di senso e se, dunque, nessuna proposizione etica può formularsi perché insensata, potrà l’etica manifestarsi in qualche modo? Sì:
[…] essa si mostra in ciò che gli uomini fanno e dicono, nel loro modo di lodare e di disprezzare, di criticare gli altri e se stessi, in ciò a cui si sentono costretti, in ciò che per essi è ‘escluso’, nel loro modo di soffrire, di gioire, e così via.
L. Wittgenstein, La conferenza di Wittgenstein sull’etica, p. 31.
L’etica, quindi, non può essere espressa da proposizioni: una verità etica deve essere vissuta (Cfr. D. Antiseri 1974, p. 34).
Adesso, fatta luce su questo, ci si concentrerà sul fatto che una vita etica si manifesta nell’espressione di un sentimento religioso. E, a questo proposito, si cercherà di comprendere sia cosa Wittgenstein intenda quando parla di religione, sia in qual modo egli abbia conciliato il suo modo di vivere con un sentimento di tipo religioso (Cfr. R. Monk 1991, pp. 128, 308). Per iniziare questa analisi sarà utile citare alcune parole del suo amico Paul Engelmann:
Quello che la vita e il lavoro di Wittgenstein mostrano è la possibilità di un nuovo atteggiamento spirituale. È secondo «un nuovo modo di vita» che egli visse, ed è per questo che finora non è stato compreso: infatti un nuovo modo di vita significa un nuovo linguaggio. […] Il linguaggio di Wittgenstein è quello della fede non espressa in parole.
P. Engelmann, Fede senza parole, p. 107.
Attraverso queste parole, Wittgenstein è descritto come l’inventore di un nuovo linguaggio: non però un linguaggio che veicoli una qualche dottrina, bensì un linguaggio che si mostri nel suo modo religioso di vivere. Inoltre, il fatto che la vita religiosa sia intesa come condotta pratica e non come credenza, è indice dell’influenza, quasi certa, di Nietzsche (Cfr. Ivi, pp. 126-128). Infatti, in un passo dell’Anticristo, letto da Wittgenstein mentre era a Cracovia, è scritto che: «[è] falso sino all’assurdo vedere in una “fede” – ad esempio quella cristiana – […] il segno distintivo del cristiano: soltanto la pratica cristiana, una vita come la visse colui che morì sulla croce, soltanto questo è cristiano …» (F. Nietzsche, L’anticristo: maledizione del cristianesimo, p. 50). Da queste parole traspare che la critica rivolta da Nietzsche alla religione cristiana è analoga a quella che Wittgenstein, in alcuni passi delle Lezioni sulla credenza religiosa, fa al concetto generale di religione. L’atteggiamento dell’uomo religioso, infatti, non consiste, per Wittgenstein, nel cercare di fornire prove a sostegno di dottrine, bensì nel vivere in modo religioso (Cfr. R. Monk, 1991, pp. 128, 405-406, 566; cfr. L. Wittgenstein, Lezioni sulla credenza religiosa, pp. 154, 165).
Ma cos’è una vita religiosa? Essa consiste nel riconoscere i propri peccati attribuendo a se stessi, e non al mondo, la causa della propria infelicità. Come scrive Wittgenstein: «[…] l’uomo religioso si crede miserabile» (L. Wittgenstein, Pensieri diversi, p. 90). Soltanto chi saprà riconoscere la propria indegnità e proverà per tutta la vita a migliorare se stesso, attraverso la redenzione dai propri peccati, sarà religioso (Cfr. P. Engelmann, Questioni religiose, p. 49; cfr. R. Monk 1991, p. 189). Ma, probabilmente, la peculiarità dell’uomo religioso è proprio quella di non smettere di sentirsi colpevole, cosicché la massima espressione di religiosità sarebbe nel bisogno costante di migliorare se stessi. L’atteggiamento spirituale di Wittgenstein, quindi, consiste in una fede religiosa che «[…] è anche un modo di vivere, o di giudicare la vita» (L. Wittgenstein, Pensieri diversi, p. 123). In una lettera a Engelmann, datata 02/01/1921, Wittgenstein mostra il suo sentimento religioso descrivendo così la sua condizione: «[…] avevo un compito, non l’ho adempiuto e perciò adesso sto sprofondando. […] ma io so, che mi manca qualcosa di basilare» e (Id., Lettere di Ludwig Wittgenstein, (02/01/1921), pp. 22-23), come avrebbe scritto diversi anni dopo «[…] ho bisogno di una certezza […] e questa certezza è la fede» (Id., Pensieri diversi, p. 71). Come si può ben notare, ciò di cui Wittgenstein sente il bisogno per non cadere nel baratro della disperazione, per non essere infelice, non è la credenza in una dottrina, bensì quell’atteggiamento spirituale che, dopo averlo reso consapevole dei suoi peccati, lo avrebbe spinto alla redenzione. Solo questo tipo di vita rende religioso un uomo e mostra se stessa per quello che è: una vita etica.
Adesso, a fronte di quanto si è detto, si vede in quale rapporto siano tra loro etica e religione: l’una può esservi solo in presenza dell’altra. Come si legge nei Pensieri diversi «[s]olo il soprannaturale può esprimere il soprannaturale» (Ivi, p. 21); detto altrimenti: solo una vita religiosa può mostrare l’essenza dell’etico. Inoltre, la vita religiosa, nell’accezione wittgensteiniana, include anch’essa il concetto di Dio. Ed è proprio questo concetto a rendere soprannaturale, ossia al di là dei fatti, la religiosità di un uomo. A questo proposito, nei Quaderni si legge che «[i]l senso della vita, cioè il senso del mondo, possiamo chiamarlo Dio» e (Id., Quaderni 1914-1916, (11/06/1916), p. 217), più avanti, che «[c]redere in un Dio vuol dire comprendere la questione del senso della vita» (Ivi, (08/07/1916), p. 218). Adesso, in conformità con quanto si è detto precedentemente (§1), ossia che il senso del mondo è fuori di esso, ne segue che la religione, come pure l’etica, è soprannaturale. Ed è sorprendente, a questo proposito, il fatto che il punto in cui etica e religione convergono sia proprio il concetto di Dio. Essere felici, infatti, significa vivere in armonia con Dio e Dio non è che la voce della coscienza (Cfr. Ivi, (08/07/1916), p. 219). Cercando Dio nella sfera dell’interiorità, Wittgenstein conclude che la felicità consiste nel vivere in armonia con se stessi, tentando, attraverso una vita religiosa, di portare a compimento la propria redenzione. Ed è in questo senso che, per eliminare ciò che rende problematica la vita, l’unico mezzo è «[…] un modo di vivere che fa scomparire ciò che rappresenta un problema» (Id., Pensieri diversi, p. 60). E fu proprio la vita di Wittgenstein ad essere dominata da un problema, un conflitto di tipo morale. Egli, infatti, credeva che il compimento della redenzione consistesse nel raggiungimento dell’Aständigkeit, la decenza, e che l’unica via per conseguirla consistesse nella demolizione dell’edificio dell’orgoglio e nella resistenza alla vanità (Cfr. Ivi, p. 58; cfr. R. Monk 1991, pp. 275-277). Ed essere vanitosi significava, per Wittgenstein, preoccuparsi del parere altrui e voler dare, per questo motivo, una buona immagine di sé, anche senza essere fedele alla verità.
Adesso, stando al concetto di “vita religiosa”, si può ben immaginare che un atteggiamento di questo tipo non sarebbe stato assolutamente ammissibile. E fu proprio la consapevolezza di vivere diversamente da come avrebbe dovuto che spinse Wittgenstein a cambiare se stesso e a compiere, tra l’altro, un gesto radicale. Egli si disfece del suo patrimonio abbandonando, così, tutto ciò che gli sembrava vano e ridicolo e che mai avrebbe potuto renderlo una persona migliore (Cfr. P. Engelmann, Questioni religiose, p. 50). L’integrità etica, dopotutto, deve essere cercata nell’uomo, e non fuori di esso. Egli, inoltre, si mostrò sempre consapevole del suo status di peccatore tanto da scrivere, in una delle sue lettere a Engelmann, di sentirsi più degno soltanto nel riconoscimento della propria indegnità (Cfr. L. Wittgenstein, Lettere di Ludwig Wittgenstein, (16/01/1918), p. 9). Per di più ogni sua azione, dall’insegnamento alla partecipazione alla guerra, era da lui considerata come un dovere e ogni avversità era affrontata con la consapevolezza che non un mutamento nei fatti esterni, bensì solo un cambiamento in se stessi, avrebbe potuto costituirne il rimedio (Cfr. P. Engelmann, Questioni religiose, pp. 45, 49-51; cfr. D. Antiseri 1974, p. 34). La sua coerenza, inoltre, si mostrò sino alla fine della sua vita. A dimostrazione di ciò, si consideri che prima di morire egli pensava al giudizio finale preoccupandosi, però, non della salvezza della sua anima, e quindi dell’aldilà, bensì di aver raggiunto quel rigore etico che solo gli avrebbe garantito la riconciliazione con Dio: cioè con la sua coscienza. A fronte di tutto questo, si può ben comprendere che il fatto di non essere stato un credente stricto sensu, non può assolutamente ritenersi in contraddizione con la cerimonia cattolica che fu riservata per la sua sepoltura: solo una “fine” religiosa, infatti, sarebbe stata coerente con il modo religioso in cui egli visse (Cfr. R. Monk 1991, pp. 566-567).
CONCLUSIONE
Dal primo paragrafo di questo lavoro, è emerso che la filosofia stabilisce ciò che può dirsi e ciò che, non potendo essere colto dal linguaggio, può solo mostrarsi: l’etico (§1). Nel secondo paragrafo, invece, si è definita la religione come modo di vivere e si è detto che l’essenza dell’etico si mostra proprio nell’espressione di un sentimento religioso. Infine, si è rilevato che esemplare di questo tipo di religiosità fu proprio la vita di Wittgenstein (§2).
Nel corso della trattazione, inoltre, è emerso sia che l’uomo religioso è quello che riconosce la propria indegnità, sia che la riconciliazione con se stesso cui egli aspira, può conseguirsi solo raggiungendo la propria integrità etica. L’uomo religioso, quindi, o progredisce verso una redenzione che non potrà mai del tutto realizzarsi, dovendo sempre riconoscere la propria indegnità, o, se riuscirà a redimersi, smetterà di essere religioso. Una volta redento, infatti, non potrebbe più riconoscersi indegno, e questa è condizione necessaria di una vita religiosa.
Nel corso del primo paragrafo, inoltre, nel definire la teoria della raffigurazione come è esposta nel Tractatus, si è sottolineato che ciò che consente al linguaggio di raffigurare la realtà è il fatto di condividerne la struttura logica. Adesso, parafrasando le parole di Hans-Johann Glock, il quale si sofferma sull’ineffabilità della struttura logica del linguaggio (Cfr. H. J. Glock 1996, p. 107), sarebbe interessante approfondire sia il motivo per il quale la logica, come l’etica, possa solo mostrarsi, sia quale ruolo, per Wittgenstein, abbia la logica all’interno del Tractatus.
In conclusione, si propone un passo in cui è condensato il senso della religiosità wittgensteiniana:
Una buona dottrina […] non deve trascinare; la si può seguire, come si segue una prescrizione medica. – Qui però si deve essere trascinati e rivoltati da qualcosa. – […] E una volta rivoltati, rivoltati si deve rimanere. […] La religione è per così dire il fondale marino più profondo e calmo, che rimane tranquillo per quanto alte siano le onde in superficie.
L. Wittgenstein, Pensieri diversi, pp. 104-105.
Bibliografia
1. Fonti
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P. Engelmann, Questioni religiose, in B. F. McGuinness, Lettere di Ludwig Wittgenstein con ricordi di Paul Engelmann, trad. it. di I. Roncaglia Cherubini, La Nuova Italia, Firenze, 1970, pp. 43-53.
F. Nietzsche, L’anticristo: maledizione del cristianesimo, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano, 22a ed. 2006, vol. VI, t. III.
B. Russell, Introduzione, in L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916 (1964), trad. it. di A. G. Conte, Einaudi, Torino, 7a ed. 2009, pp. 3-20.
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L.Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Id., Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916 (1964), trad. it. di A. G. Conte, Einaudi, Torino, 7a ed. 2009, pp. 3-109.
V. Woolf, Flush: biografia di un cane (1979), trad. it. di A. Scalero, Milano, La Tartaruga, 6a ed., 2012.
2. Studi
D. Antiseri, Prefazione all’edizione italiana, in L. Wittgenstein, Lettere a Ludwig von Ficker, trad. it. di D. Antiseri, Armando, Roma, 1974, pp. 7-44.
R.Monk, Leggere Wittgenstein, trad. it. di G. Rigamonti, Vita e Pensiero, Milano, 2008.
R.Monk, Ludwig Wittgenstein: il dovere del genio, trad. it. di P.Arlorio, Bompiani, Milano, 1991.
3. Strumentario
H. J. Glock, A Wittgenstein dictionary, Blackwell, Oxford, 1996.
* Matteo Loconsole (1992), ha conseguito la laurea triennale presso l’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna (110 e lode), con una tesi dal titolo Generazione cosciente: la questione neomalthusiana in Italia (1905-1915), ed è prossimo al conseguimento della laurea magistrale in Scienze filosofiche.
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6 giugno 2016 alle 09:32
Complimenti! Wittengstein è uno di quei pensatori che hanno molto da dire riguardo a nodi fondamentali del nostro tempo: per es. la questione tra scienza e fede; la relazione tra scienza, filosofia ed etica; la religione, il linguaggio. Tuttavia poco conosciuto dai non addetti ai lavori e poco studiato nei licei. Varrebbe la pena di approfondirlo proprio per l’importanza che attribuisce all’uomo in quanto portatore di senso: “Il soggetto non appartiene al mondo, ma è un limite del mondo”(Tractatus logico-philosophicus e Quaderni, Vol: I, pag. 64, 5.632. personalmente, lo rileggerò. Grazie per la proposta!
Rosaria Di Donato
12 agosto 2016 alle 01:31
La ringrazio! Effettivamente il pensiero di Wittgenstein ha sollevato tante questioni ed ha messo in discussione tanti aspetti della filosofia tradizionale da non poter non essere approfondito. Grazie ancora.