> di Omar Montecchiani*
Perfino in un sistema specificamente metafisico come quello di Schopenhauer – seppure dai tratti esistenziali così marcati – emerge in modo ineludibile la duplicità intrinseca del fenomeno corporeo per come appare alla coscienza.
Da una parte, essendo l’uomo sottomesso alle categorie di spazio, tempo e causalità – costitutive del principium rationis – esso (il corpo) appare come oggetto, come ente spazio-temporalmente situato, come ente-tra-gli-enti; dall’altra, essendo il corpo una concrezione di bisogni, desideri, pulsioni e atti volitivi, esso ci è dato come Volontà [1], cioè come tensione sentita e non categorizzabile. Anzi, il corpo stesso è visto come l’obiettivazione prima della Volontà: che sorge al di là (prima) della coscienza, della rappresentazione, e degli stessi fenomeni.
Io ho coscienza di “essere” un corpo, secondo un sentimento interno ineliminabile, ma topologicamente non localizzabile; e – al tempo stesso – “ho” la certezza del mio corpo come oggetto [2], in quanto posso toccarlo io stesso esteriormente: e questa dialettica ineliminabile tra il sentire “che” senza riuscire a conoscere definitivamente il “che cosa”, e tra l’interno e l’esterno, appartiene allo statuto del corpo in modo specifico e assoluto.
Vista così, sembrerebbe quasi che sia una visione obiettivistica che una visione intellettualistica, potrebbero accostarsi a questa ambiguità risolvendola in sistemi coerenti e totalizzanti – ma parcellizzerebbero con ciò il fenomeno del corpo vivente, impedendo una giustificazione globale dello stesso. L’una, infatti, assolutizzerebbe la parte biologica riducendo la vita del corpo alle funzioni dei suoi organi e la percezione a un fatto, a una cosa – negando il soggetto della percezione; l’altra assolutizzerebbe un Ego trascendentale, riducendo il mondo, l’esperienza e il corpo proprio, al correlato di un pensiero che “costituisce” il mondo astraendosene al tempo stesso [3]. Entrambi sottintendono però l’essenziale: cioè la realtà. Peccano di realismo cioè, misconoscendo l’interazione dinamica, parziale, coessenziale e significatoria (intenzionale), tra il corpo proprio e la presenza di questo nel mondo, nel quale in corpo si articola [4].
Dal punto di vista del corpo vivente inteso come presenza-nel-mondo, se l’approccio biologistico appare riduzionistico e obiettivante, l’approccio coscienziale si presenta quantomeno come fuorviante e posticipato: non è la coscienza infatti, che spinta dall’istinto biologico “utilizza” gli enti, ma è quella originaria apertura all’essere che è il corpo come Leib che, rendendo “disponibili” gli enti, fa si che una coscienza possa “comprenderli” [5].
Dunque è vero che il corpo si presenta al tempo stesso sia come soggetto “del mondo” che come oggetto “nel” mondo – come cosa tra le cose [6] –, ma questa ambiguità sostanziale e intrinseca tra soggetto e oggetto, si rivela altresì nella inestricabilità e insolubilità dei termini stessi in questione, all’interno della appercezione corporea.
Gli oggetti che vengono percepiti dal corpo tattile, infatti, e il corpo tattile che viene percepito dal corpo stesso, risultano essere due oggetti completamente diversi. La mano che tocca un oggetto rivela questo nella sua posizione nel mondo e nella sua forma specifica, e rispetto a me, e relativamente alle mie intenzioni: ma se io tocco “questa” mano che tocca “quell’oggetto”, non avrò altro che un aggregato di muscoli, nervi e ossa [7]. È dunque vero che il corpo per me rappresenta una presenza stabile, permanente [8]: ma in quanto corpo “percepiente” gli-altri-oggetti, esso non è obiettivabile alla maniera degli altri oggetti. Anzi: è esso stesso che, in quanto centro prospettico permanente ma impossibile da percepire [9], dischiude gli oggetti e il mondo, il senso di esso per me, e il significato di ogni atto che mi costituisce in quanto soggetto intenzionale e progettante. L’impossibilità di scindere soggetto e oggetto nel corpo vivente sta a indicare che noi stessi “siamo” prima di tutto il nostro corpo, che non ci appartiene come un oggetto, ma rappresenta altresì la nostra apertura originaria sul mondo in quanto soggetti umani, e che esso si dispiega nel mondo in quanto presenza. È per questo che il corpo inteso come Leib non può mai divenire un “utilizzabile”, non può mai diventare un oggetto tra gli oggetti in senso forte, perché il complesso degli strumenti utilizzati si riferisce a questo centro che “io sono”: essi lo “indicano” in quanto strumento, come sbocco necessario. Ma in quanto tale, questo centro non è mai colto “direttamente” perché è già implicato in un rapporto vivente di utilizzabilità e di significazione di questa stessa strumentalità. Ulteriormente, si potrebbe dire, fuori contesto, che è esso stesso l’”utilizzabilità”, la “strumentalità”, in quanto corpo che “io sono”, e non che utilizzo, e questo perché il corpo stesso è da sempre impegnato e coesteso all’interno e per il mondo delle proprie possibilità e progetti esistentivi. Se il corpo fosse appercepito come strumento tra gli strumenti, infatti, ci sarebbe un regresso all’infinito [10].
Il corpo può essere inteso metaforicamente come il punto di vista irradiante tutti gli altri punti di vista, ed è perciò che non può essere visto, reso cosa: nel senso specifico che fa tutt’uno tra esso come “punto di vista” e colui per il quale esso è punto di vista – e proprio perché non può esserci un punto di vista trascendente rispetto al proprio corpo, ciò significa da una parte che non esiste una coscienza tetica del corpo proprio, e dall’altra che il falso e inverificabile problema della scissione corpo-mente si rivela superato, a partire dalla grande lezione della fenomenologia esistenziale [11].
A questo proposito è la stessa Ellen West che intuitivamente esprime in unità il rapporto mente-corpo : «Il mio io interiore è cosi strettamente legato al mio corpo che entrambi formano un’unità che costituisce il mio io, il mio illogico, nervoso, individualistico io» [12].
In conclusione, io non posso mai percepire il mio corpo percepiente in quanto è il mio corpo stesso a dispiegare attraverso i propri centri percettivi il mondo per-me [13]: ed è partire da ciò, sintetizzando all’estremo, che si può dire che il corpo vivente – il corpo come Leib – è sempre altro da sé, è trascendenza, ulteriorità. In una parola, “alterità”. Infatti,
«[…] la presenza corporea è sempre al di là di sé, fino agli orizzonti raggiunti dai sensi che si pro-gettano nel mondo. Una mano che si pro-tende non compie un movimento, ma apre un cammino verso un oggetto che lo sguardo aveva già raggiunto e in qualche modo aveva consegnato alla mano per non arrendersi al vuoto desiderio» [14].
Il rifiuto del corpo vivente, che esistenzialmente e fenomenologicamente parlando consegue da una “insicurezza ontologica” radicale, a partire da una distorsione/perturbazione rispetto al proprio rapporto con il mondo, si esprime in modo estremo nell’anoressia, secondo i tratti psicotici della patologia stessa.
Il tratto fenomenologico più evidente della patologia, è dato dal fatto che l’anoressica è sempre sottoposta alla passività rispetto al proprio corpo: è proprio perché cerca di controllarlo che subisce lo scacco del discontrollo, ma il controllo stesso del corpo, paradossalmente, è l’unico rimedio che il soggetto riesce a escogitare per superare la paura del limite e della morte simbolica [15] anticipandola. Ma questo rimedio si rivela essere peggiore del male che intendeva curare. La dialettica del controllo-discontrollo, infatti, è funzionale a un cambiamento che non viene percepito come l’insieme delle possibilità non ancora esplicitate e suscettibili di attualizzazione e inveramento, ma rappresenta una minaccia sempre incombente, e quindi un mistero che inghiotte e annichilisce ogni progettualità esistentiva [16]. Tutto il sistema psicofisico dell’anoressica, esistenzialmente disturbato da un disequilibrio fondamentale del rapporto io-mondo, cerca di mantenere – attraverso uno stereotipato controllo esteriore del corpo – una economia energetica di rapporti tra gli impulsi, che l’attività spasmodica del controllo contribuisce paradossalmente a mantenere in disequilibrio, attraverso la dinamica estrema del compenso-scompenso.
Dal più ampio (rispetto a quello psicoanalitico) punto di vista fenomenologico-esistenziale, il controllo del corpo nell’anoressia è il segno reale dell’impossibilità per l’uomo di rendere oggetto il proprio corpo. Infatti, rispetto a questo atteggiamento, sorge un banale quanto spontaneo interrogativo: se il corpo fosse oggettivabile, cioè vivibile come un oggetto (quindi nella totale assenza di sensazioni propriocettive, impulsi, emozioni etc.) perché investire così tante energie per controllarlo? Perché dedicarsi, nella costanza irrinunciabile , necessaria e quanto mai ossessiva, ad una attività di controllo? Perché il corpo non è controllabile, non è oggettivabile – mai. Il controllo dell’anoressica infatti, non è nient’altro se non un mero, disperato “tentativo” (sempre fallimentare perché destinato ad una ripetizione infinita) di renderlo strumento di se stessi. Ma essendo l’uomo un corpo, l’autoalienazione risultante da questo tentativo di renderlo altro da sé, non può che rimandare indietro al soggetto la virulenza del corpo stesso.
Nel rapporto dell’anoressica con la vita, non c’è più quello che Merleau-Ponty chiama “Il rapporto di comunione con il mondo”: il patto della vita con la vita si è sciolto, si è spezzato – il rapporto con l’Alterità è divenuto conflittuale, persecutorio, paranoide in senso ontologico. Se cambia la nostra visione del mondo infatti, a partire dalla distorsione del rapporto di reciprocità con esso, automaticamente il nostro stesso corpo – da sempre indicato come il termine inobbiettivabile di questo rapporto – viene vissuto in modo conflittuale dal soggetto anoressico. Diviene cioè il teatro del tentativo di risolvere una battaglia senza autentici nemici. L’anoressica cioè scambia il proprio corpo con il nemico, nel momento in cui il mondo in cui questo corpo vive, diventa una minaccia assoluta, minaccia però che si ricollega alla propria incapacità di sostenere il rapporto con esso: la mancata integrazione con il mondo e la fragilità intrinseca della personalità anoressica, fanno si che il soggetto ipostatizzi le radici problematiche di questo legame disturbato in uno soltanto dei termini di questo stesso legame – il corpo appunto. L’altro termine del rapporto, il mondo cioè, diventa automaticamente il proprio stesso corpo: il solo capro espiatorio possibile per ristabilire – secondo una modalità tragica, cioè destinata all’insuccesso – questa reciprocità frammentata. Il corpo, in questa forma di esistenza “mancata”, non esprime il mio-essere-corpo, ma diventa corpo “alienato”, corpo-ostacolo, corpo oggetto, corpo altro-da-me, da eludere e da distruggere al tempo stesso, a partire da una riduzione della mia presenza-nel-mondo, che nel corpo trova la sua dimensione espressiva più propria e originaria (essendo il corpo l’apertura prima del mondo e sul mondo, può diventare una chiusura del mondo e sul mondo).
Se da una parte l’ideale della a-corporeità compensa l’insicurezza ontologica, dall’altra il corpo ostacolo diventa, rispetto all’ideale psicotico, motivo di angoscia: continuando a essere il mio-corpo ma in modo “alienato”, il corpo vivente si riduce a una superficie esposta allo sguardo altrui, e quindi si trasforma nel luogo in cui si realizza il delirio di essere osservati, in cui la vergogna scatena l’angoscia per la rottura possibile dell’Io de-corporeizzato [17]. Ma se l’Io interiore imputa al corpo oggettivato, anatomico, la responsabilità della propria angoscia da “osservazione”, ciò significa che il rifiuto del corpo implica – essendo al tempo stesso la possibilità di relazionarmi all’altro, di comunicare con l’altro e di essere al mondo come presenza – il rifiuto dell’altro e del mondo: il ritiro del corpo rappresenta, in questo senso, un ritiro dal mondo [18].
Nella vergogna il soggetto cerca di sfuggire alla dimensione ontologica che lo lega al mondo della vita, per il tramite del proprio corpo: la mia corporeità vivente viene svuotata della propria volontà e consegnata alla volontà dell’altro, ed è in questo senso ulteriore che il corpo diviene cosa. Con il rifiuto del corpo il mondo della vita si dissolve: il corpo rifiutato diviene corpo cosa, ed è consegnato automaticamente alla volontà altrui.
Il corpo qui non è più “soggetto di intenzioni”, ma diviene “oggetto di attenzioni” [19]: il dominio del corpo sfocia in una circolarità psicotica in cui l’auto-osservazione paranoide per il controllo, è solo la faccia opposta e conseguente ad una auto-alienazione dal mondo, che fa del corpo un rifugio alienante e un sepolcro vuoto insieme [20]. Dominio e schiavitù; proiezione e invasione, rifugio e tomba: sono solo alcune delle facce speculari e antinomiche della tautologia esistenziale anoressica, rispetto al suo ritiro dal mondo della vita e alla obiettivazione del corpo vivente.
Se «l’essenza del bisogno – come sostiene Lévinas – è costituita dalla distanza che si frappone tra l’uomo e il mondo dal quale egli stesso dipende» [21], abbiamo in questo una ulteriore conferma fenomenologica della posizione anoressica, relativamente al suo ritiro dal mondo-della-vita come modalità di essere-nel-mondo: la dipendenza dal bisogno e dal mondo può trasformarsi infatti nella minaccia che l’anoressica non riesce a sostenere. Ecco allora che il ritiro nel corpo deve diventare, ulteriormente, non solo un ritiro dal mondo, ma da un corpo-senza-mondo, un corpo senza bisogni. È il corpo-cadavere di Sartre, che non essendo più in situazione, non essendo più intenzionato, si rapporta al mondo solamente attraverso la propria esteriorità ossea.
Ma il corpo si rivela corpo-oggetto a partire non solo dalla Stimmung ossessiva della vergogna, ma anche a partire dalla dinamica ricattatoria classica dell’anoressica, che, per farsi ascoltare – per placare la sua infinita fame d’amore – sospende il linguaggio verbale prendendo in ostaggio il proprio corpo (corpo-ostaggio), in una dialettica ricattatoria con l’Altro, che rovescia i termini classici del ricatto. Qui non è il carnefice che ricatta la vittima, ne è il potere della vittima, il suo sguardo trascendente sul carnefice (Sartre) che impone il proprio potere: è la vittima stessa che prende in ostaggio se stessa, per ricattare attraverso la suggestione dell’impotenza il proprio carnefice. La vittima cioè, facendosi carnefice di se stessa, rende vittima della propria impotenza il carnefice-Altro. Ma al tempo stesso l’Altro è, per l’anoressica, il carnefice di cui ha bisogno per esercitare la propria potenza ricattatoria, in quanto persegue il segno del suo amore (dell’Altro) e il segno della sua propria potenza (dell’anoressica). Il sintomo corporeo, in questo senso, esprime un linguaggio altro dal linguaggio verbale quando quest’ultimo diviene impossibile. La coercizione dell’altrui attenzione rispetto a sé viene ad incarnarsi nel corpo: la sofferenza e la malattia rappresentano – dal punto di vista di una forma di esistenza incapace di esprimersi diversamente –, nel bisogno vitale dell’altro e al tempo stesso nella incapacità di tollerarne la presenza, l’unico modo di rapportarsi all’altro e a se stessi nell’anoressia mentale [22].
Oltre a ciò, si può facilmente intuire che dal punto di vista del corpo vivente intenzionato e pro-gettante rispetto al mondo, l’autolesionismo, in ogni sua forma, altro non indica che il tentativo disperato di ridurne la propria presenza nel mondo – cosi come le pratiche di svuotamento e di digiuno.
In questa condizione, l’anoressica cerca di evitare la sensazione di minaccia e di vergogna nei confronti del mondo esterno rispetto al proprio corpo vivente rendendolo oggetto, corpo-oggetto (Körper) e non “facendosi” corpo-vivente (Leib): ma, paradossalmente, la scarnificazione e lo svuotamento della propria presenza nel mondo – in nome della propria soggettività ideale – e quindi del proprio corpo, attira lo sguardo degli altri sulla propria presenza [23]. Si attiva così nuovamente un ulteriore circolo vizioso: all’oggettivazione-ritiro del proprio corpo vivente, che ha come fine l’eliminazione dello sguardo altrui (in un senso, a questo punto, molto vicino alla trascendenza nientificante sartriana), della vergogna e della minaccia dell’alterità, segue una ancor di più serrata attenzione dello sguardo dell’altro, cui segue, di conseguenza, un ulteriore senso di minaccia, di vergogna, e di invasione [24]. Proseguendo ancora si ha, a partire da questa sensazione obiettivante dello sguardo altrui, una pietrificazione, un irrigidimento ulteriore della e nella propria ipseità. Da qui, la catatonia della “persona-cosa”, che altro non è, dunque – esistenzialmente parlando – che il modo di progettarsi nel mondo come cosa dell’anoressica, a partire dal suo non-esserci.
Nell’anoressia mentale infatti, osserviamo che il corpo – ritirandosi dal mondo e quindi dalla propria polarità vivente, e, in sostanza, dal mondo della vita – non rappresenta più il luogo dell’alterità, della significazione dinamica, interdipendente e funzionale rispetto al proprio essere-nel-mondo, ma viene a sostituirsi alla immagine idealizzante della propria identità artificiale, che non tollera di essere scalfita, intaccata, che non tollera di essere “imperfetta”. Facendo una piccola digressione, da questo punto di vista, si potrebbe dire che la critica baudrillardiana alla iper-realtà della società post moderna, si incardina perfettamente nel discorso anoressico dell’iper-controllo dell’alterità del proprio corpo, per il tramite della idealizzazione della perfezione dell’immagine: «Nei lineamenti del volto, nel sesso, nelle malattie, nella morte, l’identità è perpetuamente alterata – ecco il corpo come destino che dev’essere scongiurato a ogni costo, nell’appropriazione del corpo come proiezione di sé, nell’appropriazione individuale del desiderio, dell’apparenza, dell’immagine: chirurgia estetica su tutti i fronti. Se il corpo non è più un luogo di alterità ma d’identificazione, allora bisogna con massima urgenza riconciliarsi con esso, ripararlo, rifinirlo, farne un oggetto ideale. Ciascuno si comporta con esso come l’uomo con la donna nella identificazione proiettiva: lo investe come feticcio, facendone l’oggetto di un culto autistico, di una manipolazione quasi incestuosa» [25].
Il discorso della intrascendibilità del corpo, dicevamo inizialmente, viene misconosciuto dalla alienazione anoressica, che si avvale – nel suo delirio di onnipotenza – di una presunta libertà “assoluta”: libertà assoluta che pretende (in una sorta di malafede sartriana, o jankélévitchana) di sganciarsi completamente dalla datità stessa, a partire dalla quale solamente potrebbe esercitarsi e articolarsi la libertà, e, viceversa, solamente a partire da questa libertà impegnata in un progetto, questa stessa fatticità potrebbe assumere un senso per me [26]. Non rendendosi conto però, ulteriormente, che il suo progetto di autodominio del corpo – che è un avere sostanzialmente – non potrebbe sussistere se non all’interno di una zona di progetti già “fatti” [27], in una co-esistenza cioè, in un mondo co-umano [28]: «L’autocoscienza diventa un’assoluta conoscenza del noi (Wir-Erkenntnis), conoscenza dell’assoluta soggettività totale, nella cui concrezione si costituisce il mondo in quanto mondo per tutti, in quanto avere in generale» [29].
Ma tutto ciò porta il nostro ragionamento ad arenarsi in una affermazione paradossale ma legittima: se io sono il mio corpo, sfuggire il proprio corpo, tentare di liberarsene, significa sfuggire da se stessi. Forse è questo una delle dimensioni di senso esistenziali più importanti, più originali e sottaciuti del discorso anoressico, quello di una presenza che può vivere solo negandosi come presenza [30] – solo negando se stessa. In questo senso emerge il tratto tipicamente “irresponsabile” della anoressia mentale e, spesso, di molte patologie psicosomatiche:
«La realtà corporea, intesa come vissuto corporeo, rappresenta la trama in cui i fili dell’esistere si intrecciano per esprimere la presenza, esperienza originaria nella quale il soggetto e l’altro si trovano indissolubilmente congiunti nella dimensione della co-esistenza. Se il desiderio, come dice Lacan, “è sempre desiderio dell’altro”, è evidente che l’anoressica cerchi concretamente nella sfera della corporeità di salvaguardarsi e di trovare un’autarchia mortifera dove il detto altrui è sempre escluso, così com’è evidente che l’iperfagico introietta l’altro come cibo per possederlo ma non per integrarlo» [31].
Ulteriormente il corpo dell’anoressica, rivelandosi come corpo-oggetto, si rivela anche, nella iniziazione cinetica, come corpo astratto: è sempre infatti “in un mondo” che – al di là della volontà assoluta e delirante, che vorrebbe sganciarsi dalle condizioni mondane all’interno delle quali solamente potrebbe articolarsi – il corpo vivente viene a appercepirsi in quanto tale. Ma se il corpo vivente “sano”, anticipa continuamente il mondo delle sue possibilità percettive, moltiplicando le intenzioni tattili e motorie in una sorta di attualità plastica, senza che queste possibilità vengano ad abbandonare il loro posto di possibilità; nel soggetto anoressico, l’attuale si riduce all’effettivo, che viene collegato in modo deduttivo, in virtù di un corpo vissuto come massa amorfa, e che quindi deve ricorrere a un movimento astratto e centripeto/proiettivo per concludere un movimento intenzionato e intenzionale [32]. Qui è il corpo stesso che si fa fine del movimento e non mezzo del movimento, all’interno di uno spazio vissuto, cioè di uno spazio abitato e posseduto, che si cristallizza, e all’interno del quale non è possibile per il soggetto iscrivere progetti, tracciare linee di forza, organizzare comportamenti, in una polarità significatoria tra intenzioni e mondo [33]. La famosa rigidità del “corpo anoressico” sta a indicare, in questo senso ulteriore, proprio il rovesciamento tra corpo vivente e mondo. Il corpo, che viene significato come oggetto, mette in evidenza uno sganciamento tra il corpo vivente e il mondo circostante, nel senso che, se è vero che ogni coscienza è coscienza di qualche cosa, e quindi il soggetto è soggetto di intenzioni e di significazioni rispetto a un oggetto e rispetto dunque a se, se cessa di definirsi attraverso l’atto di significare, il soggetto cade inevitabilmente all’interno dello statuto di cosa [34]. Non è più coscienza intenzionale per-sé, ma in-sé: nel suo movimento centrifugo il soggetto anoressico non è stimolato o provocato da alcun oggetto esistente, perché il mondo viene visto come già bello e fatto, cristallizzato, impenetrabile, opaco. Il movimento si disgrega spezzettandosi, disperdendosi nella esistenza in-sé, diventando un processo oggettivo nel corpo [35].
Tornando al corpo come Leib, possiamo dire in conclusione che l’esistenza dell’arto fantasma e la sua resistenza a “scomparire”, ci dicono ulteriormente che l’immagine del corpo non è né un prodotto della coscienza né un fenomeno biologico, ma una struttura della presenza [36] (la stessa cosa potrebbe essere avvalorata ulteriormente non solo dal fenomeno della anosognosia, ma anche da quello della aprassia). È, in sostanza, il mio corpo che, avendo abitato un mondo attraverso quell’arto che ora gli manca, per “dimenticarsi” di esso, dovrebbe addirittura negare quella parte di mondo che esso occupava e significava, attraverso il suo “prendere”, “conquistare”, “progettarsi” etc. Relativamente alla distorsione dello schema corporeo nell’anoressia allora, emerge con forza il “diverso” rapporto tra corpo vivente inteso come presenza appunto, e mondo-della-vita. Se è vero che lo schema corporeo si forma attraverso la separazione tra corpo e mondo e attraverso la proiezione del primo verso il secondo, e, viceversa, mediante il “trattenimento” del mondo contro il corpo [37], nella esperienza psicotica – che è solo una delle forme estreme del fenomeno anoressico, ma che proprio in quanto forma estrema può farci comprendere in modo paradigmatico alcune verità generali sull’intero fenomeno –, si ha una frammentazione della totalità propriocettiva dell’immagine corporea, nella sua dinamicità ed evoluzione, rispetto al mondo della vita [38]. A partire da una disgregazione assoluta, sia formale che contenutistica, tra le parti del corpo e la loro totalità, non assistiamo più a una separazione tra sé e mondo, ma a una sovrapposizione esistenziale indistinta e allucinata delle due realtà.
Il corpo oggetto, deietto, de-privato dei propri confini rispetto al corpo altrui, vive le cose del mondo come aggressive e minacciose: in questo senso, come appunto avviene nel sintomo anoressico, la cura – come detto inizialmente – si è rivelata peggiore del male. La fame dell’anoressica infatti viene a rappresentare – in questa coestensione fantasmatica tra corpo e mondo – un vuoto incolmabile: visto che non c’è più una autentica dialettica separatoria e di ricambio al tempo stesso fra i due termini del rapporto, l’unica modalità di sopravvivenza resta l’autodivorazione [39].
[1] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, tr. it. di P. Savj-Lopez e G. De Lorenzo, Ed. Laterza, Bari, 2002, p. 126.
[2] K. Jaspers, Psicopatologia generale, tr. it. a cura di R. Priori, Ed. Il pensiero scientifico, Roma, 2008, p. 95. e p. 383.
[3] M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, tr. it. di A. Bonomi, Ed. Studi Bompiani, Milano, 2005, pp. 283-285.
[4] U. Galimberti, Il corpo, Ed. feltrinelli, Milano, 2009, pp. 272-273.
[5] U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, Ed. Feltrinelli, Milano, 2011, p. 211.
[6] E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. di E. Filippini, Ed. il Saggiatore, Milano, 2008, p. 480 e seg.
[7] M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, tr. it. di A. Bonomi, Ed. Studi Bompiani, Milano, 2005, 143.
[8] Ibidem, 141.
[9] Ibidem, 143.
[10] J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, tr. it di G. Del Bo, Ed. Il saggiatore, Milano, 2002, pp. 372-373.
[11] Ibidem, pp. 377-379.
[12] L. Binswanger, Il caso Ellen West, tr. it. di C. Mainoldi, Ed. SE, Milano, 2001, p. 77.
[13] J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, tr. it di G. Del Bo, Ed. Il saggiatore, Milano, 2002, pp. 351-354.
[14] U. Galimberti, Il corpo, Ed. feltrinelli, Milano, 2009, p. 273.
[15] Per un approfondimento sul rifiuto della morte simbolica, dello scacco del desiderio e della negazione del lutto nell’anoressia, richiamo il mio articolo sul rapporto tra anoressia e assenza del limite nella contemporaneità http://www.kasparhauser.net/giardinomente/montecchiani_anoressia2.html
[16] «Nel mondo-della-vita ossessivo, nella condizione ossessiva, sono radicalmente cambiate le modalità di incontro con gli altri. Nel mondo-della-vita “normale”, o almeno non-ossessivo, noi viviamo nella provvisorietà e sappiamo di vivere in essa; e, nonostante questo, ci affidiamo alle cose, agli altri-da-noi, e al flusso ininterrotto della vita. Ci è possibile vivere in questa dimensione di provvisorietà, senza lasciarci sommergere dall’inquietudine e dall’angoscia, solo perché ci sentiamo uniti al mondo-degli-altri e al nostro mondo in un contesto di comunicazione dialogica. Ci sentiamo trascinati dalla corrente vitale delle cose: al di là, e al di fuori, delle infinite ragioni di insicurezza e di dubbio; e, del resto, ci è possibile agire (ogni agire è, in sé, arrischiato) solo se ci fidiamo del mondo, in cui siamo inseriti, e confidiamo in noi stessi: nella spontaneità e nella immediatezza degli eventi che ci vengono incontro. Se non riusciamo a essere così, se siamo falciati dal dubbio e dalla torturante insicurezza sulle cose che avvengono intorno a noi e che sfuggono alla nostra analisi e al nostro controllo, ogni azione (ogni iniziativa) si fa conflittualmente problematica […]». E. Borgna, L’arcipelago delle emozioni, Ed. feltrinelli, Milano, 2007, pp. 167-168.
[17] U. Galimberti, Il corpo, Ed. feltrinelli, Milano, 2009, p. 359.
[18] Ivi.
[19] U. Galimberti, Il corpo, Ed. feltrinelli, Milano, 2009, p. 190.
[20] E. Borgna, L’arcipelago delle emozioni, Ed. feltrinelli, Milano, 2007, pp. 169.
[21] E. Lévinas, Totalità e infinito, tr. it. di A. Dell’Asta, Ed. Jaka Book, Milano, 2006, pp. 116-117.
[22] U. Galimberti, Il corpo, Ed. feltrinelli, Milano, 2009, pp. 353-357.
[23] F. Nanetti, Dialoghi tra psiche e soma. Fondamenti di antropoanalisi fenomenologica applicata, Edizioni scientifiche Ma. Gi., Roma, 2007, p. 171.
[24] U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, Ed. Feltrinelli, Milano, 2011, p. 344.
[25] J. Baudrillard, Il delitto perfetto, tr. it. di G. Piana, Ed. Raffaello Cortina, Milano, 1996, p. 129.
[26] J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, tr. it di G. Del Bo, Ed. Il saggiatore, Milano, 2002, pp. 540 e seg.
[27] U. Galimberti, Il corpo, Ed. feltrinelli, Milano, 2009, p. 225.
[28] E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. di E. Filippini, Ed. il Saggiatore, Milano, 2008, p. 492.
[29] Ibidem, p. 498.
[30] U. Galimberti, Il corpo, Ed. feltrinelli, Milano, 2009, p. 352
[31] F. Nanetti, Dialoghi tra psiche e soma. Fondamenti di antropoanalisi fenomenologica applicata, Edizioni scientifiche Ma. Gi., Roma, 2007, p. 175.
[32] M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, tr. it. di A. Bonomi, Ed. Studi Bompiani, Milano, 2005, pp. 163-166.
[33] Ibidem, p. 167.
[34] «Sottratto al circuito del pro-getto, il corpo diventa incomprensibile, come incomprensibile diventa il comportamento manierato, dove il gesto non si protende nel mondo, ma nell’artificiosa costruzione di sé. Invece del mondo, il corpo diventa a se stesso sfondo della presenza. Incapace di operare l’oltrepassamento, il gesto vede solo se stesso, perché non scopre più la polarità del mondo in cui la presenza si dispiega. Mimando se stesso gioca alla commedia, mentre la presenza si ripiega su di sé per risolversi nell’esibizione dell’immagine che non oltrepassa il dramma di Narciso: l’involuzione della presenza, la ri-torsione dell’immagine». U. Galimberti, Il corpo, Ed. feltrinelli, Milano, 2009, p. 273.
[35] Ibidem, pp. 175-176.
[36] U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, Ed. Feltrinelli, Milano, 2011, p. 282.
[37] Ibidem, p. 283.
[38] Ibidem, 289.
[39] Ivi.
* Omar Montecchiani è nato a Orvieto (TR) il 02/08/78 ed abita a Todi (PG). Dopo essersi laureato in filosofia [La nascita della tragedia nel confronto tra Nietzsche e Schopenhauer] ha conseguito il Master (ECM) di primo livello in disturbi del comportamento alimentare [L’anoressia mentale e la pulsione di morte]. Al momento sta svolgendo un Master formativo triennale in counseling ad orientamento umanistico-esistenziale.
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27 Maggio 2013 alle 11:23
Molto interessante l’articolo a cui si deve dedicare tempo e curata riflessione. Mi piacerebbe provare a scrivere delle impressioni appena ci riesco perché è da ieri che lo leggo. Una cosa però che vorrei scrivere subito è che ho notato che il fenomeno dell’anoressia si attribuisce al genere femminile mentre anche i maschi adolescenti da tempo ne soffrono. Forse la cosa è voluta nel senso del problema visto nell’immaginario collettivo come di appartenenza alla femmina. Per i maschi come per le femmine è un problema legato secondo me al fallimento del matriarcato a favore di una madre più aggressiva e imperante nel senso di competizione. La madre pollice su/pollice verso insomma. I riferimenti a cui agganciarsi sono molteplici. Grazie.
Paola
27 Maggio 2013 alle 12:37
Grazie del commento Paola. Quello che dici a mio avviso è assolutamente esatto. Il fenomeno anoressico è in aumento nei maschi in modo esponenziale, da una decina di anni più o meno: senza contare le nuove “derive” anoressiche della patologia nei maschi, come ad esempio la bigoressia. Oltretutto non bisogna dimenticare che, spesso e volentieri, i disturbi sottosoglia nei DCA sono spesso malamente individuati perché appunto scambiati per altro; ulteriormente, i soggetti affetti da queste patologie sono dei grandi manipolatori, dei bravissimi “attori” se mi si può passare il termine, e questo, unito allo stereotipo dell’anoressia come malattia della “principessa adolescente”, come si pensava fino agli anni 70′, contribuisce a dissimulare il fenomeno “maschile”. Anche quello che dici a proposito della madre aggressiva è giusto. La Selvini Palazzoli lo ha messo bene in evidenza nella sua pionieristica avventura italiana nella ricerca dei DCA, e lo stesso Lacan parla di “madre coccodrillo”. Ma il fenomeno della madre divorante, cui soltanto il fallo potrebbe bloccare le fauci (questa la metafora lacaniana), è strettamente legato, a mio avviso, alla cosiddetta “evaporazione del Padre” lacaniana: alla scomparsa della legge del desiderio e alla compulsività del godimento incontrollato nell’epoca moderna.
In attesa delle tue impressioni, da questo ultimo punto di vista, ti consiglio di leggere il mio ulteriore articolo segnalato nelle note. Saluti.
Omar
28 Maggio 2013 alle 15:24
Grazie molte Omar per il tempo dedicato a rispondermi e per il suggerimento.
Riordinerò un poco le idee e mi proverò in qualche profana considerazione se mi passi il termine. Profana perché non addentro professionalmente nell’argomento. Mi permetto di lasciare questa frase di Schopenhauer con il quale incipiti il tuo articolo:
“Ognuno prende i limiti del suo campo visivo per i confini del mondo”, che forse con contorti passi metto in relazione con quanto ho letto.
Un saluto.
Paola