Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Due tesi sulle parole – Parte II

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> di Ezio Saia*

Di fronte alle analisi della filosofia “analitica” volte a chiarire l’inconsistenza di parole come “nulla” e frasi come “Il nulla c’è” non si può che registrare l’irresistibile tendenza ad assegnare nomi. Diamo nomi al nulla, al mistero, all’infinito, all’io, al non io, alle cose e alle non cose, alle variabili, ai quantificatori, alla fantasia ecc. Certamente diamo nomi a qualcosa di cui ignoriamo molto, il che non deve stupire perché accade per una quantità di concetti indefiniti e forse indefinibili dove il nome va a significare proprio quella non conoscenza che ci permette di citare, di poter parlare di certi eventi, fenomeni di cui poco si conosce oppure di contrassegnare dei limiti che non riusciamo ad oltrepassare o che sappiamo di non poter oltrepassare.

All’interno di un linguaggio che tende a denotare, a dare nomi anche a ciò di cui abbiamo conoscenza vaga, indefinita, l’operazione di nominare, lungi dall’essere solo un’etichettatura o l’inserimento in una classificazione o in una struttura, può essere intesa come l’inizio di un tentativo di teorizzare, ossia di creare una parola nel cui alone di senso si possono inserire una o più entità teoriche. Del resto il linguaggio, come accennato, è anche pre-teoria.

Senza il noumeno Kant non avrebbe potuto esplicitare la sua filosofia e, anche se questo termine esprimeva e non esprimeva ambiguamente una incognita o solo la circostanza che oltre ad un certo confine non si poteva che produrre non senso, tuttavia il termine assunse da una parte il significato di confine operativo, dall’altra di grandezza teorica sconosciuta che pur tuttavia stava in qualche maniera come fondazione di ciò che appariva attraverso le forme della sensibilità e dell’intelletto.

Cantor fonda addirittura la sua teoria dell’infinito sulla contraddizione. Il fatto che i numeri pari potessero essere messi in corrispondenza bi-univoca (e fossero, di conseguenza equi-numerosi) con i numeri naturali, realizzando così l’assurdo del “tutto uguale ad una sua parte”, diventa per Cantor la definizione dell’indefinibile infinito attuale. Un assurdo che prima di lui portava alla conclusione che dell’infinito attuale non si poteva parlare. Una conclusione questa da cui Cantor non si lasciò fermare tanto da accettarla e trasformarla nella definizione del mitico e misterioso infinito attuale.

TEORIA ED ENTITA’ TEORICHE

Partiamo da un esempio. Un magnete ha sempre due polarità indicate come ‘Sud’ e ‘Nord’. Se avviciniamo una polarità ‘Sud’ ad una polarità ‘Nord’ si ha attrazione, se avviciniamo due polarità ‘Sud’ o due polarità ‘Nord’ si ha repulsione (Fig. 2).

Se sezioniamo un magnete ‘Nord/Sud’ non otterremo due magneti di cui uno totalmente ‘Nord’ e l’altro totalmente ‘Sud’ ma due magneti ‘Nord/Sud’. Se avviciniamo al magnete un cilindro di ferro questo si trasformerà in un magnete ‘Sud/Nord’.

Per interpretare questi ed altri fenomeni il fisico Ampère suppose che il magnete permanente fosse interamente formato da piccoli magneti elementari ordinati tutti nello stesso senso (Fig. 3)

e che, differentemente, nel ferro essi fossero disposti senza ordine alcuno (Fig. 4), in maniera tale da annullare l’effetto magnetico complessivo.

Tutti i fenomeni sopra citati, come tutti i fenomeni allora conosciuti trovavano una spiegazione con la teoria di Ampère fondata sui magneti elementari come grandezze teoriche. Entità teoriche e termini teorici sono le grandezze esplicative (non accessibili ai sensi ma supposti esistenti) che intervengono nelle teorie. Esempi di entità teoriche sono “magnete elementare”, “elettrone”, “inconscio” ecc.

LA NATURA DELLE GRANDEZZE TEORICHE

Il problema delle teorie sta nel loro rapporto con il mondo. Non v’è dubbio che questo rapporto esista. Il problema sta nell’individuarne la natura. In prima approssimazione si può dire che il mondo ci offre eventi e successioni di eventi che sperimentiamo e che descriviamo con leggi, ma la scienza non è solo questo. In ogni teoria rinveniamo entità teoriche non osservabili, quali “elettrone” in fisica, “massa” in meccanica, “inconscio” in psicologia. La presenza di queste entità comporta che una connessione di leggi vada a costituire una teoria ma non una descrizione. Grossolanamente dunque abbiamo:

1. leggi teoriche che relazionano osservabili con grandezze teoriche.

2. leggi che connettono osservabili con altri osservabili.

3. leggi che connettono tra di loro grandezze teoriche.

Le prime, mettono in relazione osservabili con grandezze teoriche e, di fatto, costituiscono un dizionario. Ora, un vero dizionario funziona nei due sensi e in questo caso – se tale fosse il dizionario costituito dall’insieme delle leggi che relazionano entità teoriche con osservabili – dovrebbe:

1.1. contenere definizioni dei termini teorici in funzione di quelli osservativi.

1.2. contenere definizioni dei termini osservativi in funzione di quelli teorici.

Nel caso del nostro dizionario sembra proprio che ciò non sia possibile. E’ facile definire un materiale conduttore come il rame facendo riferimento alla struttura molecolare ed alla sua sotto-struttura atomica. Si sarà così data una definizione di un termine osservativo in termini teorici. Problemi ben più complessi si incontrano nel definire termini come “elettrone” mediante dati osservabili. Si riesce a parlare di elettroni mediante leggi che li connettono con altre grandezze teoriche, ma non direttamente mediante leggi che li connettono a termini osservabili poiché gli elettroni non si vedono, non si toccano, non si sentono [1]. Queste circostanze, oltre che rendere problematiche le definizioni, legittimano tutti i possibili dubbi sulla loro natura, sulla loro esistenza e sul loro significato.

Come già per le teorie anche per i termini teorici è naturale chiedersi: esistono veramente? Sono reali o sono solo nessi fittizi? Sono comode illusioni per dare forma ad una teoria che funziona (posto che con “funzionare” s’intende il possedere capacità esplicative e previsionali)? Non è forse credibile che le entità teoriche siano contaminate dalla famigerata “metafisica”?

Dell’esprimibilità di teorie e termini teorici si interessarono tra gli altri Ramsey, Carnap e Pap. Pap [2] in particolare criticò la rigida divisione di Carnap tra termini osservativi e termini teorici sostenendo che nessun termine poteva essere considerato completamente osservativo o completamente teorico. A questo punto è bene considerare come i linguaggi possano essere visti proprio come pre-teorie con i loro termini osservativi ed i loro termini teorici e che nulla ci vieta di considerare i termini “vaghi” come termini teorici o parzialmente teorici, nella misura in cui mediante questi termini si riesce a parlare di certe situazioni, di certi fenomeni, di certe concatenazioni e ci si riesce a capire.

Fu, a mio avviso, Ramsey a dire le cose più interessanti e non penso proprio di essere il solo a pensarlo se Wittgenstein nella prefazione alle sue Ricerche filosofiche scrive che a riconoscere gli errori del Tractatus molto contribuì la critica che ne fece Ramsey con cui ebbe innumerevoli conversazioni negli ultimi due anni della sua vita; anni in cui Ramsey elaborò il suo scritto sulle teorie al quale, forse, Wittgenstein si ispirò per il concetto di parentela di famiglia. Tutto avviene come se Wittgenstein trasferisse al linguaggio alcune delle conclusioni di Ramsey. Ma è lecito un simile trasferimento? Possiamo trasferire ad una pre-teoria conclusioni che riguardano le teorie? Se è almeno parzialmente possibile, possiamo stabilire in che misura e con quali vincoli?

Ramsey discute dapprima la possibilità di definizioni esplicite dei termini teorici e conclude che «non vi è […] in generale alcun modo semplice di invertire il dizionario in modo da ottenere una soluzione unica o chiaramente preminente che soddisfi anche gli assiomi» (p. 240) [3]. Allo stesso tempo, le teorie, per essere operative, per poter crescere ed adeguarsi a nuove scoperte, devono possedere una molteplicità di funzioni teoriche superiore alla molteplicità delle funzioni osservative. Questo è un primo importante risultato: le teorie, per essere “utili” (questo è il termine cui ricorre Ramsey) non devono essere scritte mediante definizioni esplicite.

Il quesito verteva sulla possibilità di esprimere le teorie sotto forma di definizioni esplicite e la risposta conclusiva è positiva. Positiva, però, solo nel senso che è formalmente possibile. Dare le teorie sotto questa forma, oltre che inutile, è dannoso sia a causa della complicatissima forma che queste verrebbero ad assumere, sia a causa della non evitabile “arbitrarietà delle definizioni”, alle quali risulterebbe “impossibile l’essere adeguate alla teoria come entità in processo di crescita”.

Cosa succederebbe, infatti, se si scoprissero altre leggi? Supponiamo di aver proposto una teoria dell’elettrodinamica. Nella teoria 1 la “intensità di corrente elettrica” viene definita in termini di effetti chimici o di effetti termici e solo successivamente perveniamo a scoprire che può essere definita in termini di effetti magnetici. Come possiamo inserire in una teoria pre-esistente queste nuove leggi? In apparenza, potremmo aggiungere le nuove definizioni agli assiomi ed al dizionario, ma, di fatto, se la teoria è costruita con definizioni esplicite, ciò non potrebbe avvenire in maniera indolore. Le definizioni esplicite date in precedenza non tengono conto della nuova legge e sono completamente definite senza quest’ultima. Per cui non è sufficiente aggiungere una nuova legge, ma bisogna cambiare le vecchie definizioni. Ciò significa ammettere di non poter far crescere la teoria senza, nello stesso tempo, rivoluzionarla.

Trasferita al linguaggio ed ai suoi termini una simile conclusione afferma l’impossibilità di definizioni esplicite per i termini “vaghi” in funzione di termini non teorici. Ed in effetti è facile immaginare che l’esistenza di definizioni siffatte bloccherebbe i significati e il vocabolario, rendendo il linguaggio inutile all’ampliamento di quell’orizzonte di senso che ci permette di stabilire un’interazione comunicativa soddisfacente con qualsiasi nuova cultura. Compresa, in una certa misura, quella con i nuovi vicini di casa. E compresa altrettanto quella con i nostri amici o i nostri famigliari se supponiamo – per assurdo – che una magia faccia evolvere il loro sistema linguistico ma non il nostro.

Tutto ciò ammettendo che nel nostro linguaggio (nel linguaggio comune) sia possibile una classificazione e/o selezione che permetta di catalogare ogni termine come osservativo o teorico o, meglio, per non vincolarci a superate concezioni positiviste, come sperimentato o teorico; sappiamo tuttavia come Pap ci avverta (come anche lo stesso Carnap finì per ammettere) che una simile classificazione è impossibile. Tutto ciò ammettendo che la natura pre-teorica del linguaggio sia analizzabile. Ma Ramsey ha ancora in serbo una sorpresa.

LA FORMULA DI RAMSEY

Eliminato il problema delle definizioni esplicite Ramsey si pone il problema della forma delle teorie e propone la formula seguente:

(∃ x, y, z) (dizionario) & (assiomi)

Escluse le definizioni esplicite, e considerate come variabili le grandezze teoriche perviene a rappresentare una generica teoria con la succitata formula dove x, y, z sono variabili, prese in estensione, su cui non vengono poste condizioni. L’intera teoria andrebbe esposta come: “Esistono grandezze x, y, z che soddisfano alle definizioni del seguente dizionario ed ai seguenti assiomi” dove, ovviamente, dal dizionario e dagli assiomi le grandezze teoriche sono state eliminate e sostituite con le variabili che compaiono sotto il segno del quantificatore esistenziale. La formula, suggerisce Ramsey, è formalmente simile a quella delle favole “C’era una volta….” in cui le frasi che seguono non hanno significato completo di per se stesse (né lo potrebbero avere contenendo variabili) e non sono proposizioni.

Ramsey stabilisce così l’equivalenza fra l’asserire che gli “elettroni” esistono e l’asserire la verità della teoria in cui il termine compare mentre una dichiarazione di esistenza degli elettroni, separata dall’enunciato, non sarebbe decidibile perché priva di senso. In questo modo si definisce con precisione il senso della frase “l’elettrone esiste solo se la teoria elettromagnetica è vera” con tutta l’ambiguità connessa al termine “vera”.

Lo scritto di Ramsey sulle teorie venne dimenticato finché R. B. Braithwaite, nel suo trattato La Spiegazione Scientifica del 1953 [4], non ne mise in luce l’importanza. Braithwaite in realtà non discute o commenta il testo di Ramsey ma propone un suo esempio di teoria su cui svolge le sue riflessioni che, come egli stesso dichiara, sono profondamente influenzate – soprattutto in riferimento alla trattazione delle entità teoriche – dalla filosofia dell’amico. Per la comprensione dello statuto logico di queste entità Braithwaite indica come esemplare l’espressione quantificata succitata che, da allora in poi, verrà sempre indicata come “Formula di Ramsey”.

PROPOSIZIONI SINGOLARI E FORMULA DI RAMSEY

Supponiamo di condensare nella formula di Ramsey tutta la teoria della meccanica e ragioniamo facendo riferimento a quella formula. Potremmo noi sensatamente dire:

“La massa m di b in t è 5?”

La risposta è evidentemente negativa perché, non conoscendo il senso del termine “massa” (nella formula compaiono infatti solo variabili ed osservabili), ci troveremmo di fronte ad una proposizione insensata. Non potremmo neppure sensatamente dire:

ybt = 5″

dove al termine teorico “massa” si è sostituita la variabile corrispondente che compare nella formula perché l’assegnazione di un predicato ad una variabile non è una proposizione. Non rimane che dare quell’informazione nella forma:

“(Formula di Ramsey) & ybt = 5″

E’ da evidenziare, anche per il nostro problema, che se esprimiamo una teoria con la formula di Ramsey non possiamo esprimere alcun enunciato singolare della teoria senza congiungerlo con la formula di Ramsey stessa. In sostanza non possiamo enunciare alcunché senza enunciare contemporaneamente tutta la teoria.

Le due conclusioni di Ramsey sono importanti e paradigmatiche. Trasferite dal mondo delle teorie a quella pre-teoria che è il linguaggio ci dicono che: 1) non possiamo definire i termini “vaghi” secondo un paradigma verticale o un albero del sapere e che 2) possiamo parlarne solo portandoci dietro tutto l’intero contesto di significati. Una conclusione che parrebbe asserire come certi problemi possano essere indagati solo con tecniche di tipo “continentale” il che è in parte vero ma più che mettere in luce i meriti dei “continentali” ne mette in luce i deficit. Mentre gli “analitici” hanno studiato dettagliatamente il paradigma gerarchico, le sue regole, il suo funzionamento i “continentali” sembrano del tutto indifferenti; non solo ad indagare il loro paradigma ma anche solamente a porsi domande circa il paradigma con cui lavorano. Anch’io, nel mio piccolo, ho dato qualche contributo. Ma il campo è oramai da decenni studiato e disciplinato per la progettazione di macchine a retroazione, di controlli automatici ecc… Non solo macchine dunque ma paradigmi. Paradigmi difficili da accettare perché il paradigma generale risultato vincente nella lunga strada evolutiva è proprio quello gerarchico.

[Fine]

[1] Questo in relazione alla cultura in cui vennero ipotizzati.

[2] La discussione si trova in: Introduction to the philosophy of science, 1962 (traduzione italiana: Introduzione alla filosofia della scienza).

[3] R. Carnap, I fondamenti filosofici della fisica, Il Saggiatore.

[4] R. B. Braithwaite, La Spiegazione Scientifica,1953 (a pagina 51 dell’edizione italiana).

* Ezio Saia ha frequentato a Torino il liceo Gino Segrè, si è laureato nel 1971 al Politecnico di Torino in Ingegneria Elettrotecnica e nel 1994 alla facoltà di Lettere e Filosofia in Filosofia. Ha lavorato presso Lara, Cec, Elfin, Mael, Elca, IPSIA G. Galilei. La sua favola La Metamorfosi del Prof. Strunz è distribuita dal circuito di librerie Danae.

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