> di Federico Filippo Fagotto*
Su questa scena immensa,
giocar solo apparenze [1].
– W. Shakespeare, Sonetto 15 –
1. La tempesta delle illusioni
Somnium narrare vigilantis est[2], recita Seneca citato da Montaigne tra le righe degli Essais. Il francese gli chiede aiuto per il suo forzo razionale di discernere le dimensioni del senso e prendere coscienza di quei luoghi che la mente confonde, dando credito alla fantasia e conferendo spazialità alle chimere più eteroclite. L’impeto luminare con cui Montaigne ritiene che «bisogna tenere l’anima ben desta»[3] è il gesto di un umanista non convenzionale – ma pur sempre innamorato della dignitas hominis – che intende svernare dall’alito corvino delle ideologie medievali e che, non ancora incantato dalle promesse dell’avvenire, ambisce a vivere quel presente ostacolato dal peso della tradizione, che rende galeotto lo spirito. «I miei spiriti, come in un sogno, si sentono affatto prigionieri»[4] sembra volergli rispondere Shakespeare attraverso il Ferdinand di The Tempest. Uno stigma del sentire dell’epoca, a quanto pare, e un silente anelito a infrangere le catene della credenza per farsi passare quel torcicollo della devozione che costringeva l’uomo a guardarsi indietro e, ad un tempo, genuflettersi dinnanzi al simulacro del misoneismo. Continua a leggere