
La recente riproposizione di una serie di saggi scritti negli anni Sessanta del Novecento va a costituire una visione, più solida di quanto non appaia in un primo momento, sul rapporto tra filosofia ed educazione. L’autrice Maria Zambrano (Vélez-Málaga 1904 – Madrid 1991) sa ancora trarre l’attenzione con un pensare originale, lo stesso che l’ha accompagnata per tutta la vita.
Allieva di José Ortega y Gasset e di Xavier Zubiri, opera come saggista e come docente nella Spagna a partire dagli anni Trenta, l’avvento della dittatura franchista la porta a scegliere l’esilio, a Portorico e anche in Italia e in altri paesi europei, solo nel 1984 rientrerà in patria. La sua visione del mondo, che affonda le radici nella saggezza prefilosofica e si nutre della classicità letteraria, unisce intimamente il pensare con l’azione educativa. Tale unione a suo dire è essenziale perché il sapere che non si propone di raggiungere il cuore della persona resta arido razionalismo, d’altra parte un’educazione basata sulla sola spontaneità non è adeguata a far apprendere all’educando “il mestiere di uomo”.
Attenta a salvaguardare le differenze che la società di massa tende a livellare, vive in prima persona questo convincimento. Una donna che studiava filosofia nella Spagna degli anni Venti del Novecento era percepita come qualcosa di innaturale “un’eresia, una donna barbuta o una curiosità da circo”, come lei stessa ebbe a scrivere, eppure, accompagnata da poche altre, seppe dare il suo prezioso contributo nella ricerca, nell’insegnamento e dell’impegno politico-sociale.
Orgogliosamente femminile, sempre rifiutando l’etichetta di femminista, ha costituito un importante punto di riferimento per la filosofia della differenza. La presente edizione è curata da Annarosa Buttarelli, docente di filosofia della storia all’Università di Verona, che fa parte della Comunità filosofica Diotima, da decenni attiva in questo campo.
Abbiamo accennato all’interesse che la Zambrano nutre per il discorso prefilosofico, ai saggi che parlano per enigmi, all’atteggiamento meravigliato di fronte alla natura che genera una tensione capace di muovere gli animi; leggendo questi numerosi e brevi saggi si coglie il suo intento di realizzare proprio questo. Lontani dal voler essere sistematici e risolutivi, appaiono piuttosto volutamente incompleti, mettono in comunicazione con vari aspetti della realtà lasciando a chi li legge il piacere e il compito di approfondire. Nella sua prosa, indubbiamente rispettosa della razionalità, trova spazio anche un dire che di tanto in tanto si fa poetico.
Nel suo procedere parte da situazioni molto concrete che riguardano la società, in particolare i problemi dei giovani, nel suo divenire storico o anche il piccolo mondo dell’aula scolastica alle prese con i fenomeni della percezione, dell’attenzione e dell’apprendimento. Questa pluralità di prese di posizione lascia piuttosto spiazzato il lettore, che si chiede dove la filosofa voglia arrivare; alcune pagine più di altre risultano a tale scopo chiarificatrici.
Nella sua trattazione sulla “Vocazione del Maestro” tiene a precisare il suo punto di vista sulla filosofia moderna dicendo che «a partire dal razionalismo moderno inaugurato da Cartesio, possiamo dire che la condizione umana è stata parecchio abbandonata dalla ragione» (p. 100). Chiama in causa Hegel e Husserl come esempi di razionalismi che ignorano la realtà umana della persona, parla invece di Comte, Nietzsche e Kierkegaard come passaggi essenziali verso quella concezione, propria del suo maestro Ortega y Gasset, di Ragione Vitale. Afferma di trovarsi d’accordo su quello che lei considera comunque solo un punto di partenza «giacché la maggior fedeltà al maestro consiste nel continuare a pensare» (p.160).
Partendo dal maestro come figura per così dire universale, la Zambrano usa il medesimo termine per indicare colui che più degli altri l’ha aiutata nel suo cammino, il suo pensiero è il frutto di una conoscenza scaturita da un’intimità spirituale, destinata a scorrere con il passare delle generazioni da educatori a educandi.
Tornando al maestro in generale lei dice che il suo discorso, a differenza di quello del ricercatore che scrive saggi e trattati che vivono una loro autonomia e sono destinati ad una pluralità generica, interagisce con persone concrete in una determinata situazione della loro vita. Si può dire che non ha che fare con l’essere cristallizzato e pensato come ente ma piuttosto, come lo intendevano i primi filosofi della natura, come un venire alla luce e un differenziarsi.
La Vocazione è una chiamata alla quale è già seguita una risposta di assenso; un passivo: essere chiamato, essere vocato, che si trasforma in attività. La vocazione infatti è un addensarsi del soggetto nel sé più profondo per poi espandersi nell’azione a cui si sente chiamato. Quella principale del maestro è la mediazione. Intende Maestro nella sua accezione etimologica che lo fa derivare da magister, da magis, ciò che è di più che è maggiormente e che ha la funzione di mediare di liberare dall’ignoranza; questa, senza l’aiuto del maestro, rischia di trasformarsi in sorda aggressività. Lo dice mentre è a Roma negli anni che precedono il Sessantotto e che già vedono nell’ambiente universitario una messa in discussione del ruolo mediatore dell’insegnante.
Nel rapporto docente-discente, non limitato al campo strettamente scolastico, pare avere una visione tutto sommato piuttosto tradizionale riguardo i rispettivi ruoli, anche se questo non va inteso in modo rigidamente unilaterale. Dice infatti che l’educando è oggetto ma soprattutto soggetto della propria formazione. L’analogia che usa è quella del matrimonio cattolico, questo richiede la presenza del sacerdote che benedice l’unione, ma i ministri del sacramento sono gli sposi stessi (p. 159).
Durante ogni crisi, come quella che il mondo occidentale viveva nella metà del Novecento, emergono in tutta la loro evidenza quegli elementi della condizione umana che sempre erano stati presenti allo stato di latenza. Afferma la Zambrano che: «Speranza e necessità si configurano in modi differenti, creando la peculiare struttura di ogni cultura e di ogni epoca in ogni cultura» (p. 126), si tratta di due punti imprescindibili che si rapportano tra di loro dinamicamente potendo conseguire un’armonia oppure degenerare verso soluzioni estreme e fatali.
Le élites sono guidate nel loro agire dalla speranza, le masse dalla necessità; al grido di libertà! delle prime corrisponde quello di pane! per le seconde. Ma la realtà è più complessa e dinamica di questo schema dualistico: l’ideale elitario rimane sterile se non riesce ad incarnarsi nella concretezza di una determinata situazione storico-sociale, d’altra parte anche l’azione scaturente dalla necessità si accompagna ad una speranza che diventa ideale.
Educare per l’amore e per la libertà è fin dall’inizio anche un educare nell’amore e nella libertà, il sapere trasmesso senza amore chiude al vero dialogo, ancor più il sapere che pretende di imporsi sopprimendo in tal modo la libertà. L’uomo è l’unica creatura che abita la terra per cui la natura da sola non basta, se biologicamente è sottoposto alle sue leggi, c’è sempre un qualcosa che va oltre. Compito dell’uomo è questo continuo autotrascendimento; se nell’animale la costruzione di nidi e di tane si ripete in un ritorno circolare, l’homo faber, ancor prima dell’homo sapiens, edifica per i posteri ed idealmente per l’eterno. «La vita umana è un viaggio verso la realtà, ma questo esige una morale che sostenga l’anima e indirizzi la volontà verso di essa, che tempri il cuore e la sensibilità come accade per ogni vocazione» (p. 153).
Intravvista qua e là in alcuni dei suoi scritti, la venatura mistica del suo linguaggio è ben presente nella esposizione e interpretazione della Parabola Araba Sufi, dove descrive come sottili sensazioni siano veicolo che innalza la mente verso una sublime spiritualità. Due opere pittoriche vennero commissionate da un sultano a due gruppi, uno cinese l’altro bizantino, che dovevano procedere senza aver contatti fra di loro; alla meravigliosa rappresentazione figurativa dei primi corrispose un’azione di pulizia capace di mutare la parete prospiciente «in uno specchio di un biancore misterioso che rifletteva come in un mezzo più puro le forme sulla parete cinese» (p.139). Questo racconto, alla pari delle narrazioni bibliche e dei miti classici apre a molteplici interpretazioni, che l’autrice spiega lasciando tutto lo spazio per poter continuare autonomamente «poiché ogni capolavoro dello spirito – piccolo o grande che sia – è un racconto senza fine» (p. 140). Nell’impegnativo cammino verso una piena umanizzazione si parte talvolta da situazioni di piatta banalità che solo con una grande forza spirituale si può sperare di innalzare.
Maria Zambrano è più affascinata dal biancore dell’una che dal dipinto dell’altra parete; in questa situazione anche un’opera mediocre resterebbe sublimata da questo mistico biancore: «Nulla è brutto se si guarda attraverso un altro mezzo più puro e più intellegibile» (p.139).