> di Alessandro Pizzo*
Impossibilità. E, dunque, possibilità
Supporremo noto che la logica matematica non si è costituita in antitesi a quella classica (antica e medioevale) rappresentandone piuttosto lo sviluppo (Geymonat, Scienza e realismo, p. 36)
La natura di queste limitazioni è ovviamente determinata da quella che lo o gli studiosi ritengono essere la ‘vera’ radice del male. Ed è qui che le opinioni divergono notevolmente (Casari, Questioni di filosofia della matematica , p. 31)
Cominciando a leggere le presenti pagine, potresti considerare la possibilità seguente, continuare a leggerle oppure saltare avanti. Tuttavia, siccome sei già giunto al secondo rigo, stai già leggendo il presente saggio. Eppure, magari, avresti anche desiderato, e tanto, compiere un balzo in avanti, e non sorbirti la pesantezza dei ragionamenti qui sviluppati. Bene, il saggio direbbe “pazienza!”, ma il danese Alf Ross, invece, direbbe “è un problema!”. Infatti, le prime due righe di poco fa esprimono una difficoltà ben presente nei primordi della storia moderna della logica deontica, ovvero la paradossalità dell’obbligo che impegna tanto a fare una cosa, nel presente esempio spiccio: leggere le presenti pagine; e, nel contempo, a fare un’altra cosa, nel presente spiccio esempio: saltare le presenti pagine ed andare oltre.
Orbene, appare quanto meno opportuno, a questo punto, compiere alcune precisazioni al fine di evitare degli equivoci, tanto inerenti alle finalità del presente saggio quanto riguardanti il senso complessivo del presente scritto.
La paradossalità adombrata, infatti, è data dal fatto che le due azioni alternative sono l’una reciprocamente esclusiva rispetto all’altra, e viceversa. In altri termini, si dà la situazione seguente: o si compie la prima azione, segnatamente leggere il presente saggio, oppure si compie la seconda azione, segnatamente si saltano le pagine che compongono il presente saggio, che, dunque, non verrà letto. Ma, sfortunatamente, esistono casi in cui l’obbligo impone di compiere due azioni contrarie, come leggere e non leggere le presenti pagine, per belle o brutte che possano essere! Per dirla altrimenti, si verificano dei casi per i quali certi obblighi comandano di compiere azioni reciprocamente contraddittorie, ovvero, e nell’esempio presente, leggere e non leggere il saggio che, oh lettore, stai già leggendo.
Si dirà: ma le prime tre righe non parlano affatto di doveri o obblighi. E l’obiezione pare certamente corretta. Ma manca di mettere in rilievo un altro aspetto della questione, ovvero: prima ancora di sussistere una fattispecie normativa, le nostre azioni quotidiane possono benissimo mandare ad effetto corsi d’azione differenti, e, possibilmente, tra loro anche contraddittori. Magari, avresti voluto, caro lettore, non leggere affatto il presente saggio e invece è esattamente quello che stai facendo. E a questo punto, davvero, non sappiamo se con entusiasmo o con disappunto. Oppure, ancora, avresti voluto leggere il presente saggio, ma giunto a questo punto hai cambiato idea e decidi di non proseguire la lettura. È possibile, esattamente come prevedere oggi che domani avrà luogo una battaglia navale. Tuttavia, se alla com-possibilità di azioni diverse aggiungiamo la qualificazione normativa, ecco che prende forma il (noto) paradosso di Ross.
A questo punto, ti chiedo: hai forse difficoltà a raccapezzarti? Non preoccuparti, stiamo appunto per prendere congedo da queste umoristiche battute introduttive. Entriamo in argomento. Quale argomento? Dovrebbe essere chiaro: l’obbligo impossibile! O, a questo punto, com-possibile.
Ross comanda ‘fai questo’ e ‘fai non questo’
Per il mondo si aggira da quasi un secolo uno spettro davvero inquietante, ovvero il fantasma di una mirabolante disciplina la quale dovrebbe, inopinatamente, congiungere il magico mondo del dover essere e il fattuale mondo dell’essere. Una disciplina – ponte tra il determinismo logico – formale e gli usi normativi del linguaggio umano. Stiamo parlando della ben nota, oltre che famigerata, logica deontica. Il perché del secondo giudizio negativo è presto detto. Ebbene, che quest’ultima possa fungere da potente strumento euristico al fine di render conto della soggiacente razionalità presente nelle enunciazioni normative, e segnatamente nei sistemi normativi in quanto tali, è un’idea che l’accompagna sin dai suoi esordi (von Wright, Deontic Logic, p. 1) e che è stata variamente e in molti momenti affermata dai più. Peraltro, grande fascino ha sempre caratterizzato la possibilità, più vagheggiata che realizzata in concreto, di un suo allargamento della razionalità logica oltre il reame della vero-funzionalità (von Wright, Logical Studies, p. vii).
Meno pacifica, piuttosto, è la convinzione circa le sue effettive capacità formali di mappare in maniera adeguata la razionalità del linguaggio normativo. Ora, non si tratta di aderire ad una visione olistica o monistica circa i rapporti tra la logica deontica e il linguaggio normativo, quanto, e piuttosto, render conto del rapporto problematico della prima con il secondo, e, per estensione, della logica dei concetti normativi con la razionalità presente nei sistemi normativi. Esclusi, infatti, qualsiasi isomorfismo o puntuale corrispondenza naturale tra la prima e la seconda, diviene difficile stabilire puntualmente quale tipo di relazione si instauri tra le stesse. Il caso dell’obbligo com-possibile di Ross è, per l’appunto, paradigmatico di questo ostico stato di cose, quale che esso sia. In realtà, a ben guardare, quello della logica deontica è un caso più unico che raro. Infatti, si tratta di una disciplina foriera di fuorvianti e numerosissimi paradossi, anche se talvolta pure divertenti (Hintikka, Deontic Logic and Its Philosophical Morals, pp. 191 – 2).
Scopo del presente saggio è, però, render conto di questa difficoltà, attingendo ad un suo topos problematico, oltre che storicamente rilevante, vale a dire il paradosso di Ross.
Ma prendiamo, dunque, in considerazione l’argomento presente. Assumiamo che viga l’obbligo seguente:
(A) Imbucare la lettera
Sinora non registriamo alcun problema. Ma proseguiamo. Congiungiamo adesso (A) con una qualsiasi altra proposizione, ad esempio la seguente:
(B) Bruciare la lettera
Ed ora qualcosa di strano comincia ad insinuarsi, pur essendo al momento una sensazione tanto remota quanto vaga. Vediamo come proseguono le cose, per spiacevoli che possano risultare infine. Pertanto, assumendo con ‘O’ una costante proposizionale deontica, che simboleggi l’obbligo, avremo una congiunzione del tipo seguente:
(OA)&(B) [leggasi: (è obbligatorio: imbucare la lettera) e (bruciare la lettera)]
Ovviamente, dato che tanto (A) quanto (B) si applicano al medesimo campo di esistenza, non possono essere congiunte tra loro, ma, e più correttamente, possono solo essere poste in disgiunzione l’una rispetto all’altra. Di conseguenza, otterremo la disgiunzione che segue:
[D] (OA)∨(B) [leggasi: (è obbligatorio: Imbucare la lettera) o (bruciare la lettera)]
E sin qui sembra non esserci nulla di male dal momento che il campo semantico dell’obbligo non confligge con quello della proposizione fattuale (B), via appunto la disgiunzione tra (OA) e (B). Eppure, possiamo comunque già chiederci, non senza complicazioni, perché prendere in considerazione casi come (A) e (B)? Infatti, (B) è la negazione di (A), vale cioè come non – A. Ma lasciamoci prendere per mano e condurre da Ross negli abissi degli obblighi impossibili.
Ora, le cose si complicano. Infatti, l’obbligo e la proposizione fattuale possono essere intesi in senso condizionale, ovvero come se l’obbligo iniziale comportasse l’azione (B). Di conseguenza, dalla situazione presente, appare corretta l’inferenza che segue:
[I] (OA)➝(OB) [leggasi: se (è obbligatorio: imbucare la lettera), allora (è obbligatorio: bruciare la lettera)]
Tradotto: se vale l’obbligo di imbucare la lettera, allora vale pure l’obbligo di bruciare la lettera.
Per dirla altrimenti, dall’obbligo di imbucare la lettera deriva l’obbligo di bruciare la lettera. Ahi! Qualcosa di sinistro sta per accadere …
Questo suona strano, ma, a ben guardare, si tratta di un’inferenza del tutto legittima in logica deontica. Infatti, è considerato valido il principio seguente:
[PR] ((A)➝(B))➝((OA)➝(OB)) [leggasi: se (fare A) implica (fare B), allora (se è obbligatorio compiere A, è obbligatorio compiere B)]
Pertanto, se (A) implica (B), allora l’obbligo di compiere (A) implica pure l’obbligo di compiere (B).
Per quanto controintuitiva, comunque, si deve ammettere che l’inferenza non solo sia corretta, ma potrebbe pure essere ancora accettata dal momento che rimane valida la disgiunzione tra (OA) e (B).
Purtroppo, però, le cose sono fatalmente destinate a complicarsi ancora, e in peggio. Infatti, proprio a causa dell’inferenza che dall’obbligo di compiere l’azione (A) segua l’obbligo di compiere l’azione (B), giungiamo al primo passo verso la derivazione finale, tanto inaspettata quanto indesiderata (Lemmon – Nowell Smith, Escapism: The Logical Basis for the Ethics, p. 290). Infatti, l’obbligo si distribuisce su tutte le variabili proposizionali in campo. Tuttavia, così facendo si rende possibile la derivazione ulteriore:
[C] (OA∨OB)➝O(A∨B) [leggasi: (se ((è obbligatorio: compiere A) o (è obbligatorio: compiere B)), allora (è obbligatorio (compiere A o B))]
Detto altrimenti, infatti, dall’obbligo di compiere (A), vale a dire imbucare la lettera, o di compiere (B), vale a dire bruciare la lettera, segue l’obbligo di compiere (A) o (B), ovvero (assieme!) imbucare o bruciare la lettera. La sequenza proposizionale espressa da [C] è il paradosso di Ross, vale a dire la prima manifestazione problematica storicamente rilevante della logica deontica. Oltre, ovviamente, a costituire un lampante caso di obbligo impossibile, ovvero soddisfare un obbligo iniziale compiendo tanto l’azione prescritta quanto un’altra qualsiasi azione, anche potenzialmente contraria.
Il Ross incatenato
L’atto di nascita ufficiale della logica deontica moderna è il 1951, con lo scritto Deontic Logic di von Wright, mentre il paradosso è stato steso nel 1941 da Alf Ross. Pertanto, appare giustificato asserire che, in realtà, quello di Ross sia un paradosso relativo alla preistoria della logica deontica. Ma in questa sede non interessa tale dimensione storica, per interessante che sia o possa risultare, quanto, e piuttosto, cogliere nelle difficoltà messe in luce dal paradosso di Ross la traccia comune delle successive difficoltà della disciplina. L’obbligo impossibile di Ross, infatti, è l’apripista di una incredibile serie di ulteriori obblighi impossibili, o, detti altrimenti, paradossi deontici.
Ma, anche per far meglio risaltare questo infausto ruolo di capostipite, analizziamo, sia pure brevemente, la sequenza che dall’obbligo (A) porta alla conclusione [C]. Per far ciò, trascriviamola in ordine:
(1) (OA) [leggasi: (è obbligatorio: imbucare la lettera)];
(2) OA∨OB [leggasi: (è obbligatorio: imbucare la lettera) o (è obbligatorio: bruciare la lettera)];
(3) O(A∨B) [leggasi: è obbligatorio (imbucare o bruciare la lettera)].
Allegando il suo significato semantico, la sequenza (1) – (3) può così venir riscritta:
(1) È obbligatorio (Imbucare la lettera);
(2) (È obbligatorio (Imbucare la lettera)) o (È obbligatorio (Bruciare la lettera));
(3) È obbligatorio (Imbucare la lettera o Bruciare la lettera).
Qualora non fosse chiara la natura del problema qui attenzionato, l’interpretazione la evidenzia piuttosto bene. Infatti, dall’obbligo di imbucare la lettera deriva, e correttamente, l’obbligo di imbucare la lettera oppure di bruciarla (Ross, Imperativi e logica, p. 89 e sgg.).
Ma scendiamo adesso nell’abisso logico. Da (OA) segue O(AB), ossia da ‘è obbligatorio (A)’ segue ‘è obbligatorio (A-o-B)’. In altri termini, da (1) deriva (3), vale a dire che l’obbligo di imbucare la lettera implica l’obbligo di imbucare la lettera o bruciarla. E la cosa sorprendente è proprio la correlazione tra l’obbligo iniziale e l’obbligo finale! Come se, posto il primo, necessariamente seguisse l’obbligo composto di compiere l’azione obbligata nell’obbligo iniziale o una sua contraria (Pizzo, Pensiero pratico e logica deontica: assenza o presenza di razionalità?, p. 107 e sgg.).
Sebbene (3) non esprima direttamente un obbligo contraddittorio con quello di partenza, vale a dire con (OA), risulta comunque strano che dal primo si possa inferire qualcosa come (3). In proposito, possiamo riportare le enunciazioni di Grana secondo cui «Esso ci dice che se un’azione è obbligatoria, allora è obbligatoria quell’azione o qualsiasi altra azione. L’esempio emblematico dello stesso Ross è il seguente: «Se qualcuno deve imbucare una lettera, allora egli deve imbucare la lettera o bruciarla» (Grana, Logica deontica paraconsistente, p. 25). In effetti, nessuna ragione di senso comune potrebbe condurci da (1) a (3). In altri termini, se è obbligatorio imbucare la lettera come mai è parimenti obbligatorio imbucarla o bruciarla? Mettendo tra parentesi lo specifico significato attribuibile alla sequenza in questione, ad apparir sospetta è la maniera in virtù della quale la logica costruisce catene inferenziali. Infatti, dato (OA) segue O(A∨B), che è come dire che dall’obbligo di compiere (A) segua l’obbligo di compiere (A) o qualsiasi altra azione. Il nocciolo del problema risiede proprio in questo curioso fenomeno notazionale. In merito, ha sicuramente ragione Tecla Mazzarese quando commenta proprio questo paradosso e scrive che la sua paradossalità dipenda esattamente dalla situazione presente (Antinomie, paradossi, logica deontica, p. 444). Ma se così è, difficilmente la logica deontica potrebbe render conto della razionalità dei sistemi normativi. Il problema, molto probabilmente, è molto più profondo della bizzarria logica sin qui mostrata. Infatti, nulla vieta di considerare la catena derivativa (1) – (3) come la trasposizione deontica di note difficoltà presenti in logica proposizionale, e segnatamente dei cosiddetti paradossi dell’implicazione materiale. Tuttavia, in logica deontica assumono una variabilità formale del tutto peculiare, via la natura specifica della branca, ossia voler render conto della razionalità normativa. Quanto in sede proposizionale è, entro certi limiti, accettabile, in logica deontica è del tutto inaccettabile. Ovvero, «this theorem says that if a certain state of affairs p ought to be the case, then also p∨q ought to be the case. For example, if I ought to mail a letter, then surely it is awkward to say that I ought to mail or burn it» (Føllesdal – Hilpinen, Deontic Logic: An Introduction, p. 21). Dire che da (p) segua (p∨q), non è la stessa cosa che dire che da (OA) segua O(A∨B). È proprio la commissione di un’azione da compiere a fare la differenza tra le due formulazioni, e, di converso, a far ravvisare le difficoltà formali della logica deontica a mappare il funzionamento logico del linguaggio normativo. Dicendola con Sartor (Legal Reasoning. A Cognitive Approach to the Law, p. 476), «the premise that it is obligatory to post a letter entails the conclusion that it is obligatory to post it or to burn it». Più precisamente, sembra proprio che l’errore nasca da un’incapacità strutturale, e segnatamente da parte della logica deontica di catturare la razionalità presente nel discorso normativo. Sicuramente ha ragione Hansson quando sostiene che «Ross’ paradox tied to say that too many acts were obligatory» (An Analysis of Some Deontic Logics, p. 384). Ma sembra condivisibile l’individuazione della radice del problema da parte di Poli, secondo cui «in realtà il paradosso di Ross risulta essere un esempio dei noti paradossi dell’implicazione materiale della logica proposizionale e quindi sembrerebbe non presentare alcuna specificità deontica» (Poli, La logica deontica: dalla fondazione assiomatica alla fondazione filosofica (I), p. 336 e sgg.). In effetti, se si considera che il paradosso di Ross precede di un decennio la nascita della logica deontica, il giudizio di Poli non può che essere accettato. Tuttavia, non è davvero possibile liquidare così sbrigativamente la questione. Infatti, benché Ross abbia formulato un paradosso riguardo al tentativo da parte di Jørgensen di dare un primo trattamento formale agli imperativi, Ross tocca comunque un nervo scoperto della posteriore logica deontica, segnatamente la sua relazione con la logica proposizionale. La logica deontica è una logica delle modalità normative nella misura in cui prenda in considerazione il modo delle enunciazioni. Ne consegue, pertanto, che la logica delle modalità deontiche riceva in eredità alcune note difficoltà formali in logica delle proposizioni, segnatamente i paradossi dell’implicazione materiale. Prendiamone in esame uno come termine di paragone. Si dia la seguente implicazione:
(χ) A➝(B➝A) ([leggasi: se si verifica A, allora (se si verifica B, segue A)]
(χ) è un paradosso dell’implicazione materiale e il suo significato è il seguente: (A) implica che (se (B), allora (A)). In altri termini, una formula ben formata implica una seconda formula ben formata la quale nulla ha a che fare con la prima. Com’è facile osservare, la pietra di paragone è data dalla compresenza di ben due impossibilità, rispettivasmente: a) la derivazione di una conclusione contraddittoria a partire da una premessa vera; e, b) il valere questa stessa come se fosse vera. D’altro canto, recentemente, Franca D’Agostini ha ben espresso questo concetto che si può trovare al fondo di qualsiasi costruzione contraddittoria (D’Agostini, Paradossi, p. 31). In altri termini, perché si possa sensatamente parlare di un “paradosso” sono necessarie almeno le seguenti tre condizioni:
+) correttamente derivare C (una conclusione) da P (premesse vere);
++) essere C falsa rispetto alle P;
+++) valere C come vera.
Ora, l’implicazione (), nel caso specifico, è paradossale non in quanto faccia derivare una conclusione paradossale, ma perché da una premessa di partenza, A, si derivi una conclusione, B, estranea ad A. Detto altrimenti, lo “scandalo” risiede nel fatto che da (A) possa seguire (B), ovvero una formula eterogenea alla precedente.
Checché se ne possa pensare, riguardo a tale curioso malfunzionamento e alla sua effettiva genesi, agli scopi presenti, conta aggiungere quanto segue. A mio sommesso parere, ciò dipende dal fatto che una formula ben formata vera, nel caso presente (A), possa venir intesa come conseguente logico di altre formule ben formate riguardanti fatti estranei con il conseguente dell’implicazione. Ragion per cui, avendo (A), (A) può seguire da qualsiasi altra premessa, possibilmente anche da (B). E, dunque, se è vero che devo imbucare la lettera, sarà anche vero che io debba imbucare la lettera o bruciarla. Tanto (A) quanto (B) hanno ragioni formali per valere all’interno di un sistema normativo. Infatti, l’arbitrarietà dell’uno come dell’altro riposa sull’inerzia concettuale del connettivo logico dell’implicazione, vale a dire dal fatto che quest’ultimo non esprime alcuna connessione concettuale tra quanto è descritto nell’antecedente e quanto è descritto nel conseguente del condizionale materiale. D’altro canto, ‘se (A), allora (B)’ impegna esclusivamente riguardo alla verità dei disgiunti. Ne consegue, pertanto, che se è vero l’antecedente, sarà vero anche il conseguente, mentre il condizionale sarebbe falso nel solo caso che il conseguente sia falso mentre l’antecedente è vero. Pertanto, a ben vedere, l’implicazione () asserisce solamente il conseguente, e tuttavia sortisce conseguenze controintuitive, presumibilmente perché consenta di collegare tra loro antecedenti e conseguenti del tutto eterogenei, segnatamente (A) e (B) nell’esempio attualmente in discussione.
A rigore, dunque, Ross avrebbe potuto benissimo tradurre (B) con una qualsiasi altra proposizione, rispetto alla presente, e il paradosso sarebbe rimasto, prescindendo, dunque, dal contenuto concreto.
Peraltro, è lo stesso Ross a notare la presenza di qualcosa di “strano” quando prende in considerazione il connettivo logico della disgiunzione nel suo commento alla logica degli imperativi del connazionale Jørgensen, «se l’imperativo Imbuca la lettera è valido, allora l’imperativo composto Imbuca la lettera o bruciala è pure valido» (Ross, Imperativi e logica, pp. 89 – 90).
Peraltro, pur trattandosi, per ovvie ragioni cronologiche, di un paradosso normativo, non propriamente deontico, sembra corretto asserire anche come si tratti di un malfunzionamento formale non di poco conto, e, sotto certi aspetti, anche istruttivo riguardo alle future difficoltà della futuribile logica deontica medesima. Seguendo, infatti, Frixione, Iaquinto e Vignolo, appare corretto asserire come lo schema inferenziale base, e da cui dipende in ultima analisi il paradosso in questione, possa esser tradotto in simbolismo deontico (Introduzione alle logiche modali, p. 57 e sgg.). Pertanto, vigendo il condizionale seguente:
(C1) A➝B
deriviamo, per necessitazione deontica, la formula che segue:
(C2) O(A➝B)
Ora, a causa del principio di distribuzione dell’operatore deontico, da O(A➝B) deriviamo l’implicazione seguente:
(C3) OA➝OB
Ma l’implicazione (C3) non fa altro che esprimere, sia pure in senso deontico, la conclusione (3), vale a dire formalizzare con modali deontici il malfunzionamento alla base del paradosso in questione, e segnatamente l’improvvida derivazione di (B) da (A).
Quel che, invece, marca la differenza tra Ross e i successivi paradossi deontici, è una certa specificità normativa di questi ultimi rispetto alla dipendenza del paradosso di Ross dai limiti dell’implicazione materiale, e dei suoi malfunzionamenti. Ciò, però, non toglie dall’imbarazzo di poter, e dover sotto un certo riguardo, considerare quello di Ross l’antenato preistorico di una lunga sequela di paradossi deontici, quello di Prior, di Åqvist e del Buon Samaritano in primo luogo.
Ad avviso dei più illuminati interpreti delle difficoltà sofferte dalla logica deontica, ciò dovrebbe suggerire una sostituzione del condizionale materiale con qualche connettivo più duttile allo specifico normativo della logica deontica. Da una mera prospettiva storiografica, invece, si osserva come i vari interpreti, la maggior parte a dire il vero, siano stati propensi a considerare la logica deontica in quanto tale priva «di solide fondamenta logiche e filosofiche» (Sartor, Informatica giuridica. Un’introduzione, p. 87).
Come spesso accade, la verità, agli occhi miopi di chi scrive, sta nel mezzo.
Conclusioni
L’impressione che il giurassico paradosso di Ross suscita consiste, e piuttosto rispetto ad una certa storia oramai istituzionalizzata oltre che, ovviamente, riconosciuta nella sua ortodossa ufficialità, nel suggerire un’idea divergente, oltre che illuminante riguardo alle difficoltà qui evidenziate. Ovvero, che gli innegabili malfunzionamenti formali non attengano alla logica deontica in quanto tale, ma siano analoghi formali che la logica deontica riceve da altre branche della logica per mera filiazione proposizionale. Questa idea, in realtà, non dovrebbe stupire più di tanto dal momento che Ross formula [C] proprio analizzando, e in via analogica, la logica degli imperativi proposta alcuni anni prima dal connazionale Jørgensen e, alla stessa maniera di quest’ultimo, si scontra con alcuni imbarazzi formali che, però, da giurista, e non da epistemologo, liquida come tentativi malriusciti di «giustificare la razionalità del pensiero pratico» (Pizzo, Risposta alla domanda “Che cos’è il Dilemma di Jørgensen?”, p. 35). Quest’ultima è sicuramente soggiacente alla forma delle enunciazioni linguistiche, ma la logica deontica fallisce nel tentativo di darne un adeguato trattamento formale. E questo infausto esito è da addebitare non tanto a sé stessa, ma alla comune base proposizionale che la logica deontica riceve in dote da altri reami logico – formali.
In conclusione, l’eventuale risoluzione del problema presente pare nel contempo estraneo agli interessi eminentemente giuridici del Nostro. Infatti, gli sta a cuore la qualificazione normativa delle fattispecie fattuali, eventualmente anche servendosi della logica (Pizzo, Una possibile definizione di «normativo).
Ma questa considerazione a margine non elimina né scalfisce minimamente la profonda impressione suscitata da una razionalità normativa che renda possibile la prescrizione di obblighi impossibili, tali quali sono gli obblighi confliggenti.
Bibliografia
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- D. Føllesdal –R. Hilpinen, Deontic Logic: An Introduction, in R. Hilpinen, Deontic Logic: Introductory and Systematic Readings, D. Reidel Publishing Company, Dordrecht, 1971, pp. 1 – 35.
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- A. Pizzo, Risposta alla domanda “Che cos’è il Dilemma di Jørgensen?”, in I. Pozzoni, Frammenti di filosofia contemporanea. XVI, Limina Mentis, Villasanta, 2017, pp. 21 – 35.
- A. Pizzo, Una possibile definizione di «normativo». Una lettura a partire da Ross, “Dialegesthai”, anno 7 (2005) [inserito il 7 luglio 2005], ISSN 1128-5478, https://mondodomani.org/dialegesthai/ap01.htm.
- R. Poli, “La logica deontica: dalla fondazione assiomatica alla fondazione filosofica (I)”. In: “Verifiche”, 3, 1982, pp. 329 – 362.
- A. Ross, Imperativi e logica, in A. Ross, Critica del diritto e analisi del linguaggio, Bologna: Il Mulino, 1982, pp. 73 – 96.
- G. Sartor, Informatica giuridica. Un’introduzione, Giuffré, Milano, 1996.
- G. Sartor, Legal Reasoning. A Cognitive Approach to the Law, Springer. Dordrecht, 2005.
- G. H. von Wright, Deontic Logic, “Mind”, 237, 1951, pp. 1 – 15.
* Alessandro Pizzo è Dottore di Ricerca in Filosofia presso l’Università degli Studi di Palermo. Ha studiato le logiche modali e la storia della logica. Attualmente, è professionalmente impegnato nel mondo della scuola. Ha all’attivo più di settanta pubblicazioni scientifiche. Recentemente ha pubblicato i volumi Viaggio al centro della logica (2009) e Logica del linguaggio normativo. Saggi su logica deontica e informatica giuridica (2010). Gestisce un blog personale: http://alessandropizzo.blogspot.it.
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