Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Conoscenza ignoranza mistero. Un saggio Cortina di Edgar Morin

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> di Piero Borzini

Edgar Morin (1921) è uno dei “grandi vecchi” dal pensiero sempre attuale. Non ho remore a confessare che egli è stato per me uno degli imprescindibili punti di riferimento intellettuale, in modo particolare per quel che riguarda il pensiero complesso e le riflessioni sociologiche in tema di cultura, comunicazione, istruzione, e relazioni tra scienze e umanesimo. Il primo dei suoi libri che mi è capitato fra le mani – Il paradigma perduto: che cos’è la natura umana? Bompiani, 1974) – mi aveva letteralmente folgorato per gli innumerevoli spunti di riflessione che vi avevo inaspettatamente trovato. Erano i primi anni Ottanta. Da allora, ho letto diversi saggi e articoli del sociologo francese. Di notevole influenza sul corso dei miei pensieri sono stati: Introduzione al pensiero complesso (1993), Le vie della complessità (in La Sfida della complessità, a cura di Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti, 1997), L’identità umana (2002), Sette lezioni sul pensiero globale (2016). In questi giorni ho letto uno dei suoi ultimi saggi, Conoscenza, ignoranza, mistero (Raffaello Cortina, 2018), ed ho provato una stretta al cuore. Nelle sezioni dedicate alla conoscenza e all’ignoranza ho trovato molte conferme e sempre freschi stimoli. L’ultima sezione, ove si tratta il mistero, accanto a stimolanti aperture su un tema che appartiene alla storia antica del genere umano, ho trovato tuttavia affermazioni affrettate, opinioni mal supportati da fatti (cosa insolita per lui), affermazioni che definirei febbricitanti e – se posso permettermi un sacrilegio – errori di metodo.

Gli aspetti stimolanti di questo recente saggio sono molti. Uno di questi riguarda l’aspetto dialogico fra opposti: nella fattispecie, la ragione e la follia; il bene e il male; il riduzionismo e la creatività. Dove nasce l’uno, quasi emergendo dal nulla, compare anche l’altro. Le due facce della medaglia. Facce opposte, nemiche, incompatibili che però, assieme, formano il tutto e, nel contrasto possono anche dialogare. Dice Morin: «Questa “ragione superiore” è tutta intrisa di “follia smodata”» (p. 10). In queste scarnissime parole sembra essere contenuta, come in un epigramma, tutta l’essenza dell’uomo.
Fra i temi classici di Morin vi è la conoscibilità e la conoscenza. «La conoscenza definitiva o esaustiva non è possibile, neppure nel biologico» (p. 15), afferma Morin. La realtà esterna, qualsiasi cosa essa sia, deve essere riprodotta all’interno dell’apparato cervello-mente. Segnali luminosi o sonori devono essere tradotti in segnali elettrochimici, e poi in idee, e queste in parole. Questi processi meravigliosi non sono esenti da errore o da illusioni. La realtà là fuori – ricordando Kant e Nietzsche – non è conoscibile tal quale: «Dobbiamo assolutamente sapere che i nostri processi di conoscenza, a partire dalla percezione fino all’idea e alla teoria, passando attraverso il linguaggio, sono in se stessi fonti e condizioni dell’errore e dell’illusione. È ciò che ci fa conoscere che ci inganna e ci illude. Siamo sempre condannati a interpretare» (pp. 99-100). Bisogna essere consapevoli riguardo ai limiti della conoscibilità e della conoscenza e bisogna avere il coraggio di riconoscere tali limiti: la teoria della conoscenza complessa lo fa. «La conoscenza complessa non può eliminare l’incertezza, l’insufficienza, l’incompiutezza al suo interno, ma ha il merito di riconoscere l’incertezza, l’incompiutezza, l’insufficienza delle nostre conoscenze» (p. 16).
Altro tema caro a Morin è quello della ragione e della razionalità che non è, e non può essere, strumento esclusivo di conoscenza. Il sociologo francese mette in guardia sugli ingannevoli loop e le intricate relazioni tra ragione e irrazionalità che la ragione medesima è capace di generare: «Coloro che proiettano la loro ragione nell’universo tendono a considerare l’irrazionalità come illusione dell’ignorante e, diventando essi stessi irrazionali nell’illusione razionalista, tendono a diventare ciechi nei confronti delle irrazionalità del mondo» (p. 11).
Il mondo delle idee, basta ricordare Popper ed Eccles, è un mondo reale. L’uomo riesce a dare consistenza e fisicità alle proprie idee, le rende entità reali. Morin, che si definisce co-costruttivista (p. 25), si domanda: «È forse il reale la reificazione di una realtà che non è fatta di cose ma che noi “cosifichiamo”?». Le idee, che sono entità psichiche, una volta “cosificate” divengono realtà tanto reali, forti e potenti – talora supreme – da poter addirittura prendere, novelli Golem, il sopravvento su chi le ha create, invertendo in maniera inattesa e perversa i rapporti di potere tra creatore e creatura: «La nostra realtà umana produce miti, dèi, ideologie a cui noi attribuiamo una realtà superiore alla nostra, o persino, per gli dèi, una realtà suprema, benché prodotta dalle nostre menti. La realtà dei nostri miti, dei nostri dèi, delle nostre idee rimane dipendente dalla comunità di menti che la alimentano […] Le menti producono e alimentano delle entità dotate di vita le quali prendono il potere sulle menti che le hanno create: gli dèi e le idee […] La mente umana è mitopoetica, e più ancora produttrice di dèi, i quali nella e per una collettività acquisiscono autorità e potenza fino a colonizzare le menti senza le quali essi non esisterebbero. L’essere umano ha un’attitudine isterica, cioè l’attitudine di dare una realtà fisica a una realtà psichica. Siamo capaci di morire o di uccidere per un Dio che non esisterebbe senza di noi …alcune idee – nazionalismo, comunismo, fascismo – sono diventate potentissime esigendo obbedienza dai loro fedeli» (pp. 26; 82; 108-110).
La natura dialogica della relazione tra il mondo astratto delle idee e la realtà – pregna di conseguenze concrete – delle idee reificate è del tutto evidente agli occhi del sociologo francese. Tutto l’universo, per lo meno l’universo umano, è impregnato dallo scontro-dialogo tra opposti. Lo stesso universo è nato da una frattura, una separazione (terre e acque, giorno e notte, caldo e freddo, bene e male …) “diabolica” se si prende per buona l’etimologia proposta da Morin: «Se Diablos è ciò che separa, l’atto di creazione di un mondo è un atto diabolico che disunisce. Ma quest’atto diabolico è temperato da una forza di unione che gli è divinamente complementare» (p. 43). Tra gli opposti interagenti ci sono pulsioni ancestrali e fondamentali dell’uomo che Morin semplifica adottando la metafora del software: «Siamo posseduti da un doppio software: il software dell’affermazione egocentrica del Me-Io che ci installa al centro del nostro mondo e il software del Noi che ci unisce e ingloba a una comunità. Il primo esclude ogni altro al di fuori di sé, il secondo lo include in un Noi» (p. 91). Leggendo di questo “NOI” come di programma comportamentale iscritto nei nostri istinti, non ho potuto fare a meno di rammentare il romanzo NOI, scritto da Evgenij Ivanovič Zamjatin tra il 1919 e il 1921, in cui il concetto “noi” trova una sua concreta realizzazione distopica in cui la collettività, anziché fungere da risorsa, si trasforma in prigione.
Secondo Morin, le dinamiche dialogiche tra concetti e realtà, tra idee pensate e idee “cosificate”, costituiscono anche un vero e proprio strumento cognitivo empirico che l’uomo utilizza al pari del ragionamento induttivo e di quello deduttivo, preferiti, questi ultimi, dall’uomo di scienza: «La mente funziona non solo in modo logico, ma anche in modo analogico e può funzionare in modo dialogico (assumendo e associando contraddizioni). È significativo che la macchina che conosce utilizza insieme la logica e l’analogica. L’analogia, che interviene spesso come metafora, è un mezzo di conoscenza ancora oggi disdegnato dagli scienziati […] L’analogia è presente in tutti i nostri modi di conoscenza, ad eccezione del calcolo […] L’analogia resta essenziale nella vita quotidiana, sotto forma di metafora o di immagine, per esprimere un sentimento o un’idea» (pp. 102-103).
Dopo tutte queste premesse pregne di contenuti molto interessanti anche per chi non concordasse con le analisi del sociologo francese, egli pare cadere nel baratro di un loop in cui sono proprio le sue stesse idee, nate come costrutti psichici astratti, ad assumere forza e vigore autonomo, soggiogando in certo qual modo il pensiero critico di Morin. Prendendo derive inaspettate, Morin sembra prendere per buone e dare fiducia (senza mai porre qualche genere di dubbio in merito) a tradizioni, miti, superstizioni e fantasiosissime interpretazioni di fatti veri o presunti. Di fronte a tale deriva, lo sconcerto è grande. Senza prendersi cura di addurre giustificazioni o di produrre elementi a riprova dei fatti di cui discute, egli conferisce tout court a tali fatti (attività sciamaniche, estasi mistica, creatività artistica e vari altri “fatti”) un’aurea di realtà che li trasforma in fatti “veri” sui quali valga la pena di ragionare. Data la caratura del personaggio, questo comportamento logico mi è parso un mostruoso e del tutto inesplicabile errore metodologico. C’è da rimanere stupefatti di fronte a frasi come questa: «Il pianeta Terra è un’entità geo-bio-fisica dotata di vita propria. È forse dotato di intelligenza. I “dischi volanti” sarebbero forse non dei viaggiatori dello spazio, ma delle emanazioni della Terra» (p. 81). Non v’è dubbio che l’uomo tenda a dare forma ai propri sogni e alle proprie ossessioni, tuttavia, per come è posta, questa frase è alquanto inquietante.
Nell’esaminare alcuni aspetti e alcuni non comprovabili processi cognitivi correlati alle attività sciamaniche, Morin sembra dare per scontato che davvero lo sciamano possa comunicare telepaticamente, che possa comunicare con piante e animali o che possa comunicare con gli spiriti. È pur vero che, al pari della sua veridicità, neppure la falsità di tali affermazioni è dimostrabile. Tuttavia, attribuire a questi presunti fenomeni il medesimo status di “realtà” di fenomeni ben più controllabili significa rifiutarsi di definire gerarchie di credibilità, o di porre limiti, ai fatti di cui si intende discutere. Nella affermazione che segue, Morin cerca addirittura una spalla nell’antropologo Jeremy Narby, le cui ipotesi sembrano ancor più fantasiose e indimostrabili dei supposti poteri sciamanici: «Nella trance, lo sciamano comunica col mondo degli spiriti (antenati, geni dei luoghi) così come col mondo della vita, le piante e gli animali (secondo Jeremy Narby la comunicazione avverrebbe tramite l’universale DNA, linguaggio genetico identico per tutti gli esseri viventi). Lo sciamano può accedere telepaticamente a conoscenze nascoste nelle piante e negli animali» (p. 112). Con tutto il rispetto per Morin, non riesce facile capire come egli possa prestare fede a ipotesi e a presunti fenomeni di tal fatta.
Morin asserisce che a particolari condizioni psicologiche o a particolari disposizioni d’animo corrispondono altrettanti specifici meccanismi cognitivi, che sono esclusivi dell’essere umano. A questi stati d’animo egli dà un nome e una definizione: «Stato secondo: stato generico degli stati poetici; Stato estetico: stato di emozione poetica; Stato di meraviglia: di intensa emozione estetica; Stato di comunione: stato di armonia di idee condivise collettivamente; Stato mistico: sensazione di unità e armonia; Stato di possessione: stato in cui si è o ci si sente abitati da altri o da forze sconosciute; Stato di trance: stato di ispirazione poetica; Stato di ispirazione: come il precedente ma limitato all’ispirazione artistica; Stato di esaltazione: condizione di particolare euforia; Stato sacro: stato poetico devozionale; Stato d’adorazione: stato d’amore mistico per il divino» (pp. 120 e seguenti).
Tali stati d’animo, “cosificati” nel momento stesso in cui egli li nomina e li definisce, diventano cose vere e reali, dotati di vita autonoma. Morin applica a se stesso e alle proprie idee il processo mitogenico di trasformare un’entità psichica in una realtà fisica e operativa. Da critico e studioso di sociologia, diventa egli stesso un produttore di miti e, da studioso, si trasforma in oggetto di studio. Questa trasposizione analogica tra soggetto e oggetto è e rimane, secondo me, una falla metodologica, forse una provocazione, che lascia alquanto perplessi.
Infine, nell’ultimo capitolo intitolato “post-umanità”, Morin si lancia in una sorta di improbabile sociologia del futuribile, all’interfaccia tra due futuri già iniziati – opposti ma potenzialmente dialogici – verso i quali egli vede rispettivamente precipitare o avanzare la società umana: il disastro definitivo e la resurrezione. Mentre il “disastro” appare come la naturale conseguenza dei molti errori commessi dall’uomo, la “resurrezione” potrebbe aver luogo attraverso le potenzialità tutte da dimostrare di una sorta di “trans-umanesimo”. Questo sarà l’espressione di un “uomo nuovo”, in grado di recuperare – anche grazie all’aiuto di ciber-protesi – il senso vero e profondo dell’essere umano, nel senso più alto del termine. In una sorta di delirio (non riesco a trovare un termine più adatto per descrivere il modo con cui Morin si esprime in queste ultime pagine), a questo uomo nuovo – un uomo “aumentato”, un uomo simbiotico, un uomo-robotizzato – egli da un nome, anzi, ne propone due: “metantropo” e “cosmopiteco”. Di nuovo, dando un nome a questi prodotti della psiche, egli finisce per ragionarci sopra come se si trattasse di entità reali e tale condizione post-umana diviene il terreno di studio di un nuovo progetto di ricerca sociologica: la condizione post-umana. Temo che, con questo, Morin sia andato un po’ troppo avanti, correndo il rischio di perdersi.

* Piero Borzini dopo una carriera ospedaliera dedicata all’immunologia, al trapianto e alla medicina rigenerativa, i suoi interessi si sono collocati all’interfaccia tra antropologia, scienze biomediche, epistemologia. Ha pubblicato: Immunologia, evoluzione, pensiero (2009); Diventare umani (2013); William Bateson, l’uomo che inventò la Genetica (2015); Non fare troppe domande: i classici della narrativa distopica per una discussione sulla libertà (2016). Pubblica saltuari articoli e recensioni in PaginaUno, Filosofia e Nuovi Sentieri, Methodologia on line. Sul Blog doveosanolegalline.blogspot.it pubblica post sul tema “Scienza e società”.


E. Morin, Conoscenza ignoranza mistero, ed. Cortina, 2018.

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