Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

L’ipseità e il quasi-niente. Due saggi di Jankélévitch a cura di Gianluca Valle

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> di Federico Squillacioti

Le opere di Vladimir Jankélévitch, il pensatore fuori dagli schemi e pianista-filosofo professore di filosofia morale, non sono per niente semplici da analizzare, la sua è una lingua tortuosa e intricata per quanto lapidaria e puntuale, ricca di spunti complessi e di idee precise quanto aperte ad interpretazione e discussione. Per questo il lavoro di Gianluca Valle è fondamentale nel presentarci i due saggi qui analizzati. Il curatore di questa edizione ci introduce infatti quelle che sono le problematiche più frequenti e ci fornisce gli strumenti preliminari per una comprensione piena e soddisfacente del lessico e delle idee di Jankélévitch, parlando in generale del pensiero di questo autore e nello specifico dei concetti chiave che affronteremo durante la disanima del testo. Le riflessioni del curatore sui concetti di ipseità e quasi-niente permettono di collegare sapientemente i testi in questione con altre opere dello stesso autore, ma anche di Derrida e Scheler tra gli altri. Valle ricollega con maestria le idee di Leibniz sul male con la visione che ci fornirà Jankélévitch, oltre a citare più volte i lavori di Simmel dedicati alla persona e all’identità in vista delle riflessioni che emergeranno nell’opera riguardo che cosa sia la vita vissuta e come si debbano implementare i valori all’interno di essa. Non manca una doverosa menzione a Kant riguardo la morale e gli imperativi, oltre che uno spunto interessante su Heidegger riguardo il ruolo degli uomini in un contesto sociale ed identitario nel suo essere ed essere-con-gli-altri, per un quadro completo ed efficace che ci porti ad addentrarci nel testo nella sua interezza.

L’ipseità

Non si deve fare un grande sforzo per esistere, anzi non se ne fanno affatto. Vivere è una fatica a sé stante, una responsabilità o dovere che si assume in quanto persone scagliate in un mondo e in una socialità. Tutti noi siamo capaci di essere ciò che naturalmente e primordialmente siamo, ciò che siamo alla nascita in quanto semplicemente nati. Ogni nostro valore, ogni nostra azione con le sue conseguenze non è che un tassello di vita, non di esistenza. Ad essa niente si aggiunge, niente si può togliere. È intatta ed intangibile, impossibile da negare quanto da rifiutare, incomprensibile eppure già compresa. Dobbiamo già essere per essere meglio, dice l’autore, ogni miglioria e sensazione di progressione non esisterebbe se non si inquadrasse in una esistenza già in atto. Lo stesso è valido per l’atto estremo e finale, morire non è molto più che esistere, per farlo ci basta aspettare di morire. Un morto non ha compiuto sforzi per arrivare alla sua condizione, il non più vivo è il morto come il nato è colui che vive e niente di più dev’essere aggiunto. L’ipseità si configura anche come priva di quantità, una vita può essere vuota o sminuita ma un’esistenza non può avere gradi di realizzazione, nessuna struttura gerarchica può imprigionarne la forza, un potere forte in quanto sempre e comunque uguale a sé stesso e immutabile nel tempo. Il merito in una azione è ben altro, è uno sforzo anche nella possibile sconfitta. È una lotta in cui non siamo perfetti, ma cerchiamo di essere al meglio. Pascal dice “Meglio non digiunare ed essere umiliati da ciò che digiunare ed essere compiaciuti”; l’idea è che un atto in sé stesso encomiabile non può essere tale se la volontà di realizzarlo ci fa sentire soddisfatti a prescindere dal reale motivo per cui agiamo, se ci sentiamo meglio nel dolore di stare peggio a tutti i costi. È un atto di superbia peggiore anche del comportamento di chi evita di patire e prosegue per la propria strada, piuttosto che fingere magnanimità e simulare grandezza d’animo. Il nostro obiettivo nello sforzo e nella fatica per un obiettivo desiderato dev’essere quello di rendere il Fare degno dell’essere che già sono, essere all’altezza di noi stessi. Qui però sorge la questione esistenziale di come sia possibile sapere quali siano le vie per vivere con dignità, che cosa significa in sostanza prendersi cura di ciò che si è? Le religioni rispondono assegnando gli uomini dei compiti ben precisi sulla terra, dicono che il nostro compito terreno è preparare il cammino verso la trascendenza post-mortem e svalutano così buona parte dei possibili risultati ottenuti in vita. In generale, mascheriamo in molti modi diversi il nostro disagio di non sapere che cosa sia il nostro dovere terreno, in quanto esseri nati per essere. Cerchiamo la realizzazione morale e personale con espedienti vari, tenendo un certo registro nelle maniere o ricercando sfizi ed inseguendo ossessioni, come se cercassimo rimedi ad una malattia che dobbiamo poi ammettere essere altrove. Ci sentiamo debitori senza debiti dice Jankélévitch, sentiamo una mancanza ma il vuoto è misterioso e non lo si rintraccia in nessuna operazione del nostro Fare, proprio perché affonda le sue radici nell’Essere che con il Fare non ha certo un rapporto paritario. Che cosa ci rende qualcuno nel senso profondo di “qualcuno di preciso”, “qualcuno e non qualcun altro”? Che caratteristiche definiscono la persona in quanto tale?L’esempio più lampante e potente che ivi troverete riguarda l’innamoramento. Noi amiamo e soffriamo di fronte all’assenza dell’amato, se lo perderemo cercheremo solamente e sempre lui per un lungo periodo. Non vogliamo solamente delle sensazioni, un certo benessere. Quando ci si innamora veramente si tende a cercare colui o colei che abbiamo perso, non dei surrogati. Se ci si presentasse di fronte un sosia saremmo comunque costretti ad ammettere che è una persona diversa, un traditore della forza vera dell’amore devoto e profondo che rivogliamo indietro.

Il quasi-niente

Per spiegarci questo concetto metafisico, dobbiamo innanzitutto uscire dall’idea classica e diffusasi nel parlato del quasi come “essere in un modo molto vicino ad un altro”. Pensiamo a quella serie di atti o a quegli eventi puntuali a cui ci sentiamo vicini in certi momenti della vita; sono quasi morto, per esempio. La vita e la morte rimangono concetti fondamentali per l’autore nelle sue disamine esistenziali e metafisiche, sono i concetti madre dell’esistenza umana in quanto propriamente sentita ed avvertita come terrena, pulsante. Ebbene, essere in procinto di esalare l’ultimo respiro non ci rende “quasi-morti”. Che cosa sappiamo della condizione di chi muore? In che senso saremmo vicini all’atto finale della vita in un momento che, per quanto critico, è ancora inserito in un presente cosciente e “pieno di esistenza”? Se ci ricolleghiamo al concetto di esistenza appena analizzato nel saggio sull’ipseità, affermare che in un dato momento la nostra vita sia così vicina alla fine da farci sentire “quasi-morti” significa non solamente svuotare appunto il concetto di vita (che non è ancora esaurita nel momento in cui parliamo), ma intacchiamo parzialmente anche l’idea di esistenza come immutabile ed intaccabile. Morire è cessare di esistere. Essere nello stato del “quasi” che cosa dovrebbe significare, allora? Se non sono in uno stato X ma neanche di non-X, lo stato del quasi dovrebbe forse essere una terza distinta modalità differente? La risposta è di no, tuttalpiù si può parlare di un vero e proprio miracolo nel momento in cui l’attimo semplicemente accade, l’attimo che non è nel tempo ma lo delimita e ne è un segno fisso in un eterno divenire. Morire è esso stesso un attimo puntuale, prima di esso esiste il tempo che scorre e dopo il tempo ritornerà a scorrere nello stesso modo. Il modo di essere dell’evento-attimo è un niente che però accade, il suo modo di essere è quello di avvenire. Pensiamo infatti all’attimo-morte. Tutti noi ci interroghiamo su che cosa voglia dire lasciare questo mondo, ma la morte non si può mai vedere. Ne osserviamo il risultato, cioè il morto, oppure chi ancora non la vive, l’uomo che si appresta ad andarsene per sempre. Ma l’atto istantaneo e mai ripetibile della dipartita resta confinato in sé stesso, è in quanto accade ed accadendo è. Fissare il cadavere in cerca di segni di che cosa sia la morte sarebbe come osservare un panno inzuppato cercando di capire che cosa sia un flusso d’acqua. Vediamo il risultato di un processo, non il processo. La vita stessa degli uomini è costellata di momenti in cui si scorre nel tempo e si lascia che sia lo scorrere a prevalere, siamo immersi in un flusso in cui il fieri vince sul facere attivo. Gli eventi e gli altri attorno a noi modellano quella che chiamiamo comunque nostra vita. Il vero atto del fare pieno e completo accade di rado, è quella che chiamiamo occasione nel senso di treno che passa e subito sparisce all’orizzonte se non ci saliamo, è un lampo in una serie di luci molto meno luminose e che dobbiamo essere pronti a cogliere, dobbiamo immergerci nella dimensione sfuggente dell’istante e disgregare con esso la passività che il tempo (come kronos, non più come kairos) ci costringe a tollerare. Per questo la metafisica è la filosofia che resta sulle punte, che fa un’acrobazia per mantenere l’equilibrio nel cogliere l’attimo che avviene contemporaneamente ad un presente in continuo flusso, deve stoppare il tempo rendendolo occasione e dunque non fare esperienza di un dato scorrere ma appunto esperirlo in senso ridotto come “intuizione momentanea e fulminea” della realtà dell’attimo.


Gianluca Valle, L’ipseità e il quasi-niente, ed. Solfanelli, 2017.

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