Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Filosofia del profondo, formazione continua, cura di sé. Un saggio IPOC di Andrea Ignazio Daddi

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> di Alessandro Pizzo *

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Sicuramente, ‘filosofia’ si dice in molti modi e, parimenti, l’originalità di un contributo la si coglie esclusivamente nella misura in cui s’è in grado di indicare, e sorreggere per il tramite di dovuti argomenti, un modo d’essere della filosofia stessa. Questo è esattamente quel che Andrea Ignazio Daddi fa nel presente volume. Della filosofia, l’autore prende in considerazione due aspetti in modo particolare i quali, da parte loro, e ciascuno per parte propria, descrivono anche il percorso esistenziale esperito da Daddi medesimo, vale a dire la «tendenza all’introspezione» (p. 23) e la «ricerca di significato» (p. 23). Tanto la prima quanto la seconda costituiscono la trama dell’ordito esistenziale dell’autore, al quale si aggiungono in seguito la pedagogia e le «psicologie del profondo» (p. 24). Questo appare il leti motiv del volume presente, ossia cercare di mettere in dialogo la filosofia, intesa come ricerca del significato esistenziale, e le varie forme di analisi, intese come introspezione personale ad ampio raggio. Far questo significa, nel contempo, anche riattivare un filone di ricerca presente agli inizi della storia della filosofia ma via via obliato nel corso dei secoli in favore di ben altre opzioni. Secondo Daddi, infatti, della filosofia va recuperata la sua tendenza sapienziale, vale a dire quel particolare tipo di discorso afferente alla filosofia ma consistente nel compiere una «cura dell’anima» (p. 27). Di tutti i modi di dire, e fare, ‘filosofia’, la predilezione di Daddi va verso l’opzione della ricerca filosofica pratica che consiste nella «ricerca personale» (p. 33), da intendersi, però, come «educazione in età adulta» (p. 33), come un autonomo e personale percorso di auto – formazione di sè.

Dipanando i mille rivoli di questa storia spuria e i mille equivoci di un mal compreso rapporto tra filosofia e vita, tra introspezione e racconto di sé, tra cura dell’anima e formazione degli adulti, l’autore affronta i molteplici pericoli di un’avventura tanto ardita quanto pericolosa. In primo luogo, si sofferma sulla scrittura autobiografica che un filosofo pratico dovrebbe realizzare se desidera curare la propria anima. In secondo luogo, indirizza l’autoanalisi in direzione dell’autoformazione di sé da parte dello stesso filosofo pratico. Successivamente, raccomanda distacco in tale processo al fine di favorire una completa comprensione del racconto di sé. Infine, celebra il processo ermeneutico in forza del quale il filosofo pratico pone domande e risponde alle stesse comparando la scrittura di sé e il «presente che si è diventati» (p. 49). Tuttavia, memore della lezione psicoanalitica, Daddi ritiene che quest’ultimo processo di interpretazione possa avere luogo se, e solo se, si compia tale sforzo per il tramite di metafore, ovvero di mediazioni simboliche del proprio racconto esistenziale. Infatti, l’interloquire con la propria ed altrui vita significa, né più né meno, «pensare per racconti, per storia, narrazioni» (p. 51). Ne consegue, pertanto, che la cura dell’anima venga intesa come cura, ovvero come filosofia, cioè educazione, racconto di sé, autobiografia, e, quindi, in conclusione, terapia. Il dialogo a più voci, scritte, orali, ricordate, e così via, è sempre una potente molla dinamica che rimanda costantemente da un polo all’altro dell’esperienza introspettiva. Facendosi carico di questo arricchimento personale, il soggetto può certamente, con maggior chiarezza, attribuire un significato al proprio percorso esistenziale. Così facendo, egli compie una (auto)terapia della propria vita, educandosi e formandosi, sempre meglio chiarendo e comprendendo le asperità che ne cesellano l’esistenza.
Il punto critico, ed interessante, a mio avviso, messo in risalto dall’autore è proprio questo, ovvero legare i fili del filone sapienziale della filosofia antica e il fronte junghiano delle scienze del profondo. Riuscire a ricavare uno spazio teoretico in tal senso è la consegna massima, tanto sfidante quanto intrigante del volume in oggetto.
Raccontare di sé significa curarsi, ovvero condurre una «pratica filosofica» (p. 57), seguendo al riguardo l’utile lezione di Duccio Demetrio. Ma se senso si dice in molti modi, solo uno è quello prescelto da Daddi. Anche se, a dire il vero, sarebbe più corretto dire che l’autore abbracci non un singolo senso determinato, ma, e piuttosto, un arcipelago di senso, un orizzonte di massima, una direzione larga ed inclusiva di significato esistenziale. Tale orizzonte vasto rifugge dalla dimensione conoscitiva, o solamente teorica, della filosofia in quanto tale, ma impone un tipo di riflessione che, «nel riflettere» (p. 69), riprende «la vita allo scopo di scandagliarla e (ri)orientarla» (p. 69). Detto altrimenti, non si tratta solamente di una mera analisi dei dati di esperienza, ma di un gioco dialettico che va dinamicamente dalla vita al racconto, e da quest’ultimo di nuovo alla vita, al fine di meglio comprenderla e di incidere attivamente su di essa. D’altro canto, la cura è sempre un prendersi cura, vale a dire guarire il soggetto assumendo un impegno empatico, sollevando quest’ultimo dai suoi dolori. Daddi, debitore nei confronti della psicoanalisi, associa qui la dimensione biografica della pratica filosofica alla terapia metaforica la quale, proprio perché racconta, si prende cura del soggetto, liberandolo, in maniera piuttosto catartica, dall’assenza di senso, o di stile di attribuzione, che il soggetto esperisce proprio perché tutto dentro il proprio flusso esistenziale. La direzione di approdo o la meta agognata appare chiarissima sin dai primi passaggi, vale a dire che Daddi intende, seguendo in ciò Galimberti, far evolvere la psicoanalisi in direzione delle pratiche filosofiche. La nota saliente è, per l’appunto, consentire una presa in carico della biografia del soggetto che possa equivalere alla cura dello stesso.
Ma la pratica filosofica qui presente non è da confondersi con la pratica del counseling, incredibilmente in voga al giorno d’oggi, in una tendenza generale che la confonde con una vaga forma di psichiatria laica oppure di confessionale non religioso. Infatti, Daddi segue, in merito, i lavori di Màdera, ed intende rinnovare la filosofia «praticandola come modo di vivere» (pp. 79 – 80). Questo rinnovamento novella la filosofia in quanto tale, trasformandola in un’esperienza comunitaria volta alla terapia, ovvero alla presa in carica dei soggetti coinvolti. La filosofia, pertanto, non è una dottrina, ma saggezza; la filosofia non è conoscenza, ma esperienza comune di vita; la filosofia non è teoria, ma pratica di vita.
Pertanto, Daddi ritiene che la sapienza non sia un correlato della pratica filosofica, ma una meta ideale in direzione della quale condurre un percorso comune di ricerca, tanto personale quanto comunitario, e fatto di ascolto, studio, insegnamento, scrittura, dialogo, dibattito. In questa felice commistione di segmenti differenti, l’autore mostra in cosa consista la sua pratica filosofica, ovvero una «sintesi innovativa tra pratiche filosofiche e psiconoanalisi junghiana» (p. 88). Questa è Philo, il progetto a più voci di fecondo rinnovamento della filosofia e di felice rinnovamento della pratica filosofica per il tramite della tensione di cura incarnata o incardinata sul racconto autobiografico in Jung.
Non si tratta, ovviamente, di una variante non scientifica della psicologia, ma di un «rinnovamento della saggezza« (p. 92) antica, un’applicazione della lezione di Hadot, ovvero una particolare maniera d’intendere la filosofia uno «stile di vita» (p. 92). La pratica non è terapeutica in senso medico o di cura di «psicopatologie specifiche» (p. 94), ma un rivolgersi «alla dimensione “sana” e “normale” presente in tutte le persone che, in quanto esseri umani, quotidianamente hanno a che fare con le dolorose condizioni esistenziali dell’angoscia e dello smarrimento e sperimentano una comune apertura alla ricerca di senso» (p. 95). Aiutare questi soggetti significa appunto prendersi cura degli altri, procedere ad «una concezione congiunta di narrazioni e scambio trasformativo di significati» (p. 96). D’altro canto, i significati non sono mai prodotti del singolo soggetto, ma tipi comuni. Pertanto, allora, la terapia filosofica consiste in questo: nella narrazione culturale delle vite singole che riconnette queste ultime alla loro dimensione collettiva, e, dunque, al bacino culturale di riferimento. Il soggetto, infatti, vive muovendosi all’interno dei significati culturali dell’elaborazione collettiva della quale egli è parte mentre quella appare «imprescindibile riferimento» (p. 97). Lo scavo interiore non è così diretto alla ricerca di rimossi e di traumi infantili quanto rivolto, e finalizzato, a proiettare il soggetto «verso il futuro» (p. 99), «liberando l’immaginazione creatrice e rimediando alla mutilazione inferta alla spinta vitale» (p. 99).
La torsione concettuale, a questo punto, non può apparire più netta. Infatti, la psicologia del profondo diviene qui ricerca del «significato primo» (p. 101), «indagine sull’umano nelle sue dimensioni più nascoste» (p. 101), «paideia spirituale» (p. 101). Se la «filosofia è madre» (p. 101), a questo progetto è richiesta «una fertile contaminazione» (p. 101).
Il progetto di Philo consiste, dunque, nel mettere in campo «una peculiare forma di apprendimento trasformativo e di formazione (auto)biografica» (p. 102), per il tramite delle pratiche filosofiche rinnovate. D’altro canto, è solo per mezzo del «racconto co-costruito» (p. 109) che diviene «possibile prendere consapevolezza dei propri modelli simbolici di attribuzione di significato, degli schemi su cui si fondano, delle prospettive che esprimono e trasformarle […] alla luce di nuove esperienze significative» (p. 109). Si potrebbe, dunque, ritenere Philo «una comunità di pratiche» (p. 113) ove «apprendimento e strutturazione condivisa delle identità dei singoli si fondano sulla “partecipazione attiva” e su un “processo di identificazione/appartenenza” e sono “frutto [di una] esperienza situata”» (p. 113).
Daddi dialoga, all’interno di una più generale prospettiva di “progetto” in fieri, e non ancora concluso, con vari autori, al fine di «restituire alla psicoanalisi la sua dimensione più propriamente pedagogica e androgogica, troppo spesso oscurata, evidenziandone la natura prettamente filosofiche» (p. 165).
E farlo, con onestà intellettuale, con solida preparazione, e con una sana chiarezza espositiva, non può che essere un buon viatico per il futuro sviluppo del progetto in questione.

* Alessandro Pizzo è Dottore di Ricerca in Filosofia c/o l’Università degli Studi di Palermo. Si occupa della razionalità delle norme e del discorso normativo in generale. Attualmente è occupato nella scuola secondaria di secondo grado. Autore di svariate monografie e di articoli, è anche redattore di un blog personale: http://alessandropizzo.blogspot.it.


A.I. Daddi, Filosofia del profondo, formazione continua, cura di sé. Apologia di una psicoanalisi misconosciuta, IPOC, Milano 2016.

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