Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

L’inconfessato rapporto tra poesia e filosofia in María Zambrano

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di >Alessandro Pizzo*

Abstract: Secondo María Zambrano la filosofia e la poesia si sono separate in tempi remoti a seguito di una sensibilità differente e a partire da una diversa maniera d’intendere la visione della stessa realtà. In opposizione a questo vero e proprio “strappo originario”, Zambrano propone una sua visione originale, ovvero un pensiero poetante capace di riannodare i fili recisi di una storia comune.

Parole chiave: Zambrano; poesia; filosofia; realtà; pensiero poetante.

Introduzione

Secondo María Zambrano, in un tempo tanto mitico quanto storico i sentieri della poesia e della filosofia si separano sino a coprire con l’oblio la loro stessa unità originaria. Pur condividendo una medesima origine, l’una e l’altra si separano, non senza astio reciproco, e ciascuna trascende il punto di partenza per divenire altro, per tramutarsi in altro, per evolvere verso una differenza, più o meno marcata, scavando un profondo solco che separi quanto più entrambe dall’unità di partenza, ora irrimediabilmente perduta.

Detto questo, è però possibile osservare la presenza in Zambrano di una certa consapevolezza dei processi storici in generale, così come dell’evoluzione delle culture che funge da sostrato sul quale poggiare la propria riflessione in merito ai rapporti scismatici, oltre che nascosti, inconfessati, inconfessabili e indicibili, tra la poesia e la filosofia. In una celebre conferenza, infatti, la Nostra associa la figura di Antigone a quella di Socrate, ambedue considerati alla stregua di simboli effettivi di una maturazione della mentalità antica, e secondo la quale furono capaci di andar oltre, ovvero di superare la loro forma originaria e di partenza, sino a trasformarsi in altro (Zambrano, Delirio di Antigone, p. 86). Di conseguenza, le presenti appaiono come due figure importanti perché segnano il momento di passaggio dall’indistinzione delle forme antiche alla diversità delle forme ulteriori, perché rendono scopertamente manifesto quella che, a detta della Nostra, è a tutti gli effetti uno strappo che in origine diede luogo a due discipline diverse dell’animo umano, la poesia da una parte e la filosofia dall’altra.

Prendendo atto dell’avvenuta separazione, accostiamoci al limitare dei luoghi zambraniani e cerchiamo, per quanto possibile, di rischiarare la perduta unità dell’origine.

Unità, perduta

Per Zambrano, nel momento aurorale della sua sessa comparsa, all’uomo non manca la realtà, uno spazio fisico entro il quale dimorare, ma «la visione» (Zambrano, L’uomo e il divino, p. 25). La sua prima necessità, il suo bisogno fondamentale «è vedere» (Zambrano, L’uomo e il divino, p. 25); per cogliere il senso di quella realtà irregolare che gli si presenta, l’uomo ha il bisogno immediato di identificare il senso «di ciò che lo perseguita» (Zambrano, L’uomo e il divino, p. 25). Questa ricerca del senso dà corpo al domandare «alla divinità» (Zambrano, L’uomo e il divino, p. 31), che altri non è se non un’«angosciosa domanda sulla stessa vita mana»(Zambrano, L’uomo e il divino, p. 31). La sapienza antica muove su questo doppio livello, ricercare il senso della realtà esterna ma anche, e nel contempo, ricercare, in maniera quasi angosciosa, oltre che del tutto disperata, il senso del proprio esistere; tanto l’una quanto l’altro legati assieme nella stessa dimensione ontica dell’esistere. Si esiste. Ma come si esiste? È proprio da qui che si dipanano i mille offuscati ed inquieti significati della stessa esistenza.

Ma questo senso si configura come del tutto eterogeneo alla sua stessa comprensione, appare buio rispetto alla visione che, proprio in quanto tale, prefigura un processo compiuto di comprensione, si vede solo dopo aver illuminato, ossia compreso quel che si vede. Sicché, e a ragione, può ben dirsi che l’uomo non abbia fatto altro, dall’origine sino ad ora, che cercare di gettar luce sull’indistinto, sul confuso, sull’oscuro, sul non–compreso, al fine di comprenderlo, di illuminarlo, di vederlo. Ma, avverte Zambrano, la «luce dichiara, più che se stessa, le cose che bagna» (Zambrano, L’uomo e il divino, p. 39).

Attraverso lo sguardo, allora, l’uomo vede, gli uomini hanno fatto luce intorno a sé, gli uomini hanno dato luce e contorni alle cose intorno, hanno compreso le cose, hanno interpretato la realtà che li circonda e che loro stessi dimorano. Ma nel far questo, però, gli umani, davvero troppo umani, hanno anche generato la separazione, tanto ancestrale quanto attuale, coeterna con lo stesso strappo qui in questione, tra sacro e divino, entrambi oggi equivocati, ma ben tratteggiati e distinti nei tempi passati. Infatti, entrambi «stanno al di fuori del principio di contraddizione» (Zambrano, L’uomo e il divino, pp. 42 – 3), si situano al di là del vero e del falso, si dislocano oltre il totemico e terribile limes della ragione: il sacro rappresenta un’unità che «non contiene alcuna unità» (Zambrano, L’uomo e il divino, p. 43), il divino «rappresenta un’unità che lo oltrepassa» (Zambrano, L’uomo e il divino, p. 43). Gli dei greci esprimono appieno una prima modalità di oltrepassamento senza però giungere ancora all’essere, essendo essi stessi esclusi dalla dimensione finita dell’esistere. La seconda modalità, invece, è data dalla coscienza umana la quale, proprio attraverso figure altamente significative, come Antigone o Socrate, oltrepassa mediante la voce. La voce, il logòs, il verbum, segna la differenza, smarca le due modalità, scava il solco tra le due discipline ora divise. Il ricorso ad un medium, infatti, non fa altro che rivelare la qualità che rende meritevoli gli antichi greci, vale a dire la «diafanità» (Zambrano, L’uomo e il divino, p. 49), «il predominio della forma» (Zambrano, L’uomo e il divino, p. 49), ovvero quella «trasparenza che vince il mistero» (Zambrano, L’uomo e il divino, p. 49). Il segreto della vita umana è così disvelato nel rapporto biunivoco tra un qualcosa che muta e che passa e un qualcosa che invece resta e dura nel tempo. Lo svelamento della differenza inerente alla durata e al trascorrere illumina il solco tra il vedere le cose e il comprenderle. Gli uomini possono nascere e morire, ma «vita e morte sono momenti di un eterno processo di risurrezione» (Zambrano, L’uomo e il divino, p. 51). Il dominio della forma, che rivela in trasparenza il nascosto dell’essere, il suo mistero, il suo senso, si esprime nella modalità particolare della visione, ovvero dell’«immagine» (Zambrano, L’uomo e il divino, p. 53). Con la domanda filosofica, pertanto, gli uomini hanno assunto il loro «posto nel mondo» (Zambrano, L’uomo e il divino, p. 55). Guardando l’essere, e comprendendolo, gli uomini hanno eretto la comprensione in luogo della contemplazione, hanno scisso poesia e filosofia intorno allo stesso fuoco vivo.

Attorno al rapporto tra gli uomini e le divinità la Nostra fa risalire una parte della scissione iniziale tra la poesia e la filosofia. La filosofia «affonda le radici nell’assenza di essere nelle immagini degli dei» (Zambrano, L’uomo e il divino, p. 57) mentre la poesia «verrà a supplire quella funzione del Dio sconosciuto, quell’azione divina oltre l’essere» (Zambrano, L’uomo e il divino, p. 57). In modo particolarmente curioso, potremmo osservare, la «filosofia andrà alla ricerca dell’essere che nessuno le ha mai nascosto» (Zambrano, L’uomo e il divino, p. 57). Cosa cerca la filosofia? A chi rispondono le domande filosofiche? Questi interrogativi non scandagliano l’imponderabile, ma rendono conto di un atteggiamento, di una missione, di un senso …

La ragione di ciò non deve certo stupire, si tratta di un esito immanente alla maniera stessa di separarsi dal pensiero poetante. Nessuno ha nascosto nulla, ma filosofia e poesia si sono separate a seguito «di una divisione, di una rottura che, per quanto violenta, non ha distrutto l’immagine della stessa unità che c’era già» (Zambrano, L’uomo e il divino, p. 58). Il nascondimento è posteriore alla separazione, è un effetto involontario ed involuto del divorzio tra le due. Cercare un qualcosa che è sotto gli occhi significa essere già tutto dentro ad una modalità di interpellare le cose ben diversa da quella di interpellare poeticamente. Siamo già dentro alla parcellizzazione delle cose, di ogni cosa, di uno sguardo gettato sopra a singole parti di mille e più cose, in luogo dell’unità di tutto, di ciascuna cosa. Ma l’unità è superata, è smarrita, è perduta, c’era un tempo, ora non più …

La scissione originaria, lo strappo originario, se da un lato genera rammarico per quanto è andato perduto, dall’altro lato però lascia intatta la speranza di recuperare un giorno il perduto. Nei miti greci, ultima rimane la speranza, anche quando tutto pare perduto.

Nate al cospetto del sacro, tanto la poesia quanto la filosofia hanno rivendicato un loro ruolo nel fronteggiare il sacro stesso, l’una prima, l’altra dopo. La vera, unica, irriducibile, differenza sta, pertanto, in questo: che intanto la poesia inizia «sempre da una risposta ad una domanda non formulata» (Zambrano, L’uomo e il divino, p. 60) in quanto la filosofia «comincia nella maniera più antipoetica da una domanda» (Zambrano, L’uomo e il divino, p. 60). La filosofia cerca problemi, la poesia armonia, la prima settorializza la realtà in parti e sottoparti, la seconda cerca di conservare l’unità originaria del tutto; la filosofia frammenta l’esperienza in momenti e parti distinti mentre la poesia cerca di preservare l’integrità dell’esperienza medesima. In altri termini, come la filosofia vede la realtà nei suoi singoli e distinti aspetti, la poesia sente la realtà nel suo respiro completo. In altri termini, la filosofia frantuma in molteplici parti il Tutto mentre la poesia, all’esatto contrario, ne conserva l’integrità. Per dirla con le parole della Nostra, «Poesia e filosofia saranno fin dall’inizio due specie di cammino che in certi istanti privilegiati si fonderanno in uno solo» (Zambrano, L’uomo e il divino, p. 63). Se unica è l’origine, distinti sono i rispettivi percorsi evolutivi. Mentre la filosofia cerca di “catturare” nella chiarezza della visione, tanto percettiva quanto intellettiva, la realtà, la poesia cerca di esprimere per allusioni, immagini e metafore il significato dell’esperienza stessa. Ma, avverte, Zambrano, «quello che si evidenzia in Grecia è la vittoria della filosofia sulla poesia» (Zambrano, L’uomo e il divino, p. 64). E ciò avvenne in modo curioso. Infatti, «se la filosofia è quella che domanda, la filosofia è quella che trova. Filosofico è il domandare e poetica è la scoperta. Non è forse poetica, sempre, la scoperta?» (Zambrano, L’uomo e il divino, p. 65).

In un curioso quanto molto comune iter, la filosofia introna se stessa. Ma unico può essere il comando. Pertanto, la filosofia regina scaccia qualsiasi rivale o pretendente al medesimo trono. Quel confuso e non meglio precisato odio che in certi passaggi filosofici è possibile scorgere è quanto ci resta di una faida storica che oppose la filosofia alla poesia, il domandare al contemplare, l’analisi all’armonia, il trionfo delle parti al respiro del tutto. Eppure di questa guerra, dolorosa e fratricida, non ci è rimasto nulla, nessuna testimonianza piana, nessun resoconto, nessuna testimonianza, solo poche tracce, solo un lieve e frammentario rumore di sottofondo. Ma niente può garantirci che sia stata incruenta.

Dalla comune tensione della sensibilità umana, nascono sorelle la prima e la seconda, ma, alla fine, la seconda cede il passo alla prima, la vera ed unica vincitrice della cultura occidentale. E ciò è accaduto per una particolare modalità del sentire poetico, scoprire, pur assecondando il desiderio di conoscenza della prima. Sorelle nel contemplare la realtà, nemiche divengono la filosofia e la poesia nel comprendere quest’ultima: mentre la prima ricerca la struttura dell’essere, la seconda cerca l’essere in quanto tale. La filosofia assegna un primato alla visione, e alla correlativa oggettualizzazione, dell’essere mentre la poesia risponde ad una domanda mai posta intorno all’essere stesso. Come afferma Zambrano, la «filosofia è sguardo creatore dell’orizzonte; sguardo in un orizzonte» (Zambrano, L’uomo e il divino, p. 245). Diciamo, allora, in negativo, cosa non è la filosofia: sguardo non dell’orizzonte; opzione ermeneutica non della realtà; una visione non del tutto. Solo così, infatti, appare chiaro come si organizzi lo sguardo filosofico, quale sia la natura della comprensione filosofica, quale sia l’orizzonte di senso della filosofia in quanto tale. Non una visione onnicomprensiva che abbracci ed accolga l’intera realtà, ma sempre uno sguardo gettato sopra un orizzonte del tutto particolare. Nel cogliere la realtà, in altri termini, la filosofia costruisce ex novo la realtà stessa. È come se, interpretandola, la costituisse nella sua stessa originalità, nella sua consistenza verginale, come se la facesse nascere a nuova vita. Ovviamente, nel far questo, la filosofia attiva originali ed inedite linee di sviluppo, completamente artificiali e per nulla naturali. Ma in questo consiste il suo specifico. Infatti, la filosofia appare essere una passione, «di vedere, che crede di possedere un orizzonte perché lo ha edificato, ma non lo conosce, perché chi si inebria non sa mai quello che fa» (Zambrano, L’uomo e il divino, p. 245). Al contrario, la poesia è amore integrale nei confronti «della metamorfosi che muta l’alienazione in identità» (Zambrano, L’uomo e il divino, p. 246), ma che nella filosofia diviene amore per quel che rimane immoto nella trasformazione della realtà, la struttura al di sotto della realtà, la sostanza immutabile sotto la forma cangiante dei fenomeni reali. Ed è qui che nasce «il grande dissidio tra filosofia e poesia, che fino a questo punto avevano camminato insieme» (Zambrano, L’uomo e il divino, p. 246). I filosofi sono così andati dietro Apollo, e la sua metafora delle luci della visione nitida, mentre i poeti hanno continuato ad implorare le muse affinché li ispirassero e mettessero a parte dei segreti della realtà. Come dice Zambrano, ciò «che le Muse concedono a quelli che assistono non è certo un metodo, nessun sentiero del pensare o del sapere che l’uomo possa percorrere da solo con il suo intelletto. Per riuscire a ottenere il loro influsso quando se ne è privi forse non c’è che l’invocazione, la supplica» (Zambrano, L’uomo e il divino, p. 319). I filosofi violentano la realtà attraverso l’intelletto, mentre i poeti penetrano la realtà con il sentimento; i primi pretendono di farlo in ragione delle proprie capacità cognitive o personali, i secondi messi a parte dalle Muse. I primi la violano, i secondi la conservano intatta. Non voglio qui aprire filoni noti della storia contemporanea del pensiero, ma questa critica alla violenza dello sguardo è già presente in Zambrano, come il pomo della discordia tra le due ex sorelle.

Alla ragione dei filosofi, la Nostra aggiunge una caratteristica ragione poetante che, lungi dai sentieri erranti di Heidegger, si configura come la visione migliore, se non l’unica possibile, rispetto alla realtà. La luce chiaroscurale del bosco, dei sentieri selvatici, ove non v’è un predominio dell’una sull’altra, ma sempre unione, di intelletto e poesia. D’altro canto, il «pensare della Zambrano abbraccia tutta la gamma dei sentimenti umani e anche la sottile eloquenza degli animali e delle realtà della terra» (Marino, Il divino nella produzione di María Zambrano, p. 12). La ragione poetica è «esultanza dell’essere» (Marino, Il divino nella produzione di María Zambrano, p. 12), tanto filosofia, ma non solo, quanto poesia, ma non solo. Una mirabile sintesi più sognata che realizzata, più auspicata che realizzatasi nella secolare disputa tra la filosofia e la poesia.

La ragione espressa dalla Nostra è «più ampia ed integrale» (Marino, Il divino nella produzione di María Zambrano, p. 48) perché opera «una sintesi tra filosofia e poesia» (Marino, Il divino nella produzione di María Zambrano, p. 48). La parola che adopera è polisemica nel senso che è «allo stesso tempo poetica e meditativa» (Marino, Il divino nella produzione di María Zambrano, p. 49), a metà «tra il simbolo e la riflessione» (Marino, Il divino nella produzione di María Zambrano, p. 49). Il filosofo deve fare i conti con il poeta e lasciare a quest’ultimo campo dal momento che «solo il poeta riesce a tirar fuori dalla parola tutta la profondità che essa racchiude, solo la parola poetica riesce ad illuminare tutto ciò di oscuro che avvolge la vita» (Marino, Il divino nella produzione di María Zambrano, p. 51). Quel che il filosofo non può fare, lo può il poeta. Sotterrare l’ascia di guerra e inaugurare una nuova stagione umana, la fattiva e proficua collaborazione tra i due, tra le due, combinando ed integrando le reciproche fragilità e capacità.

E tuttavia questo esito così poco scontato in teoria, affonda le proprie radici e trova linfa nel vissuto autobiografico della Nostra. Infatti, scrive Marino, in «María Zambrano pensare e vivere appaiono un tutt’uno, nello sforzo di raggiungere una sintesi tra ragione e cuore, tra poesia e filosofia» (Marino, Il divino nella produzione di María Zambrano, p. 83). Se la storia occidentale le ha separate, per Zambrano filosofia e poesia vanno ricongiunte, riacquistando quel surplus di esperienza di vita che, viceversa, è andato così perduto. L’unità originaria è il presupposto e l’orizzonte di senso dell’esperienza zambraniana, recuperare quell’inesprimibile, quell’indecifrabile, quell’irrazionale che l’intelletto da solo, e la filosofia con esso, non può affrontare o comprendere.

Oggi, «poesia e pensiero ci appaiono come due forme incomplete e ci vengono incontro come due metà dell’uomo: il filosofo e il poeta» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 37). Ma un tempo, originariamente, non era così. Due metà divise, due metà smarrite, due metà incompiute. Così, nella filosofia «non si trova l’uomo intero» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 37), mentre nella poesia «non si trova la totalità dell’umano» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 37). La poesia è «incontro, dono, scoperta venuta dal cielo» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 37) mentre, e diversamente, la filosofia è «ricerca, urgente domanda guidata da un metodo» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 37). L’indole è diversa, così come la rispettiva vocazione, di rapimento estatico davanti alla meraviglia miracolosa dell’universo per la poesia, di conoscenza “violenta” ed urgente dell’universo per la filosofia. La Nostra narra di questa storia ideale e di come avvenne lo strappo originario, quando accadde la violenta scissione tra le due. Scrive che «Nel momento in cui il pensiero compì la “presa del potere”, la poesia si accontentò di vivere ai margini, da cui, esacerbata e lacera, in rivolta perenne, urla le sue sconvenienti verità» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 37). Eppure, in origine, tanto la poesia quanto la filosofia nascono dallo stupore, dalla meraviglia, sono contemplazione gratuita del prodigio naturale. Come avvenne, allora, lo strappo? La filosofia fu sì «stupore di fronte all’immediatezza delle cose» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 39) ma subito seguì «uno strappo, un brusco allontanarsi per slanciarsi altrove, verso qualcosa da cercare e perseguire perché non si dà, perché non ci fa dono della sua presenza» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 39). Da questo momento divergono i passi dell’una e dell’altra. In modo particolare, la filosofia inizia un «affannoso cammino, lo sforzo metodico per catturare qualcosa» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 40) di cui non si dispone, rapiti dal bisogno al punto «da strapparci da ciò che abbiamo senza averlo cercato» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 40). Diversamente fece la poesia, altrimenti i poeti, differente l’indole poetica. Infatti, ciò «che il filosofo perseguiva, il poeta l’aveva già dentro di sé, in un certo modo; in un certo modo, sì, e quanto diverso» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 40). La filosofia, infedele, ruppe l’unità degli inizi bramosa di fagocitare, e violentemente, la realtà, a lei indisponibile. Il filosofo, detto altrimenti, «abbandonò la superficie del mondo, la generosa immediatezza della vita» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 40), affannandosi su un «assoluto possesso» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 40), che risposa «su di una iniziale rinuncia» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 40). La meraviglia, di aristotelica memoria, si è trasformata così «in un domandare perenne». Ma, in questo modo, «l’interrogare dell’intelletto» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 41) ha inaugurato «il proprio martirio e quello della vita stessa» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 41). Cercare qualcosa di indisponibile ha sentenziato lo sforzo senza posa della filosofia, ovvero il suo sacrificio, il suo supplizio, la sua fatica tanto immane quanto inutile. Un sacrificio, sull’altare della domanda perenne, della vita stessa, ovvero dell’interrogata senza fine.

Rispetto alla fedeltà mantenuta della poesia, la filosofia però «ha vinto nella conoscenza» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 41). Come mai? Com’è possibile? Perché, precisa la Nostra, «ha conquistato qualcosa di stabile» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 41), trovando ricompensa, anche se parziale, ai propri immani sforzi. Al contrario, il poeta non chiede, non interroga, a lui non interessa sapere, o avere possesso di un sapere; egli è «innamorato delle cose» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 42) e ne segue con distacco il mutamento, l’evoluzione, la storia. Ma ogni sua sfumatura egli contempla, non disdegna, conserva. Anch’egli è interessato all’unità delle cose, ma di gran lunga predilige la molteplicità, cifre irriducibili, e, pertanto, parimenti importanti, dell’unità delle cose. Diversamente, al filosofo urge il dominio conoscitivo, ovvero il possesso dell’unità delle cose. Infatti, chi «ha raggiunto l’unità possiede tutto» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 43). Ma qui diviene visibile il movente del tradimento, l’intenzionalità dietro lo strappo, la tentazione che ha vinto e violato l’unità originaria. Forse, infatti, «quale rottura non sarebbe giustificata in cambio della speranza di possedere tutto?» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 43). In nome di questa chimera, di questa magnifica illusione, di questa parvenza di unità, il filosofo ha abbandonato la fedeltà alle cose, e alla loro molteplicità, e si è gettato a capofitto, con metodo, con piglio, e con violenza anche, dietro alla ricerca dell’unità di tutte le cose, l’anello maledetto del dominio, il sibilo misterioso del possesso concesso a chi sa …

Il poeta lascia vivere le cose come sono, non le violenta in nome dell’unità, non le frantuma in nome dell’ideale; ma, e al contrario, il filosofo «vuole l’uno perché vuole tutto» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 44), non lascia nulla, non risparmia alcunché! E lo vuole perché «teme che in questo tutto non rimanga ognuna delle cose in tutte le sue sfumature» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 44). Il poeta, invece, «vuole una, ciascuna cosa, senza restrizioni» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 44). Il poeta desidera la completezza di tutte le cose, così come sono, così come accadono, così come si presentano, senza rinunciare a nulla e senza ridurre la corposa realtà di ciascuna. Il poeta non conosce, dunque, esattamente come non astrae o non riduce le cose alle loro controfigure concettuali. Egli vuole «la realtà, ma la realtà poetica non è solo quella che c’è, quella che è, ma anche quella che non è; abbraccia l’essere e il non-essere in ammirevole giustizia caritativa, giacché tutto, proprio tutto, ha diritto ad essere, finanche ciò che non ha mai potuto essere» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 45).

Instauratasi detta separazione, compiuto lo strappo originario, consumata la rottura tra l’una e l’altra, si modifica anche lo specifico e correlativo logòs. Così, «il logos della poesia è di fruizione immediata» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 45); mentre, quello filosofico «è immobile, non discende ed è accessibile solo a chi può conseguirlo con le proprie forze» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 45). E la ragione di tale differenza affonda, ovviamente, le proprie radici nella diversa origine dell’una come dell’altra. Infatti, la Nostra si premura di aggiungere:

La poesia, umilmente, non si autopose, né si auto fondò, non cominciò col dire che tutti gli uomini ne avevano naturalmente bisogno […] La sua unità è così flessibile, così coesa che può piegarsi, dilatarsi e quasi sparire; discende fin nella carne e nel sangue, perfino nei sogni. Per questo l’unità alla quale aspira il poeta è così lontana da quella a cui tende il filosofo. Il filosofo vuole l’uno, assolutamente, e lo vuole al di sopra di ogni cosa (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 46)

La diversa origine genera così una curiosa e bizzarra disforia visiva in virtù della quale la poesia e la filosofia, pur tendendo entrambe all’unità, pur desiderose entrambe di penetrare il mistero della natura, pur volendo parimenti attingere alla sorgente unica del Tutto, vedono, pensano, e riflettono, quest’ultimo in modo molto diverso, tanto diverso quanto, e rispettivamente, l’una è poesia e l’altra è filosofia. Il tutto del poeta «non è il tutto come orizzonte, né come principio» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 46). Ma la diversa maniera è frutto del loro darsi «le spalle»(Zambrano, Filosofia e poesia, p. 46) reciprocamente. La filosofia, pertanto, «possedeva la verità» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 46) mentre la poesia del tutto vedrà il principio solo alla fine del percorso, se e solo quando lo avrà portato a compimento.

La colpa, comunque, della separazione, del ratto, del tradimento, dello strappo è tutta, ed intera, della filosofia, quando, con orgoglio e tracotanza, «si liberò della propria matrice» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 47), ovvero «quando si risolse ad essere ragione che catturava l’essere, essere che espresso nel logos ci indicava la verità» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 47). E quando il filosofo si avvide della mancata polemica da parte della poesia, che sfuggiva al suo sguardo catturante, «la confinò» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 47). D’altro canto, non è forse vero che uno dei meccanismi più antichi nell’uomo è proprio l’instaurazione di un confine in forza del quale polarizzare gli altri secondo le categorie dicotomiche amico nemico? Così fece la filosofia, espellendo dal suo seno tutto ciò e tutti coloro che la pensassero, agissero, vivessero diversamente da sé. E questo prima ancora di porsi il problema della loro reale avversità. Il confino, l’esilio, il dislocamento sono nomi diversi attribuiti al medesimo dispositivo, ovvero alla valutazione negativa degli altri, dell’altro, dell’alterità.

Ed è là che ancora oggi la scorgiamo, e «la constatazione della sua illimitata fecondità ci intristisce e ci angoscia, poiché la poesia è nata per essere il sale della terra» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 47). Anche perché il «filosofo concepisce la vita come una continua attenzione, un perpetuo vigilare e stare all’erta» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 47). Il filosofo non può rilassarsi, mai, la sua ragione non glielo permette, mai una distrazione, mai un divertimento, mai un rilassamento, mai una gioia, si potrebbe pure aggiungere. Sempre vigile, il «filosofo vive nella propria coscienza e la coscienza non è che attenzione e preoccupazione» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 47). All’esatto contrario, il poeta «oblia ciò che il filosofo si affanna a ricordare e ha sempre presente, in ogni istante, ciò che il filosofo ha allontanato per sempre da sé» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 57).

Così come la filosofia “nobilita” – per così dire – i propri oggetti di pensiero, rarefacendo in senso ideale la materialità e le impurità delle cose stesse, la poesia, invece, pretende di conservare tutto delle cose che osserva. Nelle parole della Nostra, la «poesia non può rinunciare al dolore e al sentimento; essa serba così memoria delle nostre pene»(Zambrano, Filosofia e poesia, p. 59). La filosofia fagocita ciò che pensa, trasfigurando, nel contempo, la natura di ciò che passa attraverso il luogo del pensiero, mentre la poesia rispetta l’alterità delle cose stesse, cercando, con fatica e sofferenza, ma anche sensibilità, di mantenere intatte le nature pensate. Se il filosofo desidera comandare, possedere, intendere, illuminare ciascuna cosa con il suo sguardo obiettivante, il poeta sopporta «il vivere istante dopo istante»(Zambrano, Filosofia e poesia, p. 64). La filosofia si aggrappa «all’unità scoperta dal pensiero» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 64) laddove la poesia «si aggrappa alla dispersione» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 64). La filosofia scorge l’unità, tanto intima quanto segreta, delle cose, mentre, e all’esatto opposto, la poesia vede solo uno spettacolo multiforme. Ne consegue che la «poesia era un’eresia rispetto all’idea di verità dei greci» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 67). Infatti, il filosofo si bea nell’unità rarefatta del pensiero, contrariamente a quanto fa il poeta il quale vive la contraddizione, «è pura contraddizione» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 79), «l’amore nella poesia anela all’unità e vi si rivolta contro, vive nella dispersione e si affligge» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 79). D’altro canto, il poeta «sente l’angoscia della carne, la sua cenere» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 79). Il filosofo sa cosa cerca, tanto che si autodefinisce filo-sofo. Invece, il «poeta poiché non cerca ma trova, non sa come chiamarsi» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 81). Come il filosofo «cerca sentendosi incompleto e bisognoso di completamento» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 81), il «poeta nuota nell’abbondanza e nell’eccesso» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 81).

Persa l’unità originaria, le due sorelle hanno seguito le loro strade. Così, la «poesia vuole riconquistare il sogno originario» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 109) poiché «è reintegrazione, riconciliazione, abbraccio che serra in unità l’essere umano con il sogno» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 109). Invece, la filosofia, altro nome per ‘metafisica’, «è un allontanamento costante da questo sogno originario» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 109). Il filosofo è convinto che «solo immergendosi nell’abisso della libertà, solo rimanendo fino alla fine se stesso, sarà salvato, sarà» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 109). Invece, il «poeta crede e spera di reintegrarsi, di restaurare l’unità sacra dell’origine, cancellando la libertà e la colpa per non averla utilizzata» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 109). Ingannandosi, la filosofia «è trovare se stessi, arrivare finalmente a possedersi» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 113). Ma il poeta «ha da sempre saputo ciò che il filosofo ha ignorato, cioè che non è possibile possedersi da sé» (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 119).

Riunire le due sorelle, però, appare al momento un sogno utopico, nobile sì ma difficilmente realizzabile. Eppure, non sono comunque i sogni che nobilitano e rendono lieta la vita? Allora, perché non pensarlo un progetto possibile in futuro?

Conclusioni

Per Marino, in Zambrano è attiva quella particolare prospettiva in forza della quale «i filosofi, pur essendo amanti di quel sapere che conduce alla verità, hanno sostituito all’amore la volontà di un sistema, la volontà di dominio» (Marino, Il divino, p. 117). Così, i filosofi sono andati dietro alle cose ma hanno finito con l’intrappolarle «in un sistema razionale già stabilito» (Marino, Il divino, p. 118), impedendo loro di rivelarsi per quello che sono. Instaurando il domino di sé, del Soggetto, «le cose del mondo sono state ridotte dall’uomo a meri strumenti che mentre liberano l’uomo dal lavoro lo lasciano al tempo stesso con un cuore oppresso» (Marino, Il divino, p. 119).

L’originalità della proposta della Nostra consiste allora proprio in questo, ossia nel «riaprire quel varco, quella parte oscura ed opaca dell’uomo che chiama in causa la stessa razionalità, e fa emergere un sapere che tenga conto sia delle luci che delle ombre delle cose» (Marino, Il divino, p. 119). Non più un sapere oggettivo, parziale, circoscritto, limitato, ma «un sapere integrale che sappia dialogare con il sacro, attraverso una ragione che dia significato a quel “sentire originario” che metta in contatto l’uomo con le cose» (Marino, Il divino, p. 119).

Zambrano rivendica un pari diritto di cittadinanza per la ragione poetica, ovvero per quella particolare disposizione in virtù della quale ha senso legare assieme visione e comprensione, vista e sensazione, esternalità ed interiorità. Come scrive Cacciatore, non possiamo comprendere l’originalità della Nostra «se non si scorge ciò che si pone a monte di essa e che costituisce […] l’elemento di maggiore sua originalità speculativa: l’idea di ragione poetica e il complesso reticolo di questioni connesse al rapporto tra filosofia e poesia» (Cacciatore, María Zambrano, p. 30). Non tener conto di questa opposizione irriducibile, di questa coppia dicotomica, di questa esclusione reciproca, di questa originaria separazione, non è punto possibile comprendere la natura del tutto particolare dello stile e del pensiero di María Zambrano. E d’altra parte, la filosofia è un «luogo privilegiato della certezza» (Cacciatore, María Zambrano, p. 30), rispetto alla realtà, mentre la poesia è una «fenomenologia privilegiata dell’insicurezza e del relativo» (Cacciatore, María Zambrano, p. 30) rispetto alla stessa realtà: l’una domina, fagocitando sotto l’evidenza della visione l’intera realtà, l’altra rappresenta in maniera incerta l’apparire della realtà. In altri termini, la filosofia trasfigura la realtà in forme speculative del tutto eterogenee alla concretezza iniziale ed originaria delle cose stesse mentre la poesia «cerca di restare legata alla concretezza delle cose, al segno che esse lasciano nel corpo, alle tracce che esse spargono sull’accidentato percorso del darsi alla luce di ogni manifestazione dell’essere, di ogni dono dell’essere» (Cacciatore, María Zambrano, p. 31). All’abbaglio della visione teoretica, Zambrano accosta il chiaroscuro del bosco, ovvero una ragione poetante «non appesantita dall’orgoglio del possesso della verità assoluta» (Cacciatore, María Zambrano, p. 33) e comunque ben conscia del pericoloso percorso intrapreso, «ripensare radicalmente i principi ispiratori del razionalismo occidentale» (Cacciatore, María Zambrano, p. 33), e ricostruire, infine, il “sapere dell’anima”.

Questo è quel che mi colpisce sempre delle filosofe, partire da un riconoscimento originario, da un sentire iniziale e fondamentale, l’«inaugurale e sempre rinascente percezione della nostra creaturale, insormontabile fragilità e incompiutezza» (Ferrucci, María Zambrano, p. 161). E questo insegna Zambrano alla filosofia, ovvero mostrare come «il compito primario del pensiero non consiste […] nell’erigere sopra e contro questa nostra insuperabile creaturalità un muro di impassibili a volte altezzose astrazioni, ma nel rivelarne le manifestazioni e i linguaggi con un massimo di attenzione, di sensibilità, di aderenza, direi, alle sue pieghe e alle sue movenze più nascoste» (Ferrucci, María Zambrano , p. 162).

Se poesia e filosofia parlano in modo diverso, in maniera tanto differente, con lingue diverse, qual è la parola dell’una e dell’altra?

Concludiamo con la lingua della Nostra:

La parola della poesia è irrazionale, poiché disfa tale violenza, tale ingiustizia violenta dell’esistente. Non accetta la scissione che l’essere significa dentro e sopra l’inesauribile e oscura ricchezza della possibilità. Vuole fissare l’inesprimibile volendo dar forma a ciò che non l’ha conseguita: al fantasma, all’ombra, alla fantasticheria, al delirio stesso. Parola irrazionale, che non neppure combattuto la chiara, definita e definitrice parola della ragione. Di quale delle due sarà la vittoria? (Zambrano, Filosofia e poesia, p. 125)

A colui che parla, dunque, la responsabilità di far vincere l’una o l’altra …

Oppure, di riconciliare le due sorelle divise da un’antica contesa.

Bibliografia

G. Cacciatore, María Zambrano: la storia come “delirio”e “destino”, in L. Silvestri, Il pensiero di María Zambrano, Forum, Udine, 2005, pp. 29 – 62.

C. Ferrucci, María Zambrano: un esistenzialismo estetico, in L. Silvestri, Il pensiero di María Zambrano, Forum, Udine, 2005, pp. 161 – 174.

M. Marino, Il divino nella produzione di María Zambrano, Edizioni Saletta dell’Uva, Caserta, 2015.

M. Zambrano, Delirio di Antigone, in M. Zambrano, All’ombra del dio sconosciuto. Antigone, Eloisa, Diotima, Pratiche, Milano, 1997, pp. 79 – 91.

M. Zambrano, Filosofia e poesia, Pendragon, Bologna, 2010.

M. Zambrano, L’uomo e il divino, Edizioni Lavoro, Roma, 2009.

*Alessandro Pizzo è Dottore di Ricerca in Filosofia c/o l’Università degli Studi di Palermo. Si occupa della razionalità delle norme e del discorso normativo in generale. Attualmente è occupato nella scuola secondaria di secondo grado. Autore di svariate monografie e di articoli, è anche redattore di un blog personale: http://alessandropizzo.blogspot.it.

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