Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Da Aristotele a Ricoeur, storia di una giustizia dal volto umano

Lascia un commento

>di Piergiacomo Severini

 

severini2

 

La società contemporanea vive nella diffidenza e nel sospetto che la sua storia, progressivamente votatasi al dominio individuale, ha lasciato germogliare. Viviamo in una realtà che ci richiama continuamente ai nostri doveri, che esercita diritti, sempre pronta a giudicare quanto viene fatto, analizzando nel dettaglio ogni passaggio del nostro operato. In tutto questo ragionamento, giudicare è la parola chiave; il verbo giudicare è esatto, definitivo, presuppone una certa distanza dall’oggetto preso in esame. Giudicare è effettivamente il verbo che descrive al meglio la condotta dell’uomo tipo di oggi: se a dominare è il timore, la paura che l’altro possa prevaricarmi, usarmi, oggettivarmi, l’unico rimedio a disposizione è il ricorso a leggi severe che tutelino i miei spazi, le mie libertà, le mie ragioni; una tutela in cui l’altro minaccioso viene a sua volta oggettivato, come minaccia senza volto né cuore. Il mondo si trasforma in un immenso tribunale, in cui ogni sentimento va rimesso in riga, ogni richiesta implicita non correttamente formalizzata viene condannata, ogni desiderio spontaneo deve fare i conti col diritto dell’altro, non con la sua comprensione. Giudicare, ancora, è il termine più azzeccato, perché alla vicinanza del riconoscimento si preferisce il distacco che appiattisce l’identità dell’altro ad un numero di diritti e doveri da rispettare. Questo perché, nel regno del sospetto, non ci si può concedere il lusso di aprirsi alla persona che si ha di fronte, è più vitale tenere alta la guardia e stare pronti ad evitare ogni attacco, per ricadere sempre in piedi.

La contingenza ci suggerisce che per noi è necessario sapere che cos’è la giustizia e cosa significa essere giusti. Ugualmente necessaria, sembra essere la declinazione della giustizia nei termini, appena delineati, di garanzia del rispetto del proprio compito. Sono giusto se conosco la legge e, di conseguenza, faccio il mio dovere, rispetto i diritti degli altri, do ad ognuno quello che merita. Questa giustizia è una lezione da manuale imparata a memoria e riposta, bella impacchettata, in qualche cassetto della mente, pronta per essere tirata fuori e consultata nei momenti del bisogno. Un prontuario del genere è sicuramente uno strumento comodo, però non tutti sono così concordi nel definire la giustizia come un insieme di norme da rispettare ed applicare. Sforzandosi di uscire dal tracciato delle stringenti logiche contemporanee, si potrebbero scoprire sentieri più tortuosi, al tempo stesso diretti verso mete più elevate.

Quando essere giusti non basta

Ancora fiduciosa nella bontà della politica e della vita pubblica, la società classica, greca prima, romana poi, ci ha lasciato tantissime riflessioni sul ruolo e lo statuto della giustizia. Uno dei contributi più studiati ed, effettivamente, più fecondi e ben assemblati è l’Etica Nicomachea di Aristotele, una raccolta delle lezioni del filosofo, risistemate in dieci libri, uno per tematica, in modo da riassumere tutti gli insegnamenti relativi al discorso morale. Il libro V parla proprio della giustizia. Come è solito fare, il pensatore greco parte dalla definizione di giustizia rifacendosi all’opinione comune: la giustizia sarebbe uno stato abituale che si oppone all’ingiustizia come illecito e come disonesto; in un certo senso questa virtù è la più elevata, in quanto si realizza soltanto in rapporto con gli altri (non posso essere giusto da solo); ci sono vari tipi di giustizia, quella che ripartisce i beni trai membri delle comunità, quella che tutela le relazioni sociali, quella che legittima il contraccambio; si può dire che il giusto corrisponde all’uguale, un rapporto a quattro termini tra due persone e due cose, al termine del quale una proporzione geometrica decide quanto delle due cose spetta alle due persone; segue la riflessione sul livello di giustizia o ingiustizia delle azioni e dei soggetti, a partire dal grado di volontarietà delle azioni compiute. Fino a qui, tutti ragionamenti che conosciamo bene, contemplati e attuati anche dalla nostra legge.

La parte interessante del contributo aristotelico arriva nelle ultime pagine del libro, quando viene chiamata in causa l’equità. Non si dà una definizione precisa di questo nuovo elemento, piuttosto si ragiona sul rapporto che intercorre tra giustizia ed equità: «In effetti l’equità, pur essendo migliore rispetto ad un certo tipo di giusto, è giusta, e non è “migliore” del giusto nel senso che appartiene ad un altro genere rispetto ad esso. Quindi ciò che è giusto e ciò che è equo sono la stessa cosa e, pur costituendo entrambe realtà eccellenti, l’equità è superiore»1. Cos’è che rende l’equità un discorso legato alla giustizia e, per alcuni aspetti, qualcosa di superiore alla giustizia stessa? L’accento va posto sulla seconda parte di questa domanda: se c’è qualcosa che supera la giustizia, significa che c’è qualcosa di superiore al rispettare le leggi; non basta fare il nostro dovere, dobbiamo e possiamo fare di più.

Non corriamo troppo. Cos’è, si chiedeva, che rende l’equità superiore alla giustizia? Aristotele, dopo aver posto l’interrogativo, prova subito a rispondere: «Ogni legge è universale, ma su certe questioni non è possibile pronunciarsi correttamente in forma universale. […] Quindi, quando la legge si pronuncia in generale, e successivamente accade qualcosa che va contro l’universale, è legittimo colmare la lacuna, qualora il legislatore abbia tralasciato il caso e abbia sbagliato, parlando in generale. […] Perciò l’equità è giusta, ed è migliore di un certo tipo di giusto, anche se non del giusto in assoluto, ma del giusto che è difettoso per il fatto di essere stato formulato in generale. E la natura dell’equità è proprio quella di correggere la legge laddove essa, a causa della sua formulazione universale, è difettosa»2. La giustizia è qualcosa di forte, perché mette nero su bianco delle norme valide e riconosciute da tutti; al tempo stesso, tuttavia, è debole, in quanto il suo discorso generale a volte può essere insufficiente a giudicare il caso particolare, addirittura a volte può portare alla valutazione sbagliata in una determinata situazione; e che dire quando, per una serie di vicissitudini, due leggi universali entrano in conflitto tra loro? Per parlare chiaro, che fare della legge, quando le due madri si presentano al re Salomone rivendicando lo stesso figlio? Quale legge rispettare, quando Antigone onora la famiglia seppellendo il fratello Polinice e il re Creonte lo disseppellisce in quanto nemico di stato? «Non tutto può avvenire secondo la legge, cioè […] in certi casi non è possibile stabilire una legge, e così c’è bisogno di un decreto particolare. Infatti la norma di ciò che è indefinito è essa stessa indefinita»3.

Aristotele ci vuole lanciare un chiaro messaggio: la legge è uno zoccolo duro imprescindibile nella risoluzione delle contese, ma proprio la rigidità derivante dalla sua universalità rischia di farla spezzare in alcune situazioni particolari; in questi casi, è bene correggere la legge con la flessibilità dell’equità, che guarda sia alla legge sia al caso specifico che ha di fronte, quella «giustizia dal volto umano» che Fermani identifica nella figura di Emone4, figlio di Creonte e futuro sposo di Antigone, che, fino a poco prima di suicidarsi, ha provato a mediare tra l’ostilità dei due contendenti. Sapere cosa è giusto in generale non basta, bisogna riuscire a dividere o comportarsi equamente in ogni situazione, a partire dalla legge: «Chi sceglie e mette in pratica tali cose, e nell’applicazione della legge non è inflessibile nel senso peggiore del termine, ma è duttile, pur essendo sostenuto dalla legge, è un individuo equo»5.

Giustizia per-dono

Il modello proposto da Aristotele mette alla prova generazioni di pensatori, fino ad interrogare anche filosofi recenti. Una delle figure più importanti per la riflessione contemporanea sulla giustizia è Ricoeur, che, sin da ragazzo, non si accontenta delle comuni definizioni sul tema e vuole andare più a fondo, per capire come il discorso sul giusto possa veramente rispettare la dignità del soggetto che è chiamato a giudicare e riconoscerlo. Proprio il riconoscimento rappresenta un altro interesse ricorrente del filosofo francese, catturato soprattutto dall’applicazione pratica dei principi di giustizia e da tutte quelle situazioni in cui le aporie – occasioni in cui sembra impossibile arrivare ad una conclusione condivisa o condivisibile – pratiche fanno emergere l’insufficienza della norma universale. In questo senso, Sé come un altro, una delle ultime fatiche di Ricoeur, si può considerare un suo testamento metodologico. Non è purtroppo possibile seguire tutti i passaggi che permettono al pensatore di legare l’identità personale al tu e alla comunità in cui vive, ci si deve limitare a riassumere la condotta che Ricoeur lascia in eredità.

L’approccio alla vita pratica può puntare l’accento o sul discorso sul buono, o sul discorso dell’obbligatorio: nel decidere come comportarmi, posso lasciarmi stimolare da ciò che reputo valido come valore, o da ciò che costituisce il mio dovere. Quando scelgo tutte quelle virtù che reputo meritevoli, sto facendo un discorso etico, che si confronta con le pratiche quotidiane e con le esperienze particolari che mi capita di vivere; quando invece mi soffermo su quei principi che sarebbero da rispettare universalmente per la loro cogenza, sto ragionando ad un livello più ideale, il livello morale. Sé come un altro e, in aggiunta, Percorsi del riconoscimento, cercano di mostrare l’insufficienza del solo riferimento all’etica o alla morale; nel cuore di Sé come un altro irrompe il tragico dell’azione, un fatto sconvolgente che manda all’aria tutti i piani di una vita. Ricoeur si serve della già citata tragedia di Antigone per mostrare come il sentimento puro (l’etica) e il puro senso del dovere (la morale) sono insufficienti a far fronte alle tragicità che mettono alla prova le nostre convinzioni nella vita pratica: non è così raro che due norme della stessa importanza entrino in conflitto, generando il tilt della coscienza morale e rendendo imprescindibile il contributo dell’esperienza concreta. Da questa condizione umana di perenne minaccia nasce il bisogno di mediare tra universale e particolare, etica e morale, per dare un saldo appoggio a quello che sentiamo – l’aiuto della morale all’etica – e rendere sensibili le leggi che applichiamo – il contributo dell’etica alla morale.

Come inserire questa breve incursione nel discorso sulla giustizia? È proprio in Sé come un altro che Ricoeur recupera un ragionamento ormai familiare, l’equità aristotelica: «Non sarebbe, forse, il caso di richiamare la distinzione che Aristotele fa, al termine del suo studio sulla virtù di giustizia, fra giustizia ed equità? […] L’equità rimedia alla giustizia “laddove il legislatore ha trascurato qualcosa e non ha colto nel segno, per avere parlato in generale”. Correggendo l’omissione, colui che decide pubblicamente si fa interprete di “ciò che il legislatore stesso direbbe se fosse presente, e che avrebbe incluso nella legge se avesse potuto conoscere il caso in questione”. […] L’equità, concluderemo, è un altro nome del senso della giustizia dopo che questo ha attraversato le prove e i conflitti suscitati dall’applicazione della regola di giustizia»6. Ricoeur ci fa capire qualcosa in più sull’equità: essa è uno sguardo più critico che, dopo aver vissuto i conflitti che possono nascere dalla banale applicazione della legge al caso pratico, capisce l’importanza di applicare le norme contestualizzando la situazione e tenendo presente chi ha davanti. Seguendo la dialettica tra etica e morale, l’equità sarebbe la sensibilizzazione dell’universale attraverso il particolare.

Ricoeur non si accontenta delle indicazioni di metodo, vuole spiegare ancora meglio in che modo il particolare può interagire con l’universale. L’occasione per ragionare in termini concreti è offerta da Il giusto 1 e Il giusto 2, in cui vengono presi in considerazione il tema della cura a livello giuridico e l’applicazione di quanto emerso dal discorso teorico. L’interesse primario di questi due testi è far capire che la giustizia si trova nella posizione di decidere di soggetti moralizzati, dunque imputabili, su cui i verdetti hanno precisi effetti: Il volontario e l’involontario e Percorsi del riconoscimento sviluppano la fenomenologia dell’homme capable, ovvero dimostrano che il soggetto morale vive una vita fortemente influenzata dalla propria coscienza, dagli effetti del mondo esterno su di essa e dalla percezione che l’individuo ha di sé per mezzo di ciò che riesce o non riesce a fare. Il giudice si ritrova ad avere per le mani persone estremamente fragili e, in questa situazione, il passo dalla giustizia alla vendetta è veramente breve, anche quando a dettarlo è la semplice ignoranza di qualche dettaglio.

All’inizio di Il giusto 1 si afferma che il giusto è il buono, il legale, l’equo. Per quanto riguarda il legale la mera applicazione della legge può bastare, ma per contemplare il buono e l’equo è necessario fare un passo in più, la rigida attuazione della norma non basta. Per Ricoeur il vero compito della giustizia è la ricostruzione della relazione tra la vittima e il carnefice. La giustizia viene sempre per seconda, dopo un offeso e un offensore, ciascuno con la sua storia, e ad essa spetta il compito di mediare attraverso il dialogo, rieducare le parti all’essere responsabili dell’altro. In una parola, riabilitare. Riabilitare la vittima, che ha sicuramente perso qualcosa. Ma riabilitare anche il carnefice che, pensando di poter guadagnare qualcosa mediante la perpetrazione di un torto, si riscopre invece ancor più povero di prima. Solo il rapporto, il confronto, la vicinanza tra le due parti lese può restituire la stima che serve ad andare avanti.

In Giustizia e amore la vera matrice della giustizia diventa la generosità. Nella deliberazione pubblica la scelta deve tenere conto di due eccedenze, la persona e la comunità: questo problema anima l’intero volume e porta a prendere in considerazione una nuova categoria, l’amore, appunto. Amore e giustizia appaiono antitetiche, incommensurabili, perché la logica della sovrabbondanza implicata dall’evangelico comandamento d’amore «amate i vostri nemici» sembra stonare con la giusta regola d’oro «fate agli altri ciò che vorreste fosse fatto a voi». Ricordando però le indicazioni metodologiche di Sé come un altro, la mediazione reciproca tra particolare e universale potrebbe essere una buona soluzione: la giustizia universale senza l’amore particolare si abbasserebbe alla forma utilitarista «do affinché tu dia», mentre un amore senza giusti freni porterebbe a offrire sempre se stessi senza aspettarsi nulla in cambio. Invece, nella generosità di una giustizia amorevole l’amore offrirebbe il giusto slancio verso il prossimo, mentre il giusto si occuperebbe di istituzionalizzare gli eccessi dell’economia del dono.

Un ultimo riferimento permette di completare questo breve cenno alla ricchezza della giustizia ricoeuriana. Ricordare, dimenticare, perdonare riflette sull’apparente assenza di reciprocità nella dimensione del perdono: un dono del genere sembrerebbe schiacciare il beneficiario sotto un peso che lo condanna a rimanere insolvente; una simile logica va superata, in quanto riflette solamente lo scambio economico/commerciale. All’uomo è promesso di più. È promessa un’altra specie di scambio, la speranza che un giorno il nemico possa diventare amico. Il comandamento di amare i propri nemici spezza la regola di reciprocità, ma lascia anche spazio alla riconoscenza, alla possibilità che l’esempio costruttivo ponga fine ad una storia di ostilità per inaugurare qualcosa insieme. Certo, bisogna imparare la modestia del ricevere e la magnanimità del donare, tuttavia questo perdono difficile – difficile per chi deve perdonare e per chi deve accettare di essere perdonato – è l’unica vera scelta di vita, che non si limita a cancellare un debito sulla tabella dei conti, ma scioglie piuttosto dei nodi. La tragedia di Antigone mostra che l’invocazione dei propri diritti fino alla fine non può avere altro epilogo che la morte. Per evitare la triste conclusione è necessario che le parti in causa rinuncino insieme alla spirale di violenza che si è generata, comprendendo la bontà di quello che è già pronto per loro, passata la tempesta. Il contrasto apparentemente insuperabile può presentarsi in due forme: come in Antigone, lo scontro fra due posizioni ugualmente legittime, in cui la giusta via appare la riconciliazione, la ricerca del compromesso, l’accettazione dei disaccordi ragionevoli necessari alla con-vivenza in una società pluralista; l’insorgere di danni o torti irreparabili, in cui l’offeso deve fare il primo passo, rinunciare a una giusta ma non equa vittimizzazione che trasforma le sue ferite in requisitorie, per cercare di costruire un presente e un futuro in cui il danno subito possa non essere rimosso, ma assumere una valenza diversa.

Sarebbe indubbiamente più semplice punire i colpevoli e compiangere le vittime, avere un codice di regole pronte da applicare e limitarsi a farle rispettare. Tuttavia, riconoscere nell’altro un fratello e non un futuro carnefice apre un orizzonte completamente diverso. Tendere una mano verso il futuro criminale, dare fiducia al colpevole, accompagnare il reo nel suo cammino solitario contengono la promessa di un mondo più integro. La violenza di chi compie il torto e la vendetta dell’offeso nascono entrambe da un’esperienza di lacerazione, a cui l’uomo tenta di sopperire da sé, andando a logorare proprio quella ferita che aveva cercato di ricucire. Solo il perdono riabilita, un perdono che non dimentica – bisogna ricordare, con Amore e giustizia, che anche il giusto ha il suo peso – ma ammette che il bisogno di trovare una soluzione insieme viene prima, perché tante vite passate col dito puntato creano un mondo più giusto, ma anche più solo. La giustizia è un diritto dell’uomo, tuttavia l’equità può assicurargli molto di più.

Bibliografia

A. FERMANI, Le tre etiche, Bompiani, Milano 2008.

A. FERMANI, La virtù di Emone, in Aevum Antiquum, 2009.

P. RICOEUR, Sé come un altro, a cura di D. Iannotta, Jaca book, Milano 1990.

P. RICOEUR, Amore e giustizia, Morcelliana, Brescia 2000.

P. RICOEUR, Ricordare, dimenticare, perdonare, trad. it. I. Bertoletti, Il Mulino, Bologna 2004.

P. RICOEUR, Percorsi del riconoscimento, a cura di F. Polidori, Cortina Raffaello, Milano 2005.

P. RICOEUR, Il giusto. Vol. 1, Effatà, Cantalupa (TO) 2005.

P. RICOEUR, Il giusto. Vol. 2, Effatà, Cantalupa (TO) 2007.

Note

1A. FERMANI, Le tre etiche, Bompiani, Milano 2008, pp. 675-677.

2Ivi, p. 677.

3Ivi, p. 677.

4Cfr. A. FERMANI, La virtù di Emone, in Aevum Antiquum, 2009.

5A. FERMANI, Le tre etiche, Bompiani, Milano 2008, p. 679.

6P. RICOEUR, Sé come un altro, a cura di D. Iannotta, Jaca book, Milano 1990, pp. 368-369.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...