> di Laura Sugamele*
Abstract
Il filo conduttore di questo studio è l’oggettivazione del corpo delle donne attraverso due linee direttrici. Da un lato ho focalizzato l’argomentazione sulla costruzione storica, culturale e sociale dell’immagine femminile; dall’altro lato, ho esaminato il femminismo della cura, approccio teorico che ha contribuito a porre in luce il concetto di autodeterminazione femminile nell’ambito della pratica medica.
Keywords: patriarchy, feminism, dehumanization, ethic of care, self-determination.
Parole chiave: patriarcato, femminismo, deumanizzazione, etica della cura, autodeterminazione.
1. Concettualizzazione del principio di autonomia ed elaborazione della differenza femminile
Il concetto di patriarcato è stato adoperato come punto di discrimine per la riflessione femminista che nel suo lungo percorso storico si è impegnata ad un’attenta analisi dell’origine e delle motivazioni che hanno condotto al costituirsi di pratiche culturali e sociali oppressive, nei confronti delle donne e della loro autonomia. Riflettere sulla differenza tra i sessi ha portato il femminismo, da una parte ad una sorta di ‘abbattimento’ o decostruzione del termine patriarcato; dall’altra parte ad una ricostruzione del pensiero femminista, aspetto sul quale il femminismo è riuscito a scoprire le mancanze e i vuoti che ha caratterizzato la presenza delle donne in ambiti come la filosofia, la letteratura e la politica.
In tal modo, la questione femminile è sociale-culturale ma anche sessuale. Il nucleo basico della riflessione femminista è questo: superare la dicotomia storica tra uomo-capacità e donna-sessualità, al fine di esaminarlo, come problema globale in ogni ceto sociale e settore professionale. L’ideologia del patriarcato storicamente ha, infatti, prodotto discriminazioni dilatandosi ad ogni livello: dall’educazione e istruzione, alla carriera lavorativa, sino alla differente retribuzione economica, aspetti che sono stati ristretti per le donne ed orientati prevalentemente al maschile e che condizionano, tuttora, il rapporto donna-società.
Le riflessioni teoriche femministe ebbero inizio con la prima ondata del femminismo, distinto in corrente liberale e corrente socialista, caratterizzato per le innovative idee e proposte di emancipazione femminile. In questa fase una delle prime rivendicazioni di carattere politico fu quella di Olympe de Gourges, scrittrice e drammaturga francese. Ella che viene ricordata per la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina del 1791, in questo testo denunciava l’esclusione delle donne dalla vita politica attiva del paese. C’è da sottolineare che Olympe de Gourges non si muoveva nella direzione di un ‘accavallamento’ o di una ‘sovrapposizione’ delle donne rispetto agli uomini, ma di una «compresenza politica e sociale di uomini e donne e un’uguale dignità per i due sessi» (Mattucci, 4, 2011). La femminista francese desiderava, infatti, proporre soltanto la ristrutturazione di uno stato di cose che ella reputava ormai modificabile, in concomitanza al fervore delle idee politiche che si sviluppò con la Rivoluzione francese. La dichiarazione rappresentava un ‘controprogetto’ che avallava l’idea di una complementarietà fra i due sessi e non, dunque, né una gerarchizzazione né una disimmetria tra le due parti (p. 5).
«L’articolo x di questa dichiarazione proclama con vigore che se la donna ha il diritto di salire sul patibolo deve avere anche quello di salire sulla tribuna» (Ercolani, 101, 2016). Tuttavia, «per una tragica e miserevole ironia della storia, Olympe de Gourges viene ghigliottinata nel 1793, a motivo delle sue idee, quando il potere era saldamente nelle mani dello stesso Robespierre. Evidentemente, anche nel momento più radicale della Rivoluzione francese, in ambito politico le donne continuavano a possedere il diritto naturale di salire al patibolo ma non certo quello di godere delle medesime opportunità riservate agli individui maschi» (p. 101).
La prima ondata ebbe il suo focolaio principale di origine in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, sviluppandosi con un arco temporale alquanto vasto dal 1850 fino alla prima guerra mondiale. In questa fase le mobilitazioni femminili furono molte e notevoli ed attuate in vista della realizzazione di un cambiamento sociale e politico radicale. Questa situazione fu favorita dai cambiamenti a livello economico ed industriale in atto nell’epoca ottocentesca, le cui dinamiche sociali e di costume contribuirono a trasformare in modo eccezionale la vita delle donne e degli uomini. Per quanto concerne la prima ondata del pensiero femminista della corrente liberale, è necessario ricordare Mary Wollstonecraft. Nella sua opera Rivendicazione dei diritti della donna (1792), sosteneva che lo stato di subordinazione sociale ed economica delle donne potesse essere sradicato, solamente, iniziando con lo scardinare il modello educativo tradizionale che imponeva la rigida distinzione e l’immobilità tra i ruoli maschili e femminili. Detto ciò, nel femminismo di prima ondata, la critica sull’educazione come interiorizzazione del sistema culturale era decisa, in quanto individuato come paradigma dell’ideologia patriarcale.
Il pensiero della Wollstonecraft era per l’epoca molto audace e di forte critica ad un sistema educativo-culturale-politico che ella vedeva quale fonte dell’immobilità sociale in cui vivevano le donne; un modello di valori culturali su cui la società borghese era impiantata e quindi su una pedagogia educativa distorta ed errata. Siffatta tipologia educativa, secondo la femminista, imponeva alle donne di vivere in uno stato di ‘ottusità intellettuale’, che le conduceva a desiderare come unica realizzazione personale la ricerca di un marito, in quanto sin dalla tenera età, esse interiorizzavano il culto della bellezza del corpo, in un meccanismo inconsapevole di auto-oggettivazione di sé stesse.
Analoghe considerazioni si trovano in Harriet Taylor che, tra l’altro, era moglie di John Stuart Mill, e fu lei ad ispirare le riflessioni che il marito scrisse in La servitù delle donne del 1869.
Taylor sosteneva che il problema della subordinazione femminile derivasse proprio da un modello pedagogico errato e pervasivo, che posizionava la donna nell’unico ruolo ad essa attribuito socialmente, ovvero quello di moglie e madre. La condizione di soggezione in cui la donna era costretta era, in effetti, strettamente connessa agli obblighi sociali che le venivano imposti: il dovere di assumere un ruolo confinato all’interno della sfera privata e familiare.
Nell’opera La servitù delle donne, nello specifico, si riscontra come John Stuart Mill si sia notevolmente impegnato ad analizzare l’origine storica di tale subordinazione che dal sociale si esplicava anche in ambito politico.
Nell’opera emerge la visione di un autore particolarmente critico rispetto ad un concetto di subordinazione-soggezione culturale e educativa, che reiterava l’esclusione femminile dalle sfere pubbliche rilevanti: istruzione, accesso alle libere professioni, diritto di voto, gestione del proprio patrimonio; talché, secondo il filosofo la questione della differenza femminile si poneva non solo come rilevante discussione, bensì come prioritaria argomentazione rispetto al problema della classe operaia. In tal senso, la liberazione delle donne da una modalità così insidiosa di servitù, per Mill, poteva attuarsi solo se le capacità di pensiero e di azione delle donne avessero avuto le condizioni per esplicarsi in maniera libera; per questo motivo l’autore poneva l’accento sull’educazione e sull’istruzione alla quale le donne avrebbero potuto accedere solo se la cultura fosse cambiata e, se invece, non le avesse collocate in meccanismi già strutturati di stabilizzazione sociale.
In quest’ottica, si pone come rilevante il miglioramento delle condizioni nel matrimonio, che significava per Mill parità dei ruoli, con un evidente guadagno nella soddisfazione personale in entrambi i coniugi (Mill, Taylor, 198, 2001). La riflessione di Mill, pertanto, evidenzia due principi fondamentali: l’eguaglianza tra uomini e donne dal punto di vista giuridico e politico e l’autodeterminazione individuale.
È chiaro che proprio il principio dell’autodeterminazione diventa fondamentale in questo discorso e sposta l’asse argomentativa su un livello concettuale specifico: la donna si caratterizza come soggetto subordinato, in quanto in essa è assente l’autodeterminazione, ovvero l’essere autonoma in merito a scelte ed azioni. Allora, il nucleo centrale di questo discorso è il diritto-dovere nella realizzazione personale di scopi o desideri, al di là della differenza di genere. Come puntualizza Mill, gli esseri umani non nascono con un ruolo definito o deciso, ma nascono liberi di potersi definire nella vita e dunque concretizzarsi secondo le proprie attitudini e capacità individuali, sfruttando le occasioni che possono essere favorevoli per potere raggiungere un obiettivo prefissato o uno scopo che sembra essere desiderabile (p. 92).
L’analisi critica che il pensiero femminista incentrò sull’educazione diventò, comunque, un elemento da cui iniziare per esaminare concretamente un fattore che in apparenza sembrava irrilevante, ma che se considerato da un punto di vista più esteso, faceva intravedere la sua vasta portata nell’orientare idee, valori e azioni, mantenendo inalterate le gerarchie di genere e imponendo un continuo controllo sul corpo femminile in funzione della riproduzione e della continuità familiare. Come si evince dal discorso, l’approccio teorico liberale enucleava tre specifici elementi: eguaglianza dei diritti e indipendenza economica per le donne; trasformazione del tessuto sociale e familiare e riappropriazione della sfera procreativa femminile.
Ciò che emerge da questa analisi è il concetto emancipazionista che non sarà limitato alla fase ottocentesca, ma che verrà a contestualizzarsi in fasi successive del pensiero femminista, scardinando ulteriori sfere di connessione col femminile in merito ad argomenti come cura, autonomia e maternità. Un discorso che vedrà il successivo dipanarsi del concetto di autonomia o autodeterminazione femminile e col quale verrà ad assumere maggiore evidenza il diritto del soggetto anche nella percezione di sé, correlando l’argomento dei diritti delle donne ad una riflessione più vasta, ovvero all’attuale discorso sulla tutela dei diritti umani (Mattucci, 6-7,).
Alla luce di questa considerazione, si comprende come la prima ondata del femminismo pose notevole attenzione sulla correlazione che vi è tra educazione e sistema normativo eterosessuale; una struttura educativa-patriarcale che, alla fine, ha storicamente incluso anche le strutture economiche e sociali, spingendo per una interiorizzazione nelle donne di una direzione di vita allineata più alla funzione riproduttiva-procreativa e meno alla realizzazione professionale, approccio che si presenta attuale considerando che, ad oggi, «l’interazione fra movimento femminista e istituzioni si presenta, […] in forma dinamica e reciproca. Lo stato è visto come un complesso apparato di istituzioni politiche ed amministrative che influenzano la scelta delle strategie opportune di intervento» (Vingelli, 9, 2005).
Il movimento delle donne (in particolare dagli anni settanta) ha cercato, infatti, di intervenire in direzione di cambiamenti decisivi, laddove «le istituzioni sono la rappresentazione del potere maschile, il tratto evidente della subordinazione storica e simbolica del femminile al maschile» (pp. 9-10).
Queste tematiche furono affrontate anche dalla corrente socialista del femminismo, che si ispira alla riflessione di Friedrich Engels esposta nell’opera L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato (1884), dove l’autore si concentrava sul legame tra sistema patriarcale e subordinazione della donna. Secondo questa interpretazione, «proprio il matrimonio, quale istituto portante della società civile, poteva assicurare alla base questa continuità» (Carpinelli, 111, 1998).
La corrente socialista del femminismo avanzò l’idea che ci fosse una correlazione tra proprietà privata, scambio economico e famiglia monogamica, laddove il matrimonio costituiva l’asse portante di questo meccanismo, assumendo, più che altro, la fisionomia di un’istituzione sociale.
Pertanto, le donne per potersi emancipare rispetto ad un sistema così strutturato, dovevano slegarsi dal ruolo di moglie e madre imposto, volontà che doveva provenire da loro stesse nel cercare di diventare economicamente indipendenti. Detto ciò, i due fattori collaterali nella produzione della relazione società-subordinazione femminile erano, sia per la corrente liberale sia per quella socialista, da ricondurre essenzialmente alla famiglia monogamica e al controllo della società sulla riproduzione femminile come continuità di tale struttura.
In questo quadro, risulta rilevante la posizione di Juliet Mitchell, che si allinea con la riflessione teorica socialista e per la quale la subordinazione della donna, era una condizione che andava letta facendo riferimento ad un orizzonte più vasto, in quanto dal controllo che l’ideologia patriarcale attuava su di lei mediante il matrimonio e la costituzione della famiglia, incorporava anche la sfera della sessualità in direzione della nascita della prole, tra l’altro, situazione che si riscontrava in maniera assai pervasiva nella società ottocentesca-borghese. Tali tematiche trovarono una specificità concettuale maggiore nel periodo di riflusso, fase collocabile dalla prima guerra mondiale sino alle contestazioni femministe degli anni sessanta. Fu in questa fase che si assistette al sorgere di riflessioni che ebbero nelle figure di Virginia Woolf e Simone de Beauvoir nuova vitalità teorica. Da una parte Virginia Woolf osservava come le donne fossero sempre state private della possibilità di esprimersi con la scrittura, non avendo le condizioni materiali che ne avrebbero garantito l’indipendenza economica, producendo un meccanismo di continua esclusione del femminile dall’arte, in quanto le donne diversamente dagli uomini, non avevano l’opportunità di ispirarsi a dei modelli femminili da cui trarre un esempio per la loro espressione artistica. Dall’altra parte, la filosofa Simone de Beauvoir, nella sua opera Il secondo sesso del 1949, rifletteva sulla subordinazione femminile a partire dai quei pregiudizi che sono alla base delle conoscenze storiche, biologiche e antropologiche.
Nello specifico, la differenza tra maschile e femminile veniva individuata da Simone de Beauvoir, come costruzione sociale fondata erroneamente su differenze biologiche e sessuali, che essendo un buon supporto per le categorie di genere, tendevano a sfavorire il ruolo sociale delle donne. In tal modo, la filosofa osservava come proprio l’aspetto riproduttivo-procreativo delle donne venisse adoperato a loro svantaggio, servendo ad enfatizzare la differenza tra uomo e donna, sia anatomicamente che socialmente, definendola come ‘secondo sesso’, ovvero come un essere ‘incompiuto’ o incompleto.
Simone de Beauvoir, dunque, riuscì a concettualizzare la problematica di fondo, quale paradigma intrinseco di un soggetto femminile, in cui la mancanza di capacità e di spazio si presenta come dimensione già costituita, relegandola «al mero ruolo di negativo del prototipo umano assoluto (il maschio)» (Ercolani, 203). Secondo il punto di vista della filosofa, sarebbe necessario approfondire i dati della biologia alla luce di un discorso più esteso e comprensivo del contesto economico-sociale-culturale: non è quindi la biologia a determinare una differenza sostanziale tra uomini e donne, semmai la cultura e la società hanno definito la posizione della donna imbrigliandola in un lungo percorso storico di costruzione della propria femminilità.
Per Simone de Beauvoir «non esiste un dato naturale che caratterizza la donna fin dall’inizio, immutabile e scritto sulla parete incancellabile del tempo» (p. 206).
La condizione femminile, dunque, non può considerarsi come un fatto o un dato determinato biologicamente o fisiologicamente, ma è correlata ad una struttura reticolare socio-economica-patriarcale, i cui effetti si dilatano a largo raggio se osserviamo, per esempio, che rispetto all’acquisizione e al godimento del diritto di voto o alla possibilità di lavorare e fare carriera, le donne sono state e rimangono tuttora in una posizione subordinata. Premesso che «se la “prima ondata” del femminismo ha combattuto per affermare l’uguaglianza tra uomini e donne […], la “seconda ondata” del femminismo è stata caratterizzata dalla rivendicazione della “differenza”» (Palazzani, 29, 2007).
La fine degli anni sessanta viene, infatti, a delinearsi sia per l’emergere dei temi volti all’uguaglianza giuridica che per le manifestazioni femminili attuate in vista della rivendicazione dei diritti civili. In particolare, furono presenti in queste battaglie civili i movimenti di protesta a cui si aggiunsero oltre che quelli femministi, anche quelli studenteschi, progressisti e antirazzisti. Il punto principale che definisce il nuovo approccio teorico è la riappropriazione della donna del suo corpo e della sua sessualità. La sfera intima sessuale-procreativa, per questa corrente, diventa il fulcro principale da cui iniziare ad argomentare la dissoluzione dell’ordine patriarcale e che vede nella politica il principale scoglio da abbattere, e lo strumento per uscire da tale impasse è individuato nella riappropriazione da parte delle donne di sé stesse e del proprio corpo.
Il femminismo in questa fase si proietta, dunque, su una linea decisamente radicale, in cui la correlazione tra oppressione sessuale e dominio politico costituisce termine critico. Adoperando le parole della femminista statunitense Kate Millett «the term “politics” shall refer to power-structured relationships, arrangements whereby on group of persons is controlled by another» (Millett, 23, 2000). Quella che si presenta è una concettualizzazione teorica vivace e dinamica, che pone al centro delle riflessioni la differenza sessuale e biologica per assumere la vastità che le discriminazioni sulle donne hanno largamente preso corpo a livello socio-culturale, laddove la tematizzazione di tali argomenti assume una fisionomia radicale e che con il pensiero di Shulamith Firestone si inserisce appieno nella disamina attuata dal femminismo di seconda ondata.
La riflessione di Firestone viene largamente ispirata da quella di Simone de Beauvoir e ciò si riscontra nel volume La dialettica tra i sessi. Tesi per una rivoluzione femminista del 1970, in cui per l’autrice a fondamento dello squilibrio tra i generi vi è il nesso riproduzione-procreazione femminile. Allora, cosa emerge in questo discorso? Emerge chiaramente la connessione riproduzione, procreazione dei figli e controllo dell’uomo sulla sessualità della donna.
Al contempo, il femminismo di seconda ondata si concentra sul tema di una maternità libera e volontaria, argomento che si pone come essenziale per la decostruzione del ruolo sociale e della sessualità della donna, per lo più, connessa all’aspetto riproduttivo. Perciò, le riflessioni radicali si presentano maggiormente incisive rispetto alle precedenti, proponendo l’affermazione di una sessualità femminile non subalterna o inferiore a quella maschile, e con un significato di maternità slegato dalla scelta di una donna di diventare madre perché condizionata dalla cultura, ma che va intesa invece come potenzialità procreativa che è della e nella donna. La seconda ondata del femminismo è pervasa di realtà concettuali differenti, allorché la ristrutturazione dei rapporti tra i sessi da un ‘taglio’ al precedente equilibrio sociale, per emergere come nuova coscienza femminile.
Sono predominanti in questa fase argomenti come: capacità riproduttiva, maternità e diritto al riconoscimento dell’autodeterminazione. È interessante osservare che compaiono anche testi di rilievo inerenti alla prospettiva della decostruzione del genere come Lo scambio delle donne. Note sulla “economia politica” del sesso del 1974 scritto dall’antropologa Gayle Rubin. Tali riflessioni legate ad un nuovo ambito scientifico-disciplinare, quello dei gender studies, sviluppati in ambiente accademico anglosassone, vengono ad intersecarsi con l’orizzonte concettuale degli anni settanta, fase in cui il genere diventa oggetto di un approccio di studio interdisciplinare e multidisciplinare. C’è da dire che gli effetti di questa eredità teorica, si faranno sentire, addirittura, tra gli anni ottanta e novanta, quando le riflessioni del femminismo entrano ufficialmente in sede accademica dando inizio ai Women’s e Gender studies e, quindi, ad un processo di formazione ed istituzionalizzazione del sapere alquanto vivace, nel quale le argomentazioni precedenti vengono connesse ad ulteriori tematiche come la violenza sessuale e psicologica, la minore distribuzione remunerativa e incapacità di fare carriera per le donne.
Questi studi si sono impegnati ad esaminare il genere, visto come l’insieme dei processi di adattamento e dei rapporti di socializzazione; un processo storico-culturale che rinforzerebbe le varie caratteristiche di ognuno sino a definirne le predisposizioni, gli stereotipi e i comportamenti.
Questo punto, ci fa comprendere come questi studi, si siano concentrati non tanto sull’elemento biologico, quanto sulla costruzione culturale delle differenze tra i sessi, argomento sul quale le studiose di questa fase teorica, iniziano a dissertare con lo scopo di accantonare la parte biologica ed anatomica, per evidenziare la parte culturale che, a loro avviso, è il fondamento originario da cui si è generata un’errata comprensione concettuale del binomio sesso-genere.
Secondo Joan Scott «il genere “è un terreno fondamentale al cui interno o per mezzo del quale viene elaborato il potere […]. Affermatisi come un insieme di riferimenti oggettivi, i concetti di genere strutturano la percezione e l’organizzazione concreta e simbolica di tutte le forme della vita sociale. Nella misura in cui tali riferimenti determinano distribuzioni di potere (diversi gradi di controllo o di accesso a risorse materiali e simboliche) il genere viene coinvolto nella concezione e nella costruzione del potere stesso”» (Vingelli, 13). Osserviamo, allora, il dipanarsi di un discorso sulla delegittimazione delle donne che diventa rilevante, soprattutto, per una corrente interna al femminismo di seconda ondata, il cosiddetto femminismo della differenza sessuale o femminismo di scuola francese, secondo il quale le differenze sessuali sono atte ad una cristallizzazione dei ruoli. Tuttavia, è proprio questa idea dell’uguaglianza e della messa in discussione delle differenze sessuali, che costituisce un punto dolente per questo approccio teorico.
Come osserva Laura Palazzani, l’idea di uguaglianza entra in crisi per due motivi principali. In primo luogo, «non si riteneva sufficiente il riconoscimento formale di alcuni diritti, ma si considerava necessario realizzare le condizioni fattuali per la loro applicazione concreta, integrando le politiche liberali con politiche socio-assistenziali (con interventi di “normalizzazione” mediante “azioni positive”, ossia misure specifiche, anche transitorie, per rimuovere le disparità di fatto tra uomini e donne)» (Palazzani, 29). Infatti, da una parte l’aver acquisito diritti sociali per le donne, con la possibilità di partecipare alla vita politica o di fare carriera alla pari degli uomini, è una situazione che si è accompagnata negativamente ad un aumento della divisione sessuale, producendo una sorta di nuova discriminazione, non tenendo conto che le donne hanno in più l’impegno del lavoro domestico e della cura dei figli oltre che il lavoro esterno alla casa.
«Una seconda critica al principio di uguaglianza (che accomuna il femminismo liberale e socialista) riguarda la assimilazione» (p. 29). Ciò vuol dire che il femminismo egualitario tende ad una eccessiva equiparazione con i diritti dell’uomo, ed è qui il rischio: sottovalutare i bisogni specifici delle donne, allorché «il modello universalistico della soggettività giuridica identificata, idealmente, con l’individuo in senso astratto, privo delle connotazioni particolari che lo caratterizzano nella concretezza della realtà (tra queste, appunto, la sessualità), finisce con l’esprimere una soggettività indeterminata che neutralizza le differenze (anche sessuali)» (p. 30).
Nonostante ciò, questa impostazione porta con sé richieste di una diversa espressione che si colloca nell’acquisizione di diritti come: il diritto di disporre del proprio corpo, della propria sessualità e capacità riproduttiva; tematiche in precedenza enunciate dal pensiero femminista, ma, che adesso si connettono inevitabilmente al senso nuovo di un effettivo riconoscimento dell’autodeterminazione, anche in merito ad eventi che colpiscono direttamente il fisico e la psiche di una donna, nel caso di stupro e della violenza psicologica e domestica (p. 30). A tali richieste se ne sono, tuttavia, aggiunte delle altre che aprono argomenti di discussione sulla liceità o meno degli effetti che potrebbero scaturirne.
È il caso degli sviluppi tecno-scientifici che hanno squarciato fortemente la nostra realtà aprendo, per esempio, la strada alle tecniche di fecondazione assistita, ma anche a metodiche particolari che, certamente, pongono problemi di risoluzione sugli aspetti positivi o negativi che possono produrre nel caso del «diritto a usare tecnologie riproduttive eterologhe anche per donne sole, […] il diritto alla surrogazione della maternità anche retribuita, all’utero artificiale, alla autofecondazione della donna e alla clonazione» (p. 31).
La riflessione femminista, attualmente, ha spostato l’asse teorica su questo aspetto intersecandosi ad un discorso che collega l’oggettivazione del corpo della donna ad un vasto orizzonte che da quello pubblico, sociale e comunicativo, si estenderebbe anche in quello tecno-scientifico; una cornice nuova che, connessa agli studi di genere, si è andata profilandosi in aria statunitense del femminismo radicale concentrato, sia sulla violazione del corpo della donna da un punto di vista comunicativo e sociologico sia da un punto di vista medico-sanitario. Sotto questo profilo, il quadro appena considerato, ha aperto scenari e interrogativi decisamente controversi, maturati in seno all’attivismo femminista statunitense, che ha finito per concentrarsi non solo su riflessioni di carattere giuridico, ma anche su posizioni critiche in ambito internazionale e volte a centrare l’asse di discussione sui diritti delle donne e sulla loro condizione in tutti i settori (Mattucci, 8).
2. Riflessioni femministe su oggettivazione e autodeterminazione. Un focus sull’etica della cura
La prospettiva precedentemente esaminata, si collega alle posizioni delle femministe statunitensi Catharine MacKinnon, Andrea Dworkin e Martha Nussbaum, le quali individuano l’oggettivazione quale restringimento della considerazione della donna in riferimento alla funzione sessuale. Da questo punto di vista, oggettivare sta per una deumanizzazione della persona umana considerata come un fine o come mezzo per raggiungere un fine, anche se, per MacKinnon l’oggettivazione che è principalmente sessuale, si riferisce più al genere femminile e meno a quello maschile.
Secondo questa interpretazione, il corpo femminile diventa il bersaglio preferenziale di un’oggettivazione esterna e rappresentata dal mezzo televisivo e pubblicitario, un’oggettivazione strumentale ed orientata nella direzione di una sessualizzazione delle donne. Il corpo, in questo senso, diventa frammentazione e osservazione esterna che offre lo spazio per un’immagine femminile non reale. Le rappresentazioni pubblicitarie delle donne sono, infatti, il più delle volte irrealistiche e rispetto agli uomini, le donne soffrono certamente dei canoni estetici proposti e a causa dei quali, si riscontra in esse un progressivo aumento del ricorso alla chirurgia estetica. La soggettività lascia il posto all’oggettività e alla possibilità di essere in un altro modo da quello che si è.
La «maggioranza delle donne, nel momento in cui osserva i modelli presentati dai media, paragona il proprio aspetto con quello di qualcuna che è inevitabilmente “migliore”. Da questo “confronto verso l’alto”, in cui non si può non uscire sconfitte, nascerebbe l’insoddisfazione per il proprio corpo» (Rollero, De Piccoli, 2, 2012). Martha Nussbaum, per esempio, afferma che questo andamento conduce a porre in secondo piano sentimenti ed emozioni interiori della persona, favorendo invece un artificio innaturale, nel quale emergono i caratteri della passività e della staticità della forma estetica fine a sé stessa e l’oggettivazione si tramuta in auto-oggettivazione. In quest’ottica, le donne subiscono l’oggettivazione attraverso un meccanismo esterno, lo sguardo maschile, e interno che le porta ad auto-oggettivarsi e omologarsi ad uno schema culturale o estetico.
Lo sguardo oggettivante conduce quindi la donna ad adattarsi al modo in cui la percepiscono gli altri, posizione, questa, sostenuta nella teoria di Barbara Fredrikson e Tomi-Ann Roberts (p. 2). Le due studiose sostengono che «the body in the basis for the distinction between the sexes» (Fredrikson, Roberts, 174, 1997). Secondo questo studio, il corpo è il metro di valutazione delle capacità maschili e femminili, definendo così la restrizione dei due ambiti prescritti per i due sessi: l’uomo per il pubblico, la donna per il privato.
Detto ciò, l’oggettivazione sessuale si verifica nel momento in cui una persona non viene considerata per la sua capacità di agire nel mondo, ma viene valutata per le categorie culturali-esteriori in cui essa è stata posizionata. In questo caso, per Fredrikson e Roberts il problema è questo: al di là delle capacità o delle doti intellettuali che la donna può esprimere, essa viene ricondotta a determinate categorie, atteggiamenti e ruoli.
«L’auto-oggettivazione è legata al ruolo subordinato riservato alle donne nella maggior parte delle società e al fatto che l’attrattiva fisica è tradizionalmente stata uno dei pochi mezzi disponibili al genere femminile per acquisire potere e mobilità sociale. […] Se l’oggettivazione è stata funzionale nel passato quando le donne avevano poche possibilità di sottrarsi ai ruoli loro imposti, rischia di divenire penalizzante nella società attuale» (Volpato, 105, 2012).
La prospettiva femminista sull’oggettivazione è, altresì, connessa al concetto di alienazione marxiana del lavoratore nella società capitalista, in cui l’assenza dell’autonomia è il fulcro discorsivo dell’argomentazione prospettata dalla riflessione femminista, che si focalizza sulla mancanza di preoccupazione per i sentimenti e le esperienze della persona, presupposto alla base del processo di alienazione-oggettivazione, il quale si esplica nella strumentalità, fruibilità e fungibilità del soggetto.
Si delinea, perciò, una correlazione tra il termine oggettivazione e quello marxiano di entfremdung, che viene tradotto col termine alienazione. In tal senso, la prospettiva femminista pone attenzione sul legame tra oggettivazione e sessualità, allineandosi alla concezione dell’autonomia kantiana della persona come fine in sé. Il desiderio sessuale viene individuato da Kant come una forza che può condurre al trattamento delle persone come strumenti, al fine di soddisfare desideri altrui; strumentalizzazione che contrasta nettamente con il rispetto dell’autonomia della persona e si realizza come negazione della soggettività. La posizione kantiana è questa: in una società formata da dominazione e gerarchia, dominanti e dominati, la sfera del desiderio e della sessualità, sembra essere concatenata ad un meccanismo di strumentalizzazione-uso del soggetto.
L’argomentazione si allinea, pertanto, all’analisi sulla pornografia attuata da Catharine MacKinnon e Andrea Dworkin, individuata come uno dei vari tipi di oggettivazione causata da un tale scenario paradigmatico. Nella pornografia si ha, infatti, un’immagine della donna erotizzata e unicamente riferita al corpo sessualizzato, dove le gerarchie sessuali sono evidenti e nel quale la donna viene raffigurata come oggetto dominato. La riflessione femminista apre quindi uno squarcio nello scenario pornografico e delle immagini in generale che sono individuate quali «forme di delegittimazione del ruolo della donna» (Marone, 3, 2013) ad uso e consumo di chi guarda, l’uomo. In tal modo, la donna acquisisce lo status di oggetto, privata della propria umanità. L’asimmetria è dunque sostanziale. Una visione, quella di MacKinnon e Dworkin, che evidenzia un posizionamento gerarchico tra l’uomo-oggettualizzatore e la donna-oggettualizzata e che, a parere delle studiose, ha effetti a livello sociale nel riconoscimento delle donne come oggetti.
Alcuni studi hanno dimostrato, in proposito, che «i messaggi veicolati sono volti all’iper-sessualizzazione della donna, cioè a trasformarla in oggetto, e all’ipermascolinizzazione dell’uomo: vanno di pari passo e si rinforzano reciprocamente. Nella raffigurazione dell’uomo il machismo, gli aspetti legati alla forza fisica, alla negazione delle emozioni e alla dominanza sessuale si accompagnano da alcuni anni all’ossessione per la potenza muscolare. Le istanze sessualizzanti non risparmiano nemmeno la messa in scena dei più piccoli, ritratti in particolare dalla pubblicità come giovani adulti di cui ripropongono ammiccamenti e strategie seduttive per appagare i loro desideri di consumo» (p. 195).
Sotto un altro profilo, il pensiero femminista contemporaneo si è concentrato su un ulteriore aspetto connesso al discorso sull’oggettivazione, relativo alla prospettiva della medicalizzazione, che il femminismo collega alla logica storica e culturale patriarcale del controllo sul corpo della donna. La medicalizzazione del corpo femminile viene, nello specifico, ricondotta alla costruzione sociale sulla funzione riproduttiva femminile. In questo quadro, si inserisce la prospettiva foucaltiana del biopotere e delle azioni normative sui corpi, riferito al raggiungimento del benessere fisico e al miglioramento della salute della popolazione, come obiettivo di pianificazione sociale (Foucault, 191, 1997).
In questo senso, sul corpo femminile e sulla sua capacità riproduttiva, la società maschile ha esercitato un controllo, problema che l’approccio femminista alla bioetica, ravvisa gli effetti nell’eccessiva medicalizzazione della donna sottoposta, per esempio, a pratiche di prevenzione e controlli costanti in gravidanza. Discorso che viene allineato dal femminismo al controllo sociale sulla maternità e sulla fase gestazionale, vissuta dalle donne come parte di un gruppo sociale e non invece come esperienza personale.
A tale riguardo, Barbara Duden afferma come la tecnologia medica abbia il potere di modificare e intervenire sul corpo riscrivendolo di nuovi significati e simbologie. Posizione analoga si riscontra in Susan Bordo, secondo la quale il ‘dominio fallocentrico’ si esplicherebbe attraverso il rimodellamento dei corpi, ri-significati e ri-scritti su specifici canoni estetici.
Tra gli anni settanta e ottanta, l’orizzonte femminista inizia a essere pervaso da questioni critiche inerenti alla pratica medica. L’approccio teorico femminista modifica, infatti, la sua veste, interessandosi a tematiche inerenti la bioetica, allorché, agli argomenti della liberazione della donna, della sua sessualità e della sfera riproduttiva, si aggiungono quelli della salute fisica e psichica.
In proposito, risulta rilevante la differenza tra care giving (disposizione del medico a curare) e care receiving (disponibilità del paziente a ricevere la cura), teorizzata da Nel Noddings. Su questo aspetto getta luce il femminismo della cura, cura che dovrebbe avvenire secondo una modalità ben precisa. Curare, infatti, significa «prendersi a cuore il mondo esperienziale dell’altro in modo da facilitare quanto più possibile la qualità della sua vita. C’è un aver cura che risponde al bisogno di favorire il pieno fiorire delle possibilità esistentive dell’altro e l’aver cura come riparazione dell’essere ferito nella carne o nell’anima, è la cura che si declina come terapia» (Mortari, 65, 2012).
Comunque, l’aver cura non indica semplicemente confortare o sostenere l’altro, in quanto il concetto, in questo caso, sarebbe di per sé limitante; esso sottintende un modo di relazionarsi all’altro con interesse che, nel caso, del medico o dell’operatore sanitario, significa dimostrarsi disponibile o predisposto alla comprensione del mondo relazionale e del sistema di valori anche religiosi o di credenze che circondano il soggetto. In tal senso, la cura è «considerazione per l’altro. Proprio per questa sua tensione verso l’altro, l’attenzione è un gesto etico: tenere nello sguardo l’altro è la prima forma di cura» (p. 68).
Questo aspetto è molto importante per il femminismo della cura, il quale ha evidenziato il disquilibrio nella relazione tra medico e paziente, problema che investe la responsabilità e competenza del primo. In contrapposizione ad un’etica medica paternalistica, tale disquisizione rispecchia un certo ‘stile’ del femminismo che propone una ri-articolazione concettuale e pratica del ruolo medico, laddove tale tratto paternalistico in medicina viene sostituito, connettendosi all’universo dell’autonomia individuale.
Ciò che costituisce il punto nevralgico dell’argomentazione è, dunque, la qualità dell’assistenza, che nel momento in cui il medico interviene determina l’efficacia, che significa buon livello di gradimento per la cura intrapresa, elemento determinante se vi è, per esempio, la possibilità per il paziente, non solo di accedere ai servizi di cura, ma anche di confrontarsi con l’esperto, il cui compito dovrebbe essere quello di sostenere il paziente, fornendogli le indicazioni adeguate e opportune sulla sua condizione di salute e la diagnosi e non, quindi, attuando un atteggiamento comunicativo distaccato. Difatti, è necessario osservare come la medicina tradizionale sia stata gradualmente sostituita da una pratica medica connessa a nuove variabili riferite al riconoscimento della volontà del paziente e alla comprensione della malattia (Dell’Oro, 37, 2005).
Il limite sotteso ad una pratica medica paternalistica risulta evidente se consideriamo che ci sono ‘terreni’ discorsivi di notevole pertinenza a questa disamina, in quanto «ambiti dell’esperienza clinica e delle tecniche mediche superano di fatto i confini della riflessione tradizionale e in ultima istanza propiziano non solo un ripensamento della nozione di medicina, ma anche una ri-definizione dei fini che la pratica medica persegue» (p. 36).
A tal proposito, Susan Woolf ha fornito delle indicazioni. Partendo dal presupposto che per ottimizzare sia la tempistica che la metodologia di cura, vada considerato il complessivo orizzonte contestuale delle persone: dalla condizione economica allo status sociale, dal livello culturale al sesso di appartenenza; la bioeticista statunitense sostiene che tali variabili costituiscono un evidente elemento nello squilibrio dei rapporti nella pratica clinica, soprattutto se il paziente è donna. Considerando che la posizione di Susan Woolf è strettamente collegata alla situazione statunitense, la bioeticista osserva che questi possono essere reali fattori a detrimento della salute femminile e produttori di una scarsa qualità nell’assistenza alle donne e nella copertura assicurativa con la quale esse potrebbero fronteggiare le spese sanitarie. Alla luce di questa osservazione, secondo Woolf l’approccio alla cura dovrebbe inevitabilmente correlarsi ad un ulteriore approccio di carattere valutativo e contestuale: il principled caring, ovvero una metodologia situazionista che consideri tutti quegli elementi che intervengono e, a volte, condizionano la fase diagnostica e di cura. Si tratta di un’analisi approfondita che valuta le condizioni in cui vive il paziente; i sentimenti di angoscia o preoccupazione per lo stato di salute; la disponibilità o meno alle coperture sanitarie.
Detto ciò, come si costruisce una relazione di cura? Essa dovrebbe puntare a sviluppare nel paziente l’autonomia che, però, non vuol dire che il paziente abbia il monopolio della decisione, bensì fornire un’apertura comunicativa; da una parte la coscienziosità del ruolo medico nel dare le giuste indicazioni e dall’altra parte il paziente, di cui il medico ha la responsabilità di comprendere eventuali dubbi o paure sull’effettuare un trattamento. È questo il nucleo basico della riflessione del femminismo della cura. Incentivare una competenza di autonomia o di autodeterminazione, in particolare, nelle donne.
Le donne sono strette, imbrigliate, chiuse all’interno di ‘barriere’ economico-socio-culturali che produttori di vulnerabilità e fragilità determinano, in un certo qual modo, differenze in fase diagnostica e terapeutica. Da questo punto di vista, la bioetica femminista sottolinea che le informazioni mediche potrebbero essere parziali se, per esempio, tali informazioni riferite ad una donna, tradizionalmente considerata fragile emotivamente, non garantirebbero totale completezza, in relazione ad un atteggiamento paternalistico che tenda ad accentuare le differenze con riferimento il sesso o lo status economico-sociale di appartenenza.
In quest’ottica, si può sostenere che la riflessione femminista in bioetica si caratterizza per l’affermazione di un’etica di fatto relazionale, dove l’adeguatezza delle informazioni enunciate deve accompagnarsi necessariamente ad una effettiva comprensione di queste da parte del soggetto.
Allora, cosa assume davvero centralità in questa impostazione? Il contesto relazionale nel quale sono implicite le capacità individuali e che vanno a formarsi all’interno di una contestualità che coinvolge i due soggetti: il medico e il paziente, nello specifico, se è una donna. In questo caso, l’autonomia su cui il femminismo pone enfasi, diventa relazionale e reciproca; una prospettiva che non punta soltanto a raggiungere l’efficacia del processo decisionale (decision making), ma a concretizzare uno scambio comunicativo-positivo nella relazione medico-paziente.
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