> di Giancarlo Vianello*
Abstract: Malgrado l’enorme distanza storica, culturale, linguistica, Dōgen e Heidegger si muovono in un orizzonte di pensiero che presenta sorprendenti assonanze. Il maestro giapponese si proponeva di ripristinare la dottrina originaria, mentre il filosofo tedesco ambisce ad un superamento radicale della metafisica occidentale. Heidegger, soprattutto l’ultimo Heidegger, inoltre teorizza una coappartenenza costitutiva di essere e nulla, che lo avvicina alla prospettiva ontologica buddhista. Infine, entrambi affrontano, considerandola centrale, la questione della temporalità, trascendendo la visione tradizionale di un tempo lineare e finalistico: Dōgen attraverso il genjō, il manifestarsi momentaneo e spontaneo di pratica/illuminazione ed Heidegger attraverso l’Ereignis, l’evento in cui tempo ed essere si danno come presenza. Già Abe Masao aveva focalizzato l’attenzione su un dialogo a distanza tra i due personaggi su questo topos. Il presente articolo desidera riproporre tale riflessione, cercando di cogliere le assonanze e le inevitabili differenze presenti, vista l’enorme distanza dei due sistemi culturali di appartenenza.
Malgrado l’enorme distanza storica, culturale, linguistica, Dōgen ed Heidegger sembrano appartenere ad uno stesso orizzonte di pensiero, che potremmo definire trans-temporale. Ed è proprio la visione del tempo l’elemento che sembra accomunarli. Come è noto, la speculazione di Heidegger è indirizzata ad un superamento radicale della metafisica occidentale, in quanto questa ha prodotto la Seinsvergessenheit, cioè la dimenticanza dell’essere. L’itinerario di pensiero della metafisica occidentale ha portato alla centralità del soggetto che opera oggettivando. In tal modo, si è perso il rapporto con l’essere, che è diventato ente. Per Heidegger, soprattutto l’ultimo Heidegger[1], vi è inoltre una connessione costitutiva, una coappartenenza di essere e nulla. Da ultimo, il Dasein, l’essere esistenziale dell’uomo, è per il filosofo tedesco caratterizzato dalla consapevolezza degli umani, i mortali, di essere indirizzati alla morte e di vivere nella temporalità. Tale coscienza, che ci distingue dagli altri esseri viventi, è fonte di angoscia e di sofferenza esistenziale. Questi tre elementi, centrali nel pensiero di Heidegger, lo rendono vicino alla prospettiva buddhista e a quella di Dōgen in particolare. Non è un caso se il pensiero giapponese, quando si determina secondo le modalità della filosofia occidentale, viene affascinato ed influenzato dalla sua speculazione. Questa influenza si concretizza, non solo in una impressionante mole di traduzioni e di letteratura secondaria sul filosofo tedesco, in una massiccia divulgazione a livello giornalistico, nel fatto che la prima traduzione straniera di Essere e Tempo fu in giapponese, ma soprattutto in quanto determinò fatalmente la speculazione dei più importanti pensatori giapponesi del novecento (Vianello 2001, pp. 577-583).
Dōgen (1200-1253), da parte sua, è universalmente riconosciuto come il fondatore del Sōtō Zen. Tuttavia diventa fuorviante inquadrarlo in un orizzonte settario, in quanto ambiva soprattutto ad un ripristino della dottrina originaria. Inoltre, identifica da subito come centrale il problema della temporalità, connessa con l’impermanenza. Questi due aspetti determinano una assonanza con la prospettiva heideggeriana. All’età di due anni Dōgen perde il padre. All’età di sette perde la madre. Queste due tragedie, occorse nell’infanzia, lo segnano profondamente. La sua biografia tradizionale[2] riporta che l’osservare l’incenso alzarsi e svanire, durante il funerale della madre, gli diede profondamente il senso della transitorietà della vita umana e dell’impermanenza di ogni dharma. Questo lo spinse a farsi monaco ed ad affrontare il tema della morte e della impermanenza, strettamente connessi con quelli della temporalità e della natura di Buddha. In generale, tutto il Buddhismo, nelle sue varie scuole e tradizioni, è consapevole della connessione inseparabile di vita e morte. Se queste due categorie non vengono oggettivate e deformate dal pensiero, appare evidente che sono due aspetti coincidenti della stessa realtà. Nascita e morte, nella loro perpetua unità, rappresentano il saṃ̣sāra, un eterno ciclo improntato dalla sofferenza. Ogni attimo del sạṃ̣sāra esprime l’unità di nascita e morte.
L’itinerario speculativo di Dōgen inizia con la pratica sul monte Hiei, dove si trova il maggior monastero della scuola Tendai. Qui incorse in un irrisolvibile dubbio circa la dottrina. Come è noto, le due maggiori scuole del Mahāyāna sono il Mādhyamika e il Cittamātra. Il Mādhyamika, sul fondamento della letteratura della Prajñāpāramitā e della successiva rielaborazione logica di Nāgārjuna, asserisce la radicale vacuità di ogni dharma: tutto è vuoto. Il Cittamātra o Yogācāra, pur condividendo tale affermazione, cerca di completarla con un ragionamento fondato sul principio di falsificazione: se il saṃ̣sāra è il frutto di una distorta percezione del reale, se lo falsifica, deve esserci un sostrato che viene falsificato. Viene perciò ipotizzata la presenza di un Sé assoluto definito natura di Buddha. Questa nozione di natura di Buddha, inerente a tutti gli esseri e partecipe della illuminazione originaria, diviene il tema centrale di due scuole cinesi: l’Hua-yen (giapponese Kegon), che si fonda sull’Avataṃ̣saka sūtra, e il T’ien-t’ai (giapponese Tendai), che si basa sul Saddharma puṇ̣ḍ̣arīka (Sūtra del loto). Il Giappone del tardo periodo Heian e primo Kamakura è fortissimamente intriso di dottrine Tendai. Lo stesso Dōgen si forma in un contesto dottrinale che enfatizza la natura di Buddha. Tuttavia, il nostro giovane praticante inizia a prendere coscienza che tra hongaku –il risveglio originario inerente a tutti gli esseri- e shikaku –il risveglio che si ottiene attraverso la pratica- vi è una distanza irriducibile. Se si possiede già una perfetta e completa natura illuminata, perché è necessario praticare? E se si ottiene il risveglio attraverso la pratica, come posso sapere se coincide, o almeno è in sintonia, con quello originario?
Lo scarto tra le due forme di illuminazione porta con sé anche una radicalmente diversa visione del tempo. Il risveglio ottenuto attraverso la pratica è strettamente connesso ad una concezione lineare del tempo, che procede verso un obiettivo posto nel futuro. Tale concezione impedisce di vivere pienamente il qui ed ora, perché tutto è indirizzato verso una realizzazione futura. Diversamente, il risveglio originario, identificato con la natura di Buddha, si concretizza in una infinita quantità di attimi, tutti espressione della Buddhità e quindi in relazione tra di loro senza ostruzione di sorta. Per Dōgen pratica ed illuminazione si identificano. La sua nozione di shushō ittō, di identità di pratica ed illuminazione appunto, si fonda sul fatto che entrambe sono senza inizio, fuori dalla temporalità. La natura di Buddha, presente in tutti gli esseri, non è una potenzialità che si attualizza conseguendo la Buddhità, ma una manifestazione contestuale alla Buddhità. Gli esseri non posseggono la natura di Buddha, al contrario sono essi stessi natura di Buddha. La contraddizione tra hongaku (illuminazione originaria) e shikaku (illuminazione acquisita) viene superata dal genjō (manifestazione spontanea), dal darsi coincidente di illuminazione e pratica. Dōgen chiarisce il concetto con le seguenti parole: “Nella grande via di Buddha e dei patriarchi vi è una pratica continua che è suprema. È una pratica che circola incessantemente. Non vi è il minimo scarto tra risoluzione, pratica, illuminazione e nirvāṇ̣a. La via della pratica continua non cessa di circolare” (Dōgen 1969, 1, 122). Pratica ed illuminazione sono coincidenti ed ogni momento della pratica è illuminazione. Non solo, ma ogni momento di pratica/illuminazione abbraccia l’intero processo. Alla base del dubbio del giovane Dōgen stava l’intuizione che la natura di Buddha dovesse per forza essere trascendente le limitazioni di spazio e tempo, mentre la pratica individuale, nella sua accezione finalistica, ne era limitata. Ora il genjō, il manifestarsi momentaneo e spontaneo di pratica/illuminazione, si situa all’incrocio tra temporalità e trascendenza trans-temporale.
La natura di Buddha, come fondamento, e la pratica, come condizione, sono i due aspetti inscindibili della Buddhità che si palesa come impermanenza. La pratica è un continuo e momentaneo intersecarsi con la vacuità, in quanto la natura di Buddha è impermanenza (mujō no busshō). In apertura della sezione dello Shōbōgenzō dedicata a tale argomento (Busshō), Dogen cita un celebre passo del Nirvāṇ̣a Sūtra che recita: “Tutti gli esseri senzienti hanno la natura di Buddha”. Contro ogni evidenza grammaticale lo ritraduce nei seguenti termini: “Tutto è essere senziente. L’intero essere è natura di Buddha”. La natura di Buddha non è quindi un attributo degli esseri, ma è essa stessa essere, cifra ontologica. È shitsuu (l’interezza dell’essere), che si presenta come impermanenza. Il termine shujō (sattva in sanscrito), che indica in primo luogo gli umani nel loro rapporto esistenziale con la morte e che il Buddhismo amplia a comprendere tutti gli esseri senzienti nel loro rapporto di generazione/estinzione, viene radicalmente approfondito fino ad identificarsi con la dialettica essere/nulla. L’interpretazione deantropocentrica di Dōgen non fa altro che ripristinare nella sua correttezza la dottrina buddhista. Tale revisione necessita tuttavia di una diversa visione del tempo, che viene operata rifacendosi alla dottrina tradizionale buddhista della Kṣ̣aṇ̣ika-vāda ovvero dell’essere istantaneo (cfr. Stcherbatsky 1993, pp. 79 sg.). Secondo tale teoria, il mondo sensibile è composto da flash istantanei di energia, senza che esista una materia eterna, perdurabile e pervasiva come fondamento. La realtà è cinetica e l’interdipendenza dei singoli momenti che si susseguono evoca l’impressione di un flusso continuo di tempo. In realtà ogni singolo dharma istantaneo è una entità a sé che si esaurisce in un baleno. Sulla base di tale teoria, Dōgen giunge ad affermare che ogni realtà dell’intero universo è una frazione di tempo. La reciproca non ostruzione di ogni realtà è come la reciproca non ostruzione di ogni frazione di tempo. L’essere di ogni individuo è tempo. Il Sé primordiale è tempo. La natura di Buddha è tempo. In conseguenza di ciò uji, cioè l’unità di essere/tempo[3], è impermanente. È muji, unità di vacuità/tempo. Per Dōgen l’impermanenza è l’elemento centrale, che si connette con morte e temporalità e con la natura di Buddha.
La negazione del tempo lineare e del divenire, del tempo che si dissipa in vista di una realizzazione futura, apre ad una visione di totale libertà. L’attimo illuminato, che contiene l’intero universo, è la realizzazione spontanea della libertà. Nikon, l’attimo assoluto, è ogni frammento quotidiano, vissuto nella trans-temporalità della natura di Buddha. Infine, è la pratica meditativa che permette di collocarsi all’interno di una rete di realtà temporali, che formano un universo senza limitazioni. La concezione del tempo oggettivato è indissolubilmente legata ad una prospettiva egocentrica. La pratica meditativa, tagliando i vincoli dell’ego, apre ad una diversa percezione del tempo. Sono i calcoli e le strategia dell’ego in vista dei fini da raggiungere che strutturano il tempo nelle modalità che ci sono familiari. Quando invece emerge la prospettiva del Sé primordiale, nikon, l’attimo assoluto, fa da fondamento a una interazione con passato e futuro.
Ricapitolando, l’intero essere è natura di Buddha (busshō) e la natura di Buddha si palesa come non-natura di Buddha (mubusshō) perché è impermanenza (mujō, sanscrito anitya). Nirvāṇ̣a non è una nozione oggettivabile e trascendente, ma il vivere l’impermanenza in quanto impermanenza. Si potrebbe dire aver coscienza del flusso dinamico del reale che si palesa in frammenti momentanei, reversibili e reciprocamente comunicanti senza ostruzione. E come, su un piano spaziale, ogni singolo dharma è espressione completa della natura di Buddha, analogamente, su un piano temporale, lo è ogni attimo del passato e del futuro, nella sua conclusa individualità. Come per ogni dharma, ogni momento in sé contiene l’eternità.
Il modello speculativo di Dōgen trova sorprendenti analogie con il pensiero di Heidegger. Abe Masao (cfr. Masao 1986, pp. 200-244) è l’autore che maggiormente sviluppa questo tema, nella prospettiva di sottolineare l’attualità del maestro giapponese. Come si diceva, entrambi i pensatori puntano a sondare la consistenza ontologica della realtà. Dōgen ponendosi la questione della natura di Buddha ed Heidegger interrogandosi sulla Seinsfrage, l’interrogazione sulla natura dell’Essere. Dōgen elabora la nozione di uji e Heidegger indaga il rapporto esistenziale con l’Essere, nella sua limitazione temporale. Entrambi considerano centrale la connessione costitutiva di essere e tempo, ritenendo problematica la visione ordinaria della temporalità, ed entrambi rifiutano la prospettiva antropocentrica. Il filosofo tedesco lo fa con una minore radicalità, staccandosi progressivamente dall’analitica esistenziale delle sue prime opere e dalla filosofia del soggetto. Alla fine del suo itinerario speculativo arriva a considerare il tempo non come una realtà oggettiva che si possiede, in una prospettiva antropocentrica, ma come un darsi, un apparire che consente il dispiegarsi dell’essere. Non a caso l’ultimo Heidegger capovolge i termini della sua prima opera, Essere e tempo, in tempo ed essere. Procede inoltre, a differenza della precedente filosofia occidentale, nel senso di una relativa compenetrazione di presente, passato, futuro. Secondo la sua analisi, il tempo è una presenza che si dà nel presente e che, nel presente, comprende le estensioni di passato e futuro. Il tempo che sembra sfuggire rimane invece ancorato nel presente. Anche se non si arriva alla non ostruzione ed alla reversibilità di Dōgen, abbiamo una significativa conversione in un ambito comune.
Per Heidegger, l’ambito in cui tempo ed essere si danno è l’Ereignis. Si tratta di una nozione difficile da definire, che Abe Masao traduce con “appropriazione”, cioè modalità con cui la realtà si appropria di tempo ed essere. Si tratta di un evento che realizza il destino dell’essere all’interno di un tempo, che ne è inseparabile parte. Questa modalità prende le forme del Geviert, il quadrato. Si tratta di una quaternitas costituita dall’incrocio di due coppie di opposti: cielo e terra, mortali e divini. La terra sostiene e nutre, il cielo offre la luce ed il calore del sole, la notte ed il ristoro lunare, il vento e le stagioni. All’interno di questo spazio, si muove l’altra coppia. I divini sono i messaggeri del Sacro, che può apparire nella sua presenza o ritirarsi nel suo nascondimento. I mortali sono coloro che vivono consci del loro essere indirizzati alla morte e che comunque vivono, di fronte ai divini e tra cielo e terra. I mortali abitano in questa quaternitas. Curare la terra, accogliere il cielo, attendere i divini ed essere capaci della morte in quanto morte è la loro essenza.
In questo contesto si ha l’Ereignis, cioè il darsi di tempo ed essere, nessuno dei quali è oggettivabile. L’essere è presenza, cioè essere nel presente che, con passato e futuro, rappresenta il tempo. Essere e tempo si determinano reciprocamente, nessuno dei due è indipendente[4]. Non è più il mero soggetto a confrontarsi con temporalità e mistero dell’essere, ma è un contesto in cui l’aspetto squisitamente antropomorfico si stempera. Il rispecchiarsi all’interno della doppia coppia permette di uscire dalla prospettiva limitata dell’ego ed aprirsi ad una visione più ampia. I mortali, cioè coloro che hanno coscienza della morte, sono in grado di guardare alla morte come tempio del nulla, che in sé alberga l’essere. Resta tuttavia un residuo metafisico, in quanto i divini, che rappresentano l’ambito mitico, alludono ad un “Altro”, che trascende. La prospettiva della nozione di uji di Dōgen è da questo punto di vista molto più radicale ed in linea con il celebre detto di Bodhidharma: “Vasto vuoto e nulla in esso che possa essere considerato sacro”[5]. Ma su questo avremo modo di ritornare.
Note
[1] Il pensiero di Heidegger si sviluppa attraverso una svolta significativa, la Kehre, che funge da partizione tra la prima produzione incentrata sulla analisi fenomenologica del Dasein, sviluppata in Essere e tempo, ed un successivo sviluppo del pensiero, incentrato su una maggiore consapevolezza della connessione costitutiva di essere e nulla. In questa seconda fase, vengono invertiti i termini e si parla di tempo ed essere. Poiché la materia trattata in questo articolo è già abbastanza complessa di suo, cerco di semplificare riferendomi esclusivamente al secondo Heidegger.
[2] Il Denkōroku di Keizan è una agiografia dei patriarchi cinesi e giapponesi, che giunge sino a Ejō. Il cinquantunesimo e penultimo capitolo è dedicato a Dōgen.
[3] Vedi la sezione dello Shōbōgenzō intitolata, appunto, Uji.
[4] Abe Masao fa notare che, tuttavia, in Heidegger vi è una certa priorità del tempo rispetto all’essere, in quanto il tempo è il luogo in cui si dà l’essere. Mentre in Dōgen, l’identità è assoluta. Cfr. Masao 1986, pp. 129-131.
[5] Primo caso del Biyan Lu. Cfr. Cleary (a cura di) 1978.
Bibliografia
- Shōbōgenzō, Opera cit., Kōmyō.
- Cleary, Thomas (a cura di), 1978: La raccolta della roccia blu. Ubaldini, Roma.
- Dōgen, 1969: Shōbōgenzō, Gyōji, in Dōgen zenji zenshū, Chikuma shobō, Tokyo.
- Hajime, Tanabe, 1959: “Todesdialektik”, in Festschrift. Martin Heidegger zum siebzisten Geburtstag. Neske, Pfüllingen.
- Heidegger, Martin, 1969: Zur Sache des Denkens. Niemeyer, Tübingen.
- Masao, Abe, 1975: “Non-Being and the Mu: the Metaphysical Nature of Negativity in the East and the West”, in Religious Studies, 2.
- Masao, Abe, 1986: “The problem of Time in Heidegger and Dōgen” in Alistair Kee, Eugene T. Long (edd.), Being and Truth: Essays in Honor of John Macquarie, SCM Press, London.
- Stcherbatsky, Th., 1993: Buddhist Logic, Motilal Banarsidass, Delhi, vol. I.
- Steffney, John, 1977: “Non-being-Being vs. the non-being of Being. Heidegger’s Ontological Difference with Zen Buddhism”, Eastern Buddhist, X, 2.
- Vianello, Giancarlo, 2001: “La ricezione di Heidegger in Giappone”, in Atti del XXV Convegno di studi sul Giappone, Venezia, 4-6 ottobre 2001.
*Giancarlo Vianello è uno studioso della Scuola di Kyōto. Sul tema ha pubblicato: ˝Mystique du néant e Śūnyatā selon la perspective de l’ École de Kyōto, Théologiques, Montréal, 2012; ˝Nihilism and Emptiness˝, in Confluences and Cross-Currents, R. Bouso, J. Heisig eds., Nanzan Institute for Religion and Culture, Nanzan, 2009; Messaggeri del nulla, Rubbettino, Catanzaro, 2006; La scuola di Kyōto, Rubbettino, Catanzaro, 1996.
[Il PDF completo verrà pubblicato insieme alla seconda parte, domenica 11 settembre 2016]