Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Oggettivazione del corpo femminile

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> di Laura Sugamele*

Abstract

Il presente articolo ruota attorno al concetto di oggettivazione del corpo femminile, alla cui base vi è l’azione che la cultura, la società e i meccanismi di comunicazione attuali come pubblicità, pornografia e le immagini, in generale, che sviliscono il genere femminile, attuano principalmente sulla sessualità. Agendo su di essa, si agisce sul corpo al fine di modellarlo esteticamente ed esteriormente, ma non solo. L’utilizzo che i mass media fanno del corpo femminile, infatti, è atto allo scopo di orientare la figura o il ruolo, mediante una sua falsificata rappresentazione, mantenendo, in tal modo, inalterati gli stereotipi, per poi, concludere con una breve disamina sul rapporto tra oggettivazione del corpo femminile e utilizzo delle tecnologie.

Corpo, immagine e stereotipo femminile

L’oggettivazione del corpo implica che il corpo sia strettamente connesso alla società stessa, nel quale questo corpo è collocato e su cui essa inscrive determinati significati. In tal senso, il corpo maschile o femminile viene letto a partire dal sociale che ne fa luogo di riconoscimento e differenziazione. Premettendo che il riconoscimento sociale del corpo comporta una frammentazione simbolica di esso, sono i mezzi di comunicazione che rappresentano lo strumento atto a questa costruzione simbolica. Da questo punto di vista, l’individuo viene determinato socialmente mediante il corrispondente riconoscimento in immagini e codici culturali e questo meccanismo contribuisce ad assegnare «un preciso ruolo sociale e un’identità ben definita» (Paola Giacomazzi, 2012, p. 5). Tale meccanismo ha una fisionomia sostanzialmente pervasiva attraverso l’interiorizzazione di modelli che vengono presentati dalla pubblicità e dalle riviste e che, pertanto, propongono un modello generale di bellezza femminile, spesso, irraggiungibile o irreale. «L’attenzione a raggiungere la propria espressione […] si è mercificata nell’autosoddisfazione che deriva dalla perfezione del corpo. L’autoespressione è divenuta ottimizzazione dell’espressione corporea nei canoni socialmente condivisi» (Caterina Arcidiacono, 2012, p. 5). Il risultato di ciò può manifestarsi negativamente nella percezione delle donne maggiormente come qualità fisica. È interessante osservare, che la società occidentale ha infatti privilegiato eccessivamente il corpo, il quale è divenuto l’indicatore della soggettività individuale «complice il sistema dei media nel suo complesso, che riveste un ruolo fondamentale nel processo di costruzione sociale del corpo» (Patrizia Calefato et al., 2009, p. 37).

Da un altro punto di vista, la femminista Annette Baier sostiene che gli individui si determinano socialmente attraverso le relazioni interpersonali che già instaurano nell’infanzia e che, poi, si concretizzano e condizionano i comportamenti e azioni, all’interno del sistema di decisioni e pensieri che vengono a formarsi in età adulta. Nella prospettiva esposta dalla Baier, l’individuo non si presenta come soggetto autonomo nelle decisioni e azioni; esso è in realtà influenzato da questo sistema di relazioni (Roberto Mordacci, 2003, p. 239). Baier afferma che gli esseri umani sono «persone seconde» (Ibid.), il risultato dei significati che le persone attribuiscono quando si relazionano con altre persone. Detto ciò, le donne «non sono state pensate come soggetti razionali autonomi e hanno dovuto definirsi in base alle relazioni» (Ibid.). Vi è dunque connessione tra le pratiche socio-culturali e il corpo che viene così modellato attorno a tali pratiche.

L’aspetto che attualmente il femminismo sottopone a critica è la rappresentazione di genere proposta dai media. I messaggi che essi forniscono danno enfasi al corpo delle donne, condizione che tende a porre in secondo piano le qualità intellettuali femminili. Il proporre visivamente un’immagine di eccesso di magrezza, si allinea con l’idea di un corpo femminile oggettivato (Cfr., Patrizia Calefato et al., op cit., p. 40). Secondo la prospettiva femminista, «l’enfasi sulla bellezza del corpo femminile riprodurrebbe l’asservimento delle donne sia alla cultura patriarcale (nel far dipendere la propria autostima dal giudizio e dallo sguardo maschile, o male-gaze), che alle logiche del mercato (inducendole a spendere una fortuna per riuscire a riprodurre il corpo ideale snello, che garantirebbe appunto la possibilità di tale sguardo)» (Ibid.). Nello specifico, l’oggettivazione del corpo femminile avrebbe nello sguardo maschile l’azione principale di tale oggettivazione. Nello sguardo oggettivante si attuerebbe un meccanismo psicologico, in quanto nel momento stesso in cui la donna si percepisce nello sguardo altrui come oggetto, ella tenderebbe ad interiorizzare in se stessa tale atteggiamento. A tal proposito, la bioeticista Susan Sherwin osserva che, storicamente, l’approccio medico si è caratterizzato per l’interesse posto sul corpo femminile e la riproduzione. In particolare, dalla metà del XIX secolo, la medicina si è incentrata notevolmente sulla riproduzione femminile e la fase gestazionale. È in questo periodo storico che emergerebbe una stretta connessione tra pratica medica, paternalismo e oggettivazione-medicalizzazione del corpo delle donne. Altresì, nell’analisi di Sherwin, emerge come l’adattamento del corpo femminile attorno a dei specifici canoni estetici non fosse solo un fattore riferito ad una particolare fase storica, bensì come essa sia invece continuativa, anche, nella società di oggi. Premettendo che Sherwin riconduce le sue riflessioni, in particolare, alla società americana, la problematica viene esaminata con riguardo il ruolo che in essa hanno le autorità mediche sul discorso della salute e del peso. Precisando che la posizione della studiosa non è contro il consiglio medico per il controllo dell’obesità che, tuttavia, rappresenta un reale problema per la salute; ciò su cui ella puntualizza, è l’esposizione a canoni estetici di cui le giovani donne americane soffrono. Questa omologazione viene supportata da modelli culturali e, alla fine, orienta persino le prescrizioni mediche ai fini del raggiungimento del personale benessere, per lo più, legato ad un fattore estetico e meno ad una questione reale di salute. Tale atteggiamento porta le donne a percepirsi come inadatte per l’ideale estetico generale e a biasimarsi. In tal senso, secondo Sherwin «nel pensare […] la donna come corpo» (Adriana Cavarero, 1995, p. 9), è normale che subentri in lei una pressione e una frustrazione interiore per l’incapacità di realizzare e adattare questo canone esteriore in se stessa. Inoltre, l’ideale della snellezza comunicato dalla pubblicità diffonde significati diversi, nel senso che differisce una forma inversa di valore femminile come diminuzione e oggettivazione sessuale. Di converso, ci sono immagini pubblicitarie che propongono donne dedite al mondo del lavoro e che assumono atteggiamenti di rigidità e un iper-controllo esagerato, assumendo e adattandosi a quelle caratteristiche considerate prettamente maschili.

«L’ideale di un sé perfettamente gestito e regolato all’interno di una cultura consumistica» (Patrizia Calefato et al., op cit., p. 45), invece, offre solo «l’illusione di sapersi dominare, di esercitare autocontrollo e potere su di sé» (Ibid.) Allora, c’è da chiedersi se siamo di fronte ad un nuovo tipo di oggettivazione delle donne. Naturalmente, l’immagine che i media propongono della donna, si allinea con l’attuale riflessione femminista sull’oggettivazione del genere femminile. Da questo punto di vista, infatti, «la società consumistica, di cui i mass media sono l’espressione più diretta e conseguente, […] ha contribuito a rendere fasce della società particolarmente accorte e suggestionabili delle immagini femminili e maschili trasmesse» (Mirella Zecchini et al., 2005, p. 22).

Oggettivazione e sessualità

Tra gli anni Sessanta e Settanta, le femministe riconducono il discorso sull’oggettivazione del corpo femminile alla sessualità che, tra l’altro, è uno dei temi fondamentali connesso alla liberazione delle donne. Questa prospettiva teorica, negli anni Ottanta, porta invece una parte del femminismo ad estendere il discorso assumendo una posizione critica nei confronti della pornografia, individuata come nuovo strumento di oggettivazione. Secondo, Andrea Dworkin e Catharine Mackinnon, l’industria pornografica tende ad acuire tale oggettivazione riducendo la donna a semplice materialità. Nella pornografia il soggetto-donna si tramuta in oggetto-donna. Nello specifico, il corpo femminile è plasmato sulle esigenze maschili, all’interno di un «contesto prostituzionale» (Brunella Casalini, 2011, p. 346), venendo strumentalizzato in quanto parte di un sistema capitalistico generale, inclusivo della distribuzione e commercializzazione del prodotto.

La linea critica del femminismo individua la pornografia come elemento altamente oggettivante delle donne e di continuità della loro sottomissione, in quanto nuovo fulcro del potere fallocentrico (Cfr., Valeria Giordano et al., 2006, p. 212). Il corpo pornografico è così alienato in un circuito di produzione-consumo, all’interno di una logica in cui ogni parte di questo corpo è smembrato in un sistema standardizzato di domanda e offerta. Analogamente, il sistema della vendita pubblicitaria cosmetica ed estetica femminile, fa emergere, come sul corpo femminile vi siano delle attese e per questo soggetto a progetti trasformativi. Tammy Quintanilla Zapata, avvocato ed esperta di discriminazione di genere e di traffico illegale di donne presso le Nazioni Unite, sostiene che la pornografia si pone su un livello simile alla prostituzione, in quanto in entrambi i casi si istituisce una oggettivazione e una commercializzazione conclamata della femminilità ridotta a merce, i cui derivati economici sono connessi alla fruibilità e al potenziale profitto del commercio, del prodotto sessuale scambiabile (Cfr., Aurora Javate de Dios et al., 2006, p. 65).

Tra gli anni Ottanta e Novanta, il movimento femminista si è notevolmente interessato a discutere su tale problematica, grazie alla diffusione in ambito accademico e di ricerca dei Women’s e Gender Studies, per poi spostare l’attenzione sul terreno giuridico e individuandolo come lesione dei diritti umani. Ci sono vari fattori che conducono le donne, prevalentemente giovanissime, ad essere vittime della prostituzione. A causa dell’insicurezza e della povertà nella quale le donne sono costrette a vivere, soprattutto, se pensiamo a paesi come l’America Latina o al sud-est asiatico, esse si avvicinano a questa situazione di terribile natura, magari ingannate e perché in cerca di un futuro guadagno, o persino, per fuggire da violenze precedenti subite nei paesi di provenienza (Cfr., p. 76). È certo, che le femministe identificano la violenza e le azioni di oppressione sulle donne in generale, nella percezione che si ha di loro come di un essere parziale. Detto ciò, l’asimmetria di genere è strettamente collegata alla perdita del riconoscimento con l’Altro.

Alla luce di tale osservazione, risulta rilevante il rapporto tra violenza e corpo, in particolare, considerando i contesti di guerra nei quali le donne sono le vittime preferenziali di prevaricazione e aggressività maschile. Con la violenza sulle donne nei contesti di guerra, ad esempio la guerra in Bosnia-Erzegovina, si supera l’ambito strettamente oggettivante del corpo femminile, perché in questo caso, tortura e manipolazione rendono nullo il corpo e, in questo caso, diventano il fulcro brutale di un’azione che sostanzia la creazione di una nuova identità etnica (Cfr., Consuelo Corradi, 2009, p. 34). In tal modo, il corpo delle donne è diventato luogo di un «processo di desoggettivazione-oggettivazione» (Adriana Lotto, 2011, p. 5). Inoltre, la violenza sessuale nei contesti di guerra ha principalmente una caratterizzazione sessuale, che fa capo ad una organizzazione sociale in cui i rapporti tra i generi racchiude un’asimmetria di potere, nella quale la sessualità rappresenta una strategia su cui agire. «Il corpo di una donna violentata diventa un campo di battaglia rituale» (Fabrizio Battistelli et al., 2010, p. 19). Da questo punto di vista, la violenza sessuale sulla donna tende a ridurla ad oggetto su cui attuare la trasformazione della società stessa, ad esempio, attraverso il proseguimento forzato sulle donne bosniache delle gravidanze scaturite da tale violenza.

La violenza e la tortura sul corpo femminile sono strumenti atti all’attraversamento di un nuovo orizzonte simbolico riadattato per i propri scopi. «Se il corpo della donna viene assunto come simbolo della purezza di una comunità, esso diventa estremamente vulnerabile, assoggettabile a pratiche per valorizzarlo o contaminarlo. Certamente più del corpo maschile, il corpo femminile è una materia incandescente sulla quale interviene la cultura» (Consuelo Corradi, op. cit., p. 52). In questa prospettiva, la sessualità è, in genere, utilizzata come elemento oggettivante e costitutivo del potere che interviene su di esso per imprimere una forma.

Il corpo tra oggettivazione e potenziamento

Come precisato nel precedente paragrafo, la sessualità è l’elemento su cui si agisce per determinare un processo di trasformazione del corpo, argomento che non può prescindere dal discorso attuale rivolto all’azione delle biotecnologie su di esso. Lo sviluppo tecnologico ha infatti posto numerosi interrogativi etici, in particolare, con riguardo le tecnologie migliorative o gli interventi di chirurgia. A tal proposito, è interessante la posizione della femminista Susan Bordo, la cui riflessione teorica si è incentrata sulla condizione del corpo in generale e, nello specifico, su quello femminile, in considerazione dell’esponenziale diffusione della chirurgia. Secondo la Bordo, il nuovo ideale del corpo che viene promosso dalla società odierna è quello di un corpo plastico.

Analoga posizione è quella di Jürgen Habermas, secondo il quale nell’utilizzo positivo delle biotecnologie sulla natura umana, in realtà, si celerebbe una strumentalizzazione dell’Altro. Nella prospettiva esposta da Habermas, si verrebbe a delineare una fisionomia essenzialmente negativa che condizionerebbe persino le relazioni umane. La riflessione di Habermas prende in esame il concetto di enhancement che si traduce con la parola «potenziamento» (Maurizio Balistreri, 2011, p. 17). Questo termine viene adoperato generalmente nel dibattito bioetico attuale con riferimento alle tecnologie e agli interventi connessi, che esulano dall’ambito strettamente terapeutico e che, invece, sono diretti al miglioramento o al potenziamento delle caratteristiche fisiche o anatomiche degli individui. Pertanto, nella prospettiva teorica del filosofo e sociologo tedesco, ci sarebbe una grande riserva sugli effetti connessi alle tecnologie migliorative, il cui utilizzo sarebbe indotto da una società che invita a migliorarsi nel fisico e ad aumentare le sue potenzialità e, dunque, «inconciliabile con l’autonomia e la libertà personali» (Ivi, p. 138). Detto ciò, la tecnologia rivela la natura oggettivante del corpo, frammentato e trasformato in oggetto-per-noi a scapito del corpo inteso come essere-sé-stessi (Cfr., p. 141). «Una percezione di sé come oggetto sarebbe intollerabile, perché metterebbe in luce da una parte il carattere strumentale dell’intervento subito e dall’altra l’impossibilità per la persona di identificarsi e sentirsi tutt’uno con il proprio corpo, in quanto tale identificazione, secondo Habermas, sarebbe possibile soltanto quando il soggetto fosse capace di vivere la propria corporeità come qualcosa di naturalmente indisponibile, ossia come qualcosa che non dipende dalla scelta di altre persone» (Ibid.).

Ritornando al pensiero di Susan Bordo, la femminista nel libro Unbearable weight. Feminism, western culture, and the body del 1993, espone una teoria di un certo rilievo che delinea la diffusione nella società contemporanea dei disturbi alimentari femminili, focalizzando il discorso sulla connessione tra problemi alimentari e l’esposizione delle donne ai vari agenti normativi, sociali e comunicativi di un tipo di corpo e di identità, fattore che sembra influire su un errato rapportarsi delle donne con il cibo (Cfr., Anna Colella, 2003, p. 32). In questo caso, Bordo insiste sul parallelismo tra adattabilità e modellamento del corpo, disturbi alimentari e chirurgia. Bordo sottolinea, è come se ci trovassimo di fronte ad una metaforica patologia autoprodotta dalla cultura, con l’imposizione di modelli e la cristallizzazione in identità esteriori. Esempio classico è il corsetto, di moda in epoca ottocentesca e che indossato dalle donne, costituiva un’imposizione già nell’abbigliamento ed era quindi espressione di restrizione del movimento e di un controllo del comportamento a livello sociale. In questo orizzonte si dipana una riflessione molto cara per il femminismo odierno: quello del rapporto tra autodeterminazione femminile e tecnologie riproduttive (Cfr., Francesco Saverio Trincia, 2005, p. 119). In questa problematica converge, infatti, il difficile rapporto tra libertà e corporeità; tra corpo femminile e autonomia, «ossia della libertà come decisione morale» (Ibid.) da parte delle donne di decidere consapevolmente, senza condizionamenti esterni, se o non adoperare le tecnologie migliorative ed estetiche o quelle a fini riproduttivi.

A tal proposito, Susan Bordo pone l’attenzione proprio sulle scelte personali delle donne fatte in funzione dei condizionamenti sociali come, ad esempio, il desiderio di raggiungere un dimagrimento eccessivo o, di sottoporsi agli interventi di chirurgia, condizione che cela un atteggiamento di standardizzazione del corpo. Difatti, il potere sotteso ai modelli socio-culturali può condurre le donne ad una percezione di se stesse come difettose, in quanto inserite in un processo di ricomposizione del corpo, in un circuito di aggiustamento delle parti di esso. L’uso eccessivo della chirurgia e della tecnologia, darebbe maggiore fervore al processo di sessualizzazione e oggettivazione delle donne. In una società come quella attuale, che spinge per una continua ricerca della perfezione e della bellezza, il processo naturale dell’invecchiamento non viene accettato ma rifiutato.

Alla luce di questa considerazione, l’oggettivazione del corpo femminile indurrebbe nell’immaginario maschile ostilità e insufficienza nei confronti delle donne, come soggetti poco rilevanti socialmente. «L’oggettificazione femminile potrebbe sembrare una misura che, neutralizzando la soggettività femminile consente rapporti meno conflittuali tra i sessi; risulta, invece, essere a sua volta induttrice di ostilità» (Caterina Arcidiacono, op. cit., p. 5). Pertanto, il corpo come espressione esteriore, conduce le donne ad essere semplicemente ricondotte all’esibizione del corpo (Cfr., ibid). Essere nel mondo esclusivamente per il tramite della rappresentazione figurativa del corpo, costituisce dunque una limitazione sostanziale rispetto alla personale capacità di azione nel mondo. Il superamento di questo orizzonte così limitativo, potrebbe concretizzarsi mediante un dualismo comunicativo tra il farsi conoscere come interiorità ed essere riconosciuto come Altro e non come solo corporeità.

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* Laura Sugamele ha conseguito nel 2014 con il massimo dei voti la laurea magistrale in Filosofia e Forme del Sapere (curriculum in Scienze Filosofiche) presso l’Università di Pisa. Attualmente si occupa di ricerca in ambito di gender discrimination e diritti umani.

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3 thoughts on “Oggettivazione del corpo femminile

  1. interessante,documentato,eppur accattivante lettura.Per informarsi e per meditarci un po’ su. Soprattutto,per noi maschietti:vecchietti autodidatta,come me, ma anche filosofi,scrittori,ecc, distratti o egoisti maschietti…grazie.

  2. Sono d’accordo su tutta la linea, volevo avvertirti che ho linkato questo tuo testo nel formato Pdf (l’ho trovato anche così in rete) in un blog rispondendo ad una pubblicità che ritengo sessista e discriminante oltre che oggettivante il corpo femminile. Buona serata. R.S.

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