Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Autorità e dipendenza nelle professioni di aiuto – Il paradigma del Counseling

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> di Omar Montecchiani*

Dice Jung:

« […] è la personalità del terapeuta, con l’esperienza e l’analisi della propria sofferenza psichica, a fare il buon psicoterapeuta. La conoscenza tecnica è solo un supporto, anche se necessario» [1].

Questa affermazione, se presa in modo unilaterale e assolutistico, spinge alla deduzione di due affermazioni in se stesse paradossali:

1) La personalità del terapeuta e la conoscenza tecnico-teorica del suo impianto formativo, rappresentano due dimensioni della persona del terapeuta almeno parzialmente slegate tra loro, scisse, separate (al che verrebbe da domandarsi da che cosa).

2) La conoscenza tecnica, essendo un qualcosa che viene presentato come un “supporto” (“un’appendice” quasi), rispetto al rapporto terapeutico e alla efficacia terapeutica, e quindi implicitamente come un elemento “staccato” dalla personalità stessa del terapeuta, risulta essere, appunto, qualcosa d’impersonale (al che verrebbe da chiedersi, essendo la strumentalità tecnica una determinata acquisizione, chi è il soggetto di tale acquisizione, e l’emergere della domanda sui vari perché di una tale acquisizione).

A mio avviso, invece, l’affermazione di Jung rappresenta una problematizzazione implicita dell’immenso tema del cambiamento terapeutico e degli elementi che concorrono a un tale cambiamento ed è proprio a partire da queste derive aporetiche, che viene indicata la risoluzione del problema del cambiamento terapeutico, direttamente nella integralità e totalità della persona del terapeuta stesso – nell’uomo del terapeuta. A partire da questo spunto, è possibile tratteggiare la figura del Counselor rispetto alle relazioni d’aiuto e alla relazione terapeutica.

Non essendo la mera messa in atto di una certa strumentalità tecnica di tipo teorico-pratica di un certo soggetto, ma essendo il soggetto stesso a farsi, nella relazione con l’altro, strumento di questa e in questa stessa relazione per sé e per l’altro, il Counseling non è integralmente inquadrabile all’interno di una delle molteplici “professioni” di aiuto di tipo psico-sociale classicamente intese, ma rappresenta una vera e propria modalità d’essere “per” l’altro e “con” l’altro. Una specifica forma di esistenza che – appunto in quanto tale – coinvolge l’interezza della persona e non soltanto la sua capacità di operare attraverso strumenti teorico-pratici. Lapidaria in questo senso l’affermazione di Rogers, che esprime la centralità dell’esperienza terapeutica stessa, nell’attività di formazione del terapeuta, e che vede coinvolta la sua stessa persona per quanto riguarda l’apprendimento del metodo terapeutico:

«Ho utilizzato me stesso come strumento di ricerca» [2].

Il Counseling, pur avendo alle spalle una determinata visione del mondo e dell’uomo, seppur utilizzando determinati strumenti ermeneutici nella pratica clinica (PNL, analisi transazionale, cognitivismo, costruttivismo etc. [3]), tuttavia, si rapporta all’altro “essendo”. Non opera cioè una riduzione dei fenomeni umani, a partire da una interpretazione riduzionistica dell’umano nella sua integralità all’inconscio, o ai suoi comportamenti, ma utilizza l’insieme della strumentalità tecnica in senso indicativo, orientativo, operativo e soprattutto integrativo rispetto alla globalità della persona umana – all’interno di un processo di accrescimento, che lascia al cliente la libertà di muoversi a partire dalle sue categorie interpretative e di senso. Esplicita in questo senso una diversa categorialità professionale, che sdogana la gerarchizzazione e la medicalizzazione tipica che struttura – nel mondo contemporaneo – il rapporto tra “paziente e professionista”. Nell’incontro di Counseling si ha a che fare con due o più “individui”, “persone”, “soggetti umani”, che vedono ripartite le proprie capacità personali in termini uguali, in un rapporto che ridistribuisce (o cerca di ridistribuire) in egual misura le reciproche responsabilità personali [4].

Il cliente viene continuamente rimandato alla dimensione originaria – forse infondabile, ma fondante – della propria libertà sostanziale: l’unica dimensione umana che permette di tratteggiare i confini della propria individualità, e l’uscita dunque dalla dimensione fusionale tra sé e l’altro chiamata “adualismo” (ben specificata fenomenologicamente e genealogicamente da Odier [5]).

Partendo da queste basi possiamo dire dunque che il Counselor realizza direttamente nella specificità della propria persona l’auspicata “umanizzazione” delle professioni di aiuto così tanto voluta da Rogers, ma andando ben oltre questa stessa auspicabilità.

La visione olistica della persona umana che presiede al modo di essere del Counselor, avvicina senza confondere i rispettivi universi di senso, “professionista” e “cliente”, all’interno dell’unità e della unicità del rapporto e di una visione globale dello stesso, senza incappare dunque in quell’ «atteggiamento indifferente di ritiro, anche se benevolo» [6] in cui si rifugiavano i fautori della psicoanalisi classica.

Risulta chiaro infatti che soltanto un orizzonte configurativo di tipo olistico-sistemico tra professionista e paziente (o cliente), può permettere la destrutturazione della categoria reificante e obiettivante dell’operatività tecnica del mondo contemporaneo. In questa visione infatti non può trovare posto né il cosiddetto paziente-organo, né una psiche sganciata dal rapporto con il mondo e dal modo di essere del soggetto umano da analizzare e scomporre. È solo all’interno di questo orizzonte – al di là della diversificazione degli approcci al Counseling – che può venir meno la cosiddetta cosificazione obiettivante dell’altro – da una parte – e il rapporto gerarchizzante, perché non paritetico nel rapporto io-tu, tra il professionista e il soggetto bisognoso di aiuto – ed è possibile quindi far si che la specificità intrinseca della dimensione di senso dell’altro emerga da sé in noi. Come insegna Maslow:

«La maniera più efficace di percepire la natura intrinseca del mondo è di essere più ricettivi che attivi, determinati il più possibile dall’organizzazione intrinseca di quanto si percepisce, e il meno possibile dalla natura di chi percepisce» [7].

Tuttavia, un approccio centrato sulla persona intesa nella sua totalità, a partire quindi anche dai suoi aspetti emozionali, sentimentali, intuitivi etc., ha una triplice conseguenza rispetto al rapporto terapeuta-paziente classicamente inteso:

1) Innanzitutto apre la strada alla dimensione empatica, sovra-personale, “irrazionale” del terapeuta, la quale, come ben sappiamo, è stata ampiamente criticata dalla psicoanalisi ortodossa e dalla psicologia sperimentale, in quanto difficilmente dimostrabile nella sua operatività terapeutica attraverso procedure protocollari standardizzate di rilievo [8].

2) In secondo luogo, la fiducia sostanziale nell’essere umano visto come una “persona totale”, che possiede le potenzialità e le caratteristiche che lo rendono in grado di auto-realizzarsi, a partire da quella che Rogers stesso definisce “tendenza attualizzante” (anche detta “sintropia”, la tendenza formativa accrescitiva universale – opposta alla entropia – che induce allo sviluppo progressivo di gradi superiori di ordine sempre maggiore), porta inevitabilmente a una estensione della “pratica terapeutica” a tutti i campi della società (dall’ambito medico alle imprese, dalla formazione professionale all’educazione scolastica).

3) In terzo luogo si verifica quella parificazione sostanziale tra terapeuta e paziente, che porta a una trasfigurazione della figura del terapeuta stesso, il quale viene in qualche modo “spodestato” dal paradigma “autoritario” della cultura occidentale.

«Il paradigma della cultura occidentale è che le persone siano essenzialmente pericolose; per questo devono ricevere un insegnamento, essere guidate e controllate da quelli che hanno maggiore autorità. Eppure la nostra esperienza, e quella di un numero sempre crescente di psicologi umanisti, ha mostrato che un altro paradigma è di gran lunga più efficiente e costruttivo per la società e per l’individuo. È quello per cui, fornita di un appropriato clima psicologico, la specie umana è degna di fiducia, creativa, auto motivata e costruttiva – capace di dare sfogo a potenzialità mai sognate» [9].

Il rischio di un rapporto di dipendenza e di fusione tra terapeuta e cliente – soprattutto in soggetti affetti da disturbi di tipo narcisistico [10] – a partire da una imitazione/confluenza di tipo manipolatorio-deresponsabilizzante, rispetto allo spettro ermeneutico del terapeuta – che “filtra” inevitabilmente le parole e i comportamenti del cliente – viene di fatto ridotta al minimo nel Counseling. Infatti, pur non negando l’influenza della dimensione del passato sul presente e sul futuro del soggetto, né l’importanza della componente inconscia della psiche, il Counseling si struttura secondo una dimensione relazionale di tipo comprensivo piuttosto che analitico – una comprensività che si sviluppa a partire dalla dimensione presente della relazione di aiuto. Pur avvalendosi di determinati strumenti ermeneutici, l’attenzione pressoché costante alla dimensione attuale del qui ed ora e alle modalità coscienziali di strutturazione del mondo e dell’esistenza del soggetto, evita il riduzionismo ermeneutico classico di tipo psicoanalitico: il Counselor non giudica né interpreta, ma ascolta e chiarifica accompagnando ciò che emerge da sé, nella luce della consapevolezza del soggetto, dalle ambiguità del caos e dal mistero del dolore.

Una delle critiche più importanti di Bowlby alla psicoanalisi, si concentra proprio sul dogmatismo e sull’autoritarismo della psicoterapia psicoanalitica, e sulle possibili dipendenze intrinseche a un rapporto terapeutico fondato su tali strutture:

«Non c’è dubbio che nel suo lato peggiore la psicoanalisi può degenerare in un verboso dar voce a formule stereotipe da parte di un analista onnisciente, che, davanti al dolore e alla complessità della sofferenza, offre alcune certezze, per quanto strampalate, a un paziente confuso che non ha altra scelta che quella di attaccarsi al primo appiglio che gli viene offerto. L’inesorabile interpretazione del transfert può ipoteticamente aprire il paziente ad aree di regressione e di dipendenza che rendono queste interpretazioni profezie autosufficienti» [11].

In questo senso la continuità vitale del rapporto tra cliente e terapeuta, garantita dalle tre condizioni “relazionali” che permettono la mobilitazione del processo di cambiamento – congruenza, accettazione incondizionata ed empatia [12] – cortocircuita la rigidità ermeneutica in cui rimane ingabbiata la psicoanalisi classica, all’interno della quale il terapeuta si arrocca per mantenere un presunto, necessario distacco obiettivo dal paziente. L’alienazione rispetto alla soggettività più propria, in favore di una ermeneutica aprioristica rispetto alle condizioni, le esigenze espresse al presente e alla visione globale del mondo del paziente – che rappresenta una fonte vitale di senso e di significati molteplici –  rischia di produrre una alienazione “a due”, relativamente alla quale né il paziente né il terapeuta stesso potrebbero saper districare i termini utili in grado di segnare il confine tra verità e interpretazione. Il terapeuta può subordinare la specificità e la totalità della propria persona (e del paziente ovviamente) alla visione interpretativa in nome di una presunta obiettività [13], ma a discapito, paradossalmente, della soggettivizzazione della verità profonda e personale del paziente, che l’obiettività stessa cerca di intercettare e di portare a emersione; il paziente – dal canto suo – rischia di precipitare dalla propria visione del mondo in quella del proprio terapeuta, a partire da un impellente desiderio di salvezza, da una parte, e dall’altra in virtù del riconoscimento della propria inferiorità rispetto al proprio terapeuta, che implicitamente non lo riconosce come un suo pari, nel momento in cui si aggancia a una verità interpretativa che viene “prima” della soggettività del paziente, e del suo stesso esercitarsi comunicativo e relazionale.

Fondamentale in questo specifico discorso, è la parte svolta dal dolore all’interno della relazione di aiuto. Come suggerisce la splendida analisi di Salvatore Natoli, il dolore, in quanto segno di una insufficienza, di una mancanza, del rapprendersi delle possibilità esistentive del soggetto, rappresenta il negativo: il dolore cioè, in quanto circoscrive determinandoli i limiti della soggettività – attraverso l’azione sottrattiva rispetto alle potenzialità progettuali dell’uomo – si fa parente prossimo della morte, diviene cioè, in senso trasfigurativo, simbolo della morte stessa. Ma se da una parte il dolore rende possibile l’individuazione attraverso il circoscriversi dei limiti della persona, aprendo quindi il soggetto alla propria autenticità, dall’altra la sofferenza congela l’individuo nell’incomunicabilità del suo stesso dolore, che gli appartiene in modo così profondo e specifico rispetto alla sua persona, da segnare il confine tra e l’altro, tra l’io e il mondo, all’interno di una subordinazione alienante rispetto al mondo stesso e all’Altro. Ma, ulteriormente, affondando le sue radici nelle profondità e nella specificità delle persona umana che ne sperimenta il peso, il cuneo lacerante, proprio per questo il dolore apre la strada alla inutilità e alla impossibilità della comunicazione: il soggetto del dolore subisce uno scollamento esistenziale, nel momento in cui alla impossibilità di non poter comunicare la propria esperienza di dolore (il corpo stesso la esprime), segue la consapevolezza dell’impossibilità di poter comunicare autenticamente, intimamente, direttamente, la specificità dell’esperienza del proprio dolore all’altro. È all’interno di questa aporetica esistenziale che il dolore diviene un urlo senza voce – ed è in questo senso che, paradossalmente, la dimensione del silenzio diventa portavoce di una comunicazione autentica rispetto alla incomunicabilità del dolore. Il Logos mistifica dunque la soggettività specifica dell’esperienza del dolore, da una parte, per chi ne sperimenta l’azione lacerante; dall’altra, in quanto esperienza personale in senso radicale, il dolore, se comunicato all’altro, subirebbe il tradimento di questa stessa specificità, in quanto dolore proprio e non dolore altrui [14]. Ne consegue dunque in questo specifico discorso, che il duplice tradimento intrinseco alla dimensione comunicativa dell’esperienza del dolore, diviene addirittura triplice se il dolore viene implicitamente o addirittura dichiaratamente interpretato: aumenta il senso di questo tradimento da parte dell’altro che ascolta, e quindi c’è il rischio di un’allontanarsi di sé dall’altro; dall’altra parte, tuttavia, se il dolore viene ascoltato passivamente nel momento in cui ha luogo lo sforzo comunicativo dello stesso, aumenta la sensazione e la convinzione della inutilità della comunicazione, e il senso della propria solitudine.

Tra l’incomunicabilità e la chiusura in se stessi rispetto alla propria esperienza di dolore, e il possibile tradimento interpretativo del soggetto che ascolta, forse, allora, l’unica scorciatoia perseguibile rimane l’esperienza stessa: la riduzione della comunicazione e dello scambio relazionale alla dimensione esperienziale, vissuta da entrambi i soggetti nella relazione d’aiuto. Il soggetto del dolore può riarticolare simbolicamente il proprio vissuto straziante, ripercorrendo l’esperienza del proprio dolore attraverso e nella esperienza dell’incontro con l’altro, che empatizza il suo stesso dolore, lo accetta incondizionatamente e autenticamente per il tramite della sua stessa persona, delle sue stesse emozioni, del suo stesso corpo: solamente la condivisione del dolore per il tramite dell’esperienza vissuta permette l’uscita dal tradimento del Logos e dell’interpretazione ortodossa, e l’incontro comunicativo con l’altro. Dice infatti Rogers:

«La conoscenza dei fatti che abbiamo a disposizione indica che il grado in cui il cliente sperimenta certe qualità nel suo rapporto con il terapeuta ha un’influenza essenziale sul cambiamento» [15].

A partire dal paradigma della relazione di aiuto di Maslow dunque, secondo il quale nel sostegno all’altro bisogna “lasciar essere aiutando”, possiamo dire allora che il Counselor si configura come una professione d’aiuto che, nella sua modalità generale d’approccio di tipo non direttivo, non “strumentalizza” il soggetto: non lo indirizza cioè verso il perseguimento delle operatività stesse del professionista, né cerca al tempo stesso di uniformare alla propria l’altrui visione del mondo. Soltanto su questa base risulta chiaro che è possibile l’instaurarsi di quel clima di accettazione, che rende il soggetto capace di sganciarsi responsabilizzandosi dalla cosiddetta figura “paterna” incarnantesi solitamente nel terapeuta – infatti:

«Non può esistere un’atmosfera di complessa accettazione quando il rapporto è autoritario» [16].

Non per questo il rapporto di aiuto, come è stato detto, si risolve in un laissez-faire: ma, secondo l’assunto rogersiano della cosiddetta tendenza attualizzante, che viene favorita all’interno di un clima facilitante, vengono lasciate emergere le capacità intrinseche – ma inespresse – della persona umana, le sue potenzialità di risoluzione dei problemi, le sue risorse personali in grado di ristrutturare il suo universo esistenziale.

Ricapitolando:

1) La visione del soggetto umano inteso come una persona in grado di autodeterminarsi, consapevole di sé e delle proprie possibilità di adattamento creativo: un individuo concepito come una totalità irriducibile e sempre riemergente, rispetto alla gettatezza in cui momentaneamente questi ristagna.

2) Il rapporto paritetico tra terapeuta e cliente all’interno di un clima facilitante e non implicitamente “obbligante” da un punto di vista della relazione d’aiuto (a maggior ragione chi chiede aiuto si trova già in una condizione psicologica di inferiorità, in virtù appunto del dolore stesso).

3) La modalità eminentemente non interpretativa e non giudicante del Counseling – che tuttavia riconosce l’importanza del periodo “infantile” dell’uomo – non ripercorre ermeneuticamente, genealogicamente, la biografia umana del soggetto bisognoso di aiuto, ma cerca di favorire nella persona l’integrazione dei conflitti sentimentali ed emozionali, delle istanze di bisogno sociale e lavorativo, la molteplicità confusionale dei desideri e l’aporetica dei progetti futuri, in cui si trova impigliato il soggetto.

Questi tre elementi caratteristici dell’universo di senso del Counseling e della relazione di aiuto propria dello stesso, permettono o quantomeno favoriscono l’uscita dalla gerarchizzazione del rapporto terapeutico, e di conseguenza dalla polarità “up-down” in cui potrebbero trovarsi confinati i soggetti di tale rapporto.

Si potrebbe concludere, rispetto a quanto detto sull’autorità terapeutica, il rischio dell’imbuto ermeneutico e della spersonalizzazione di entrambi i soggetti nella relazione d’aiuto, con uno dei più grandi paradossi creativi con il quale ogni terapeuta deve confrontarsi ogni giorno all’interno del setting:

« […] per migliorare la propria comprensione della persona il terapeuta deve sottoporre le proprie convinzioni più appassionate alla verifica impersonale della ricerca, ma deve poi, per operare efficacemente, utilizzare le conoscenze così acquisite solamente per arricchire la propria persona ed essere, con grande libertà e senza timore, se stesso nella relazione con il cliente» [17].

NOTE:

[1] C. G. Jung, L’inconscio, tr. it. di E. Tetamo, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1999, p. 60.

[2] C. R. Rogers, La terapia centrata-sul-cliente, tr. it. di F. Carugati, Ed. Giunti, Milano, 2013, p. 109.

[3] F. Nanetti, Counseling ad orientamento umanistico-esistenziale. Pluralismo teorico e operativo nella formazione integrata alla comunicazione efficace in ambito clinico, educativo, familiare e professionale, Ed. Pendragon, Bologna, 2009.

[4] F. F. Aversa, S. Mangano, E. Marolla, R. Silverio, Il counseling filosofico, Ed. Sovera, Roma, 2012, pp. 43-78.

[5] C. Odier, L’angoscia e il pensiero magico, tr. it. di J. M. Fia, Ed. Giunti-Barbera, Firenze, 1975, p. 6 e sgg.

[6] S. Ginger, Iniziazione alla Gestalt. L’arte del con-tatto, tr. it. di M. Sassone, Ed. Mediterranee, Roma, 2005. p. 142.

[7] A. H. Maslow, Verso una psicologia dell’essere, tr. it. di R. Pedio, Ubaldini Editore, Roma, 1971, p. 50.

[8] C. R. Rogers, Un modo di essere, tr. it. di M. Bonacci, Giunti Editore, Milano, 2012, p. 94.

[9] Ibidem, p. 208.

[10] H. Kohut, Narcisismo e analisi del sé, tr. it. di S. A. Tatafiore, Ed. Bollati Boringhieri, Torino, 2010.

[11] J. Holmes, La teoria dell’attaccamento. John Bowlby e la sua scuola, tr. it. di S. Federici e G. Nebbiosi, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1994, pp. 137-138.

[12] C. R. Rogers, La terapia centrata-sul-cliente, op. cit., pp. 85-102.

[13] «Limitarsi alla considerazione dei comportamenti osservabili dall’esterno, escludere la considerazione di tutto l’universo dei significati personali, degli scopi, dell’intimo fluire dell’esperienza, è stato come chiudere gli occhi di fronte ai grandi spazi cui ci si trova di fronte quando si guarda al mondo dell’uomo. Sostenere inoltre, come molti comportamentisti fanno, che la scienza, è impersonale, che la conoscenza è un’entità, che la scienza procede senza che la persona dello scienziato vi sia implicata, è credo, completamente illusorio». Ibidem, p. 317.

[14] S. Natoli, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Ed. Feltrinelli, Milano, 2006, pp. 7-47.

[15] C. R. Rogers, La terapia centrata-sul-cliente, op. cit., p. 101.

[16] C. R. Rogers, Psicoterapia di consultazione, tr. it. di J. Sanders, Ed. Astrolabio, Roma, 1971, p. 105.

[17] C. R. Rogers, La terapia centrata-sul-cliente, op. cit., p. 237.

* Omar Montecchiani è nato a Orvieto (TR) il 02/08/78 ed abita a Todi (PG). Dopo essersi laureato in filosofia [La nascita della tragedia nel confronto tra Nietzsche e Schopenhauer] ha conseguito il Master (ECM) di primo livello in disturbi del comportamento alimentare [L’anoressia mentale e la pulsione di morte]. È Counselor professionista ad orientamento gestaltico integrato.

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