> di Daniele Baron
«Con gli occhi che si spegnevano K. vide ancora come, davanti al suo viso, appoggiati guancia a guancia, i signori scrutavano il momento risolutivo. “Come un cane!”, disse, fu come se la vergogna gli dovesse sopravvivere»
F. KAFKA, Il Processo, Garzanti, Milano 1995, p. 187.
Sembra impossibile pensare alla morte in condizioni normali: non vogliamo soffermarci su ciò che oltremodo ci fa soffrire, ci sgomenta, ci fa paura e che sembra il contrario di tutto ciò che vogliamo e desideriamo. Spesso si è data una rappresentazione falsata della morte, oppure si è cercato di nasconderla alla vista ed alla coscienza e, se forzati ad affrontarla, ci si è affidati al rito ed alla fede. Ai giorni nostri c’è stata talvolta una spettacolarizzazione della morte ed al necessario silenzio che sempre accompagna quei momenti si è sostituito un ipocrita applauso: non solo nei casi di morte per la patria, ad esempio, ma anche per la morte di persone innocenti; si capiscono il dolore, lo sgomento, la rabbia, il mancamento, ma perché applaudire se non per risolvere l’angoscia in comode giustificazioni? Nel corso della storia, poi, il suicidio è stato a torto quasi unanimamente condannato; il suicida è stato trattato come un peccatore, uno che di fronte alle difficoltà della vita ha scelto una via comoda per non assumersi responsabilità. Possiamo leggere questa condanna come un non volere indagare sulle vere ragioni che spingono una persona a quel gesto tragico.
Pertanto, il comun denominatore dei comportamenti davanti alla morte, soprattutto nella società contemporanea, è la fuga, ma se il pensiero vuole essere autentico deve affrontarla: essa non può non essere tematizzata, è forse “IL” tema per eccellenza per comprendere e misurare il nostro essere al mondo.
Inutile ricordare che il culto dei morti e le sue modalità di svolgimento sono elementi centrali nelle civiltà, sono importante oggetto di studio antropologico e che la morte è ciò su cui la religione e la filosofia hanno a lungo riflettuto. E’ evidente il motivo di tale interesse: la nostra condizione è mortale, una delle poche certezze della vita, o forse l’unica, è che ha una fine inevitabile.
Cos’è che sconcerta così tanto nella morte al punto che preferiamo evitarne il pensiero?
Quello che ci pare assodato come esperienza comune è che, a dispetto di ogni credenza in una qualche forma di vita dopo la morte, nell’aldilà, la morte, nostra e delle persone che ci stanno intorno, sia un pensiero angoscioso. Sotto questo aspetto di immediato sentire non fa differenza essere credente o ateo, pensare che con essa tutto svanisca nel nulla o che ci siano l’Inferno o il Paradiso o l’Ade o qualsiasi altro mondo ultraterreno.
Qual è la prima caratteristica della morte? Possiamo partire ad interrogarci dalla visione di un cadavere; a tutti è capitato di entrare in una sala obitoria e di vedere un cadavere. Ciò che colpisce nel cadavere è la freddezza, il pallore e la fissità, il fatto che sia un oggetto come tutti gli altri, la sua estraneità. Il cadavere, a differenza dell’uomo vivente che era prima di spirare, è immobile, non ha più presa sul mondo, non ha più un mondo. Per contrasto, qui vediamo qual è la caratteristica essenziale dell’uomo: la sua luce interiore, quella per cui l’uomo ha un mondo, in cui l’esistenza si consuma in mille azioni, aspirazioni, ambizioni, speranze, ricordi, ecc. L’essere al mondo è avere un mondo. Ciò significa trascendere la realtà di fatto, data, verso il futuro: l’uomo è per essenza progetto. Allora il cadavere è la negazione e l’opposto di tutto questo, rapporto esterno ed estraneo con le cose nel mondo. A questo punto, si può dire che la morte fa sì che l’essere progettante, l’uomo, sia ridotto a puro oggetto passivo, che la luce interiore si spenga per sempre, che il progetto di fondo, costitutivo dell’uomo, fallisca per sempre. Mentre prima di morire ogni cedimento, ogni ruga, ogni inceppamento, veniva ripreso e superato, ogni debolezza veniva spiegata, filtrata da propositi di miglioramento o pensieri di giustificazione, il passato stesso era intenzionato nella interpretazione del ricordo e diventava o nostalgia o motivazione al cambiamento, la malattia era giustificata dalla speranza della guarigione; ora invece c’è la disfatta, l’inerzia totale di fronte all’azione del tempo.
La morte pertanto è chiusura assoluta e tragica dell’apertura che era cominciata con la vita: chiusura del mondo, interruzione definitiva del movimento costitutivo di trascendenza dell’uomo. E’ assoluta nel senso di assolutamente inspiegabile con gli strumenti che abbiamo a disposizione e nel senso di irrimediabile.
Se l’intera esistenza è dunque progetto, allora essa deve avere un senso causato dall’orientamento dell’insieme delle azioni, dei sentimenti, dei pensieri, che si compongono in una totalità posta alla base dell’apertura dell’essere al mondo. Il senso è la giustificazione dell’esistenza e viene pensato come raggiungibile, in parte, già qui su questa terra; tuttavia, vista la limitatezza dell’uomo e delle sue condizioni di vita, il senso troverà il suo pieno compimento in totalità solo nell’aldilà. A fondamento della totalità del senso sulla terra deve stare l’identità del soggetto che si pensa possa continuare a vivere, a esserci, sotto altra forma anche dopo la morte: senza questi elementi non è possibile concepire il progetto come coerente e dotato di senso. La morte è proprio la negazione di questa totalità di senso. Di fronte alla morte ci chiediamo non a caso: «Ma che senso ha la vita dal momento che termina con la morte?» e non per avere una risposta, ma solo per esprimere la nostra angoscia e lamentarci della nostra condizione, perché è chiaro che la morte è la perdita assoluta del senso come totalità e distruzione di senso. Ecco cosa ci terrorizza in essa, il fatto che contraddice il nostro essere al mondo, il nostro progetto: è un impossibile che diventa reale; noi progettiamo la nostra esistenza a partire da possibilità che vengono realizzate in modo più o meno concreto, la morte invece è una impossibilità che accade. Ciò significa che la morte è negazione dell’identità del soggetto come fondamento di senso e negazione dell’aldilà come condizione della realizzazione completa del senso-totalità.
L’uomo di fronte alla probabilità, che la coscienza della morte tramuta in certezza, che il senso non stia nell’identità dell’io o nel mondo ultraterreno, vuole almeno che la morte sia qualcosa di più che un accadimento fortuito o un banale incidente, tenta di pensare alla morte come compimento. Ciò risulta chiaro da alcune esperienze note: il fatto di voler concepire la fine come il fine della esistenza; ad esempio, nella esaltazione della bella morte: morte in circostanze eroiche, morte per ideali; oppure, altro esempio, nel mito delle parole in punto di morte: a lungo si è pensato che le parole pronunciatee prima di spirare debbano condensare in sé il succo dell’intera esistenza, inverare l’intera vita; esistono molti esempi ed aneddoti di personaggi storici che in punto di morte avrebbero pronunciato parole decisive, che ne svelavano una volta per tutte il carattere, parole memorabili o verità lapidarie. Da questi elementi risalta in piena luce il desiderio umano che la morte non sia un’insensata impossibilità, ma il fine della esistenza, il suo perfetto compimento. Nella realtà, invece, la morte accade spesso all’improvviso e in modo banale. La nostra condizione è ben raffigurata dal finale formidabile de Il Processo di Kafka, dove il protagonista K. senza alcuna spiegazione che giustifichi la sua condanna a morte (spiegazione che egli ricerca per l’intero romanzo) viene ucciso «come un cane». La rivelazione finale del romanzo è uno choc che dovrebbe far riflettere chi cerca una giustificazione alla morte. E’ vero che con la morte la vita ha compimento, ma mai il compimento desiderato o sperato. Ecco il destino che la bella morte e le parole in punto di morte vogliono mascherare!
L’assoluto inspiegabile che è la morte fa sì che essa stia in rapporto ben più stretto di quanto si pensi o ammetta con il suo opposto: la vita. C’è una stretta fratellanza tra vita e morte che il senso comune non vuole vedere: anche la vita nella contingenza e inspiegabilità della sua apertura è assoluta e di fatto. Il senso comune ha bisogno di poggiare l’esistenza su alcune certezze, una delle più tenaci è che la vita sia opposta alla morte; a tal fine s’ingegna a creare l’identità fittizia dell’io o dell’anima, a fantasticare di mondi oltre la morte, luoghi in cui trionferà il bene, in cui potremo ritrovare chi abbiamo perso e così via, mentre è chiaro che la morte non è sereno trapasso del nostro io verso un’altra forma di vita, ma angosciante chiusura assoluta che sperimentiamo già nella vita, rottura dell’identità dell’io che è destinato a non durare. Il tragico che l’accompagna non è dissimile da quello che presiede alla vita, che può essere definita, infatti, istintiva ed ostinata presenza priva di qualsiasi spiegazione.
Accettare l’accadere dell’impossibilità della morte significa accettare la correlativa gratuità dell’esistenza.
Ecco la verità tremenda ed al tempo stesso sublime della nostra condizione, che i più non vogliono vedere! Questa verità è svelata dal sentimento di angoscia che tutti proviamo e non è di poco conto, perché ci permette di capire che la vita è già da subito pericolo di morte e, viceversa, che il sentimento della morte può rinvigorire la vita e renderla autentica: l’intensità dell’esistenza, la sua potenza, non consiste forse nel fatto di essere effimera, mortale, finita, ed aver come destino quello di infrangersi come un’onda? Solo la fratellanza tra vita e morte è alla nostra portata, per cui tutto ciò che creiamo, conosciamo, costruiamo è destinato a finire e scomparire nel nulla. Perché ricorrere ancora alla finzione dell’eterno, quando un amore è grande, commovente, struggente, solo se ha l’oscura intuizione di dover necessariamente finire, solo se ha in sé già il germe della propria fine tragica? quando una vita è mirabile solo se non si arroga il diritto di aver fondato il senso una volta per tutte e si consuma pertanto nel molteplice del divenire delle proprie creazioni e sensazioni? quando una vita è eroica solo se guarda in faccia il proprio destino e affronta senza illusioni il viaggio con la consapevolezza del naufragio?
[Clicca qui per il pdf]
20 luglio 2013 alle 08:33
E’ chiaramente un tema di enorme difficoltà che richiede una sensibilità molto particolare. L’articolista dà un orientamento di massima, senza allontanarsi da una serie di eleganti luoghi comuni e affrontando qualche ipotesi ultra filosofica. Morte e vita sono due opposti inconciliabili e l’umanità da sempre cerca un nesso fra i due estremi. L’uomo ha inventato di tutto, dai miti, alla religione, rifugiandosi nella fantasia e nella trascendenza. Ha inventato l’iperuranio e il rinnovamento della specie, per cui la morte sarebbe indispensabile. Non ha risolto la drammaticità dell’evento in sé. Non si rende capace del passaggio traumatico. La morte non sembra affatto un viaggio di gioia verso chissà. L’intelligenza dell’uomo non è ancora all’altezza dell’evento in quanto questo evento appare terribilmente più basso del pensiero umano. Grazie a Baron per il coraggio di affrontarlo. Ma non credo sia riuscito a liberarci dall’angoscia, da quella vera, di fondo, da quella che nessuna parola riesce a rimuovere. Si ricordi l’aspirante filosofo che è così da sempre, da millenni, non si disperi se è riuscito, per lo più, ad allineare un sacco di belle parole e di bei concetti.
20 luglio 2013 alle 11:42
Grazie a lei Dario Lodi per la lettura. A dire il vero, non intendevo esaurire un argomento così vasto in un articolo, né cercare di esorcizzarlo tramite belle parole o luoghi comuni filosofici. Soprattutto non era mia intenzione liberare dall’angoscia e anzi nel mio scritto sottolineo come il sentimento sia affatto essenziale e come proprio la volontà di soffocare l’angoscia sia inautentica. Il mio scopo, non so se riuscito completamente, era di rendere conto di un’esperienza e del suo senso: di come la morte (il sentimento di essa per essere più precisi) sia l’impossibile rispetto al normale modo d’essere progettante dell’uomo, di come la distruzione di senso della morte comporti una nuova consapevolezza: il legame profondo tra vita e morte, il venire meno dell’io o della persona come apertura di un nuovo pensiero. Mi rendo conto che da questa intuizione debbano discendere tutta una serie di conseguenze filosofiche. E’ precisamente ciò che voglio sviluppare prossimamente.
Un caro saluto
Daniele
20 luglio 2013 alle 09:15
In effetti l’Ego è l’oggetto più testardo dell’universo, hai ragione su tutta la linea, tanto che in effetti, quelli che riescono a vivere intensamente, con la consapevolezza che c’è un grande buio che ci aspetta, son quelli che al buio si sono accostati già di un palmo in vita.
20 luglio 2013 alle 11:55
Grazie AlexG per esserti soffermato. Hai colto a mio avviso il punto centrale dell’argomentazione. La tragica apertura della morte all’impossibilità è ciò che più di ogni altra esperienza può renderci consapevoli dell’impersonale sotteso alla nostra esistenza e della finitezza e soprattutto falsità dell’Io.
Daniele
20 luglio 2013 alle 11:32
La morte è uno stato naturale, lo stato ultimo di equilibrio di un sistema, l’assestamento naturale di un ciclo di vita e relativa funzione attiva. L’uomo è un sistema complesso che si compone di sottosistemi interconnessi e dunque ciò che chiamiamo vita, rappresenta la dinamicità del sistema, variabile nel tempo e soggetto a disturbi prevedibili e imprevedibili che vanno ad integrarsi nel modello. Ogni sistema dinamico per legge fisica, a meno che non sia un modello ideale tale per cui è possibile ipotizzare il non esaurimento o comunque trasformazione della sua dinamica in esaurimento (vedi l’astrazione data dal modello del moto perpetuo), tende ad uno stato di equilibrio, dato solitamente da una condizione detta “di riposo”. La morte cos’è? Uno stato di equilibrio semplicemente, lo stato ultimo e irreversibile, irreversibile com’è tutto l’universo nelle sue trasformazioni. L’angoscia, in morte ed in vita credo sia data dalla consapevolezza dell’irreversibilità che caratterizza ogni processo, difficile da affrontare ed accettare per l’uomo che da sempre tende al possesso, al controllo, alla grandezza, al dominio, a quel suo stato di equilibrio ideale così impossibile. Grazie per questo articolo, molto bello. Ho parlato da matematica quale sono.
20 luglio 2013 alle 16:37
Grazie Mezza Notte, ho letto con piacere questa suggestiva traduzione secondo le leggi della fisica del mio scritto. Suonerà strano, ma hai incarnato così il mio sogno – forse il sogno di ogni filosofo soprattutto per un certo periodo storico passato, ma anche in certi filoni di filosofia coeva – di riportare alle formule matematiche e logiche ciò che il discorso e il ragionamento dice. Sogno che va di pari passo con il contrario desiderio di trarre metafore o modelli di spiegazione dalle scienze naturali e dalla matematica.
Sottolineo questo passaggio: c’è un modello ideale di spiegazione, astratto, che tende a nascondere l’equilibrio come stato naturale della morte. E’ importante comprendere perché l’uomo provi il bisogno di un modello ideale e perché cada in preda all’angoscia una volta che esso è smentito in un caso limite come la morte; come funzionino il sentimento ed il pensiero umani in questa particolare situazione. Non per intenderli a livello psicologico, ma a livello esistenziale ed ontologico.
Un caro saluto
Daniele
22 luglio 2013 alle 08:05
In nessun modo riusciamo a concepire la morte come evento naturale e questo articolo ne spiega benissimo le motivazioni: la vita è la manifestazione di infinite possibilità, la morte incarna l’impossibilità, l’impossibile non è pensato, anzi il senso dell’immortalità è ciò che il nostro pensiero produce incessantemente per tenerci in vita e per giustificare persino il dolore.
Grazie.
23 luglio 2013 alle 22:00
Grazie Maria Grazia per la lettura che coglie pienamente il senso di ciò che volevo sostenere in questo articolo. L’impossibile è senz’altro un limite per il nostro pensiero. Ecco perché, come ogni limite, merita di essere pensato pienamente. Questo potrebbe essere il compito del pensiero filosofico: pensare sul limite.
Un caro saluto
Daniele
29 luglio 2013 alle 16:26
Grazie per la considerazione inaspettata, pensare sul limite, però, è cosa difficilissima, terreno forse riservato solo ai filosofi poeti cui spetta il compito di educare l’umanità tanto corrotta da anni di false verità che inneggiano all’immortalità. Già 170 anni fa, il più grande speculatore dell’animo umano, Leopardi, pensava sul limite ma le sue idee furono fortemente contrastate ed ancora oggi, nelle scuole viene descritto come il poeta pessimista che odia la vita e parla solo dell’impossibile; straordinari sono invece i versi dello Zibaldone dove pensa sul limite:
“Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, né l’altezza e nobiltà dell’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli considerando la pluralità de’ mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo ch’è minima parte d’uno degl’infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente sentendola e intentamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero dell’immensità delle cose, e si trova quasi smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la quale, rinchiusa in sì piccolo e menomo essere, è potuta pervenire a conoscere e intender cose tanto superiori alla natura di lui, e può abbracciare e contener col pensiero questa immensità medesima della esistenza e delle cose”.
Un carissimo saluto e grazie.
8 ottobre 2013 alle 09:10
Straordinario questo piccolo ma profondissimo articolo.
E, tra l’altro, nemmeno tanto scontato.
Ottimi anche i commenti, tra i migliori mai letti da me, tranne il primo mi si permetta.
Desidero far presente che i millenni di interrogazioni filosofiche su questo (e tanti altri) argomento, sembrano non aver fatto raggiungere niente perchè l’uomo tende a dimenticare la storia ed i suoi insegnamenti.
Dimentica le sue parole come quelle degli altri.
E’ un continuo ricominciare daccapo, anche tra i filosofi.
La morte, via dicendo, ed il suo significato ultimo con relative implicazioni è conoscibile proprio soltanto da coloro che vi si sono avvicinati e sono tornati indietro per raccontarlo a se stessi per prima cosa.
Coloro che inventano (iperuranio e compagnia) probabilmente non hanno mai sostato sulla soglia di quel limite estremo.
Soltanto chi lo ha fatto può capire, ecco perchè i Filosofi non riescono a farsi capire da tutti, anche se tutti pretendono di capire.
Avere coraggio non significa non aver paura, un “salto nel vuoto” farebbe paura persino ad un Dio.
Bellissime le parole del nostro Leopardi.
LexMat
http://lexmat.blogspot.it/
8 ottobre 2013 alle 09:51
Una volta messo il chiodo al muro, appicchiamo pure il quadro, e messo dritto, non stiamo sempre lì a vedere se si sposta.
Ognuno di noi può darsi una sua spiegazione personale e vivere e morire contento.
Siamo come gli uomini palla del discorso di Aristofane.
L’importante è ruzzolare insieme con serenità anche se verso la fine.
Radiguet insegna:
“Considerare la morte con salma conta solo se la si considera in solitudine.
La morte in due non è più la morte, anche per gli increduli.
Ciò che affligge non è lasciare la vita, bensì lasciare la persona che le dà un senso.
Quando un amore è la nostra vita, che differenza c’è tra vivere insieme e morire insieme?”
LexMat
8 ottobre 2013 alle 22:07
Grazie infinite LexMat per le sue interessanti considerazioni e il giudizio lusinghiero sul mio articolo.
Come ha ben sottolineato è un continuo cominciare da capo. Forse il pensiero e il sentimento della morte sono il cominciamento per il pensiero; mettono, infatti, il soggetto di fronte alla radicale impossibilità di un evento che si realizza, illuminano la condizione umana. Il progresso della conoscenza oggettiva, il sapere, la tecnica, nulla possono di fronte a questo sentimento arcaico, “intimo” (non uso il termine soggettivo, perché farebbe pensare al soggetto, all’io, mentre qui si è nel campo dell’impersonale) dell’angoscia di fronte alla morte come rivelazione di un impossibile che si realizza e contemporaneamente della gratuità dell’esistenza. Questo sentimento non è solo paralizzante, ma anche collegato con la libertà profonda del singolo.
Un caro saluto
Daniele
18 ottobre 2013 alle 09:29
La morte, come ebbe a dire un personaggio enfatico, è solo la fine di una vita. Fatto organico. La si vive come fatto organico molecolare ogni giorno. La si percepisce con l’età con esatta cognizione, ed è fatto. La morte considerandola fine della vita è la rappresentazione di una perdita, d’una singolarità. La vita continua altrimenti. Progredisce in quel “progetto” condiviso. La vita di un uomo è esclusivamente progettuale ed è su questo che si proiettano le domande. I quesiti di un uomo. Dal mio modo di vedere la vita ha beneficio d’un progetto.
Il punto è nella potenza. E benché questa è motore di qualsiasi progetto o divenire, inevitabilmente è anche destinata ad essere sottomessa al “potere” quel potere che disumanizza la mia essenza di uomo, arretra la mia singolarità per un uso affatto condiviso, ma a favore di un sistema, comunità al potere. Sistema sociale. La morte sociale di un uomo, le paure, tutti gli affanni sono la negazione della sua individualità, della sua potenza e la sua inconcludenza è metafora alla potenza alienata.
Ho riletto con piacere e dopo molto scrivo qui una mia nota.
19 ottobre 2013 alle 22:27
Grazie Michele per la tua lettura e per la tua nota che, allargando il discorso a livello sociale, aggiunge un’interessante spunto di riflessione nella differenza tra potenza e potere. Condivo la dicotomia che hai rilevato tra questi due modi di declinare la progettualità dell’uomo.
Un caro saluto.
Daniele.
22 ottobre 2013 alle 10:20
Grazie, della risposta. Ho voluto solo rilevare che, la morte nell’esperienza quotidiana, è semmai nozione organica: -tutto si aliena in favore di “ella”- (la morte). Curioso è, che in un’affermazione scientifica di psicoanalisi del profondo, l’inconscio (con il metodo dell’immaginazione attiva, Jung) interrogato sulla morte, questo non risponde. Per l’inconscio la morte è dato sconosciuto, non esiste, fatto interessante e chiarificatore. Il metodo dell’immaginazione attiva è pratica psicoanalitica poco usata in Italia per retaggi culturali, comunque se ne comprende il senso che diamo all’immortalità dell’anima, l’anima naturalmente altro non è che l’inconscio collettivo.
Più che della morte i nostri affanni sono dovuti alla fine della potenza, uso questo termine per indicare quello che ci è dato fare in vita, e questo, con particolare attenzione agli affectio e affectus spinoziani ( http://www.webdeleuze.com/php/texte.php?cle=13&groupe=Spinoza&langue=4 ).
27 ottobre 2013 alle 16:18
Faccio alcune osservazioni: 1) Tu fai presente che la morte, com’è evidente, è la chiusura di ogni prospettiva per cui suscita l’angoscia del “nulla” o del “mai più” e fa della vita per definizione una tragedia in senso classico (inizia con una festa e termina con un pianto). Però ci ricordi che la morte è il compimento che rende autentica la vita: ogni rappresentazione ha bisogno della “calata del sipario” ed è per noi un riferimento indispensabile quando cerchiamo di dare alla nostra vita una trama di significato. Che razza di vita sarebbe se non avessimo di fronte la conclusione e non avessimo impresso nella mente il Memento Mori? Mia zia, trappista, mi viene a ricordare l’urgenza della vita suonando la campanella a ogni ora della notte. 2) Il piacere di leggere il tuo articolo sta nell’avere davanti agli occhi delle verità le quali, appunto essendo vere, in profondità tutti noi avvertiamo. Noto che il primo commento all’articolo è fastidioso e fra l’altro, indicando te come “aspirante filosofo”, utilizza il trucco di porsi su un seggio di superiorità. E’ chiaro che sei un filosofo (amico della conoscenza) per gli argomenti e per il modo in cui li elabori. Sei un filosofo anche per la tonalità della risposta perché io, grezzo come un bambino di campagna, avrei mandato affanculo l’interlocutore molto velocemente. 3) Non capisco il riferimento, qui sopra, alla morte come fatto biologico. O meglio: lo capisco, naturalmente, ma è del tutto secondario alla morte come evento mentale. Faccio un esempio. Un regista notoriamente sadico (non ricordo il nome) ha fatto un film sanguinario sul martirio di Gesù e il Papa (Ratzinger) si scomodò per dire “è proprio quello che accadde”. Quello è il martirio visto dallo spettatore, il suo tratto corporeo, ma quello che accadde davvero è solo il tumulto di emozioni che visse Gesù. Un altro esempio. Brancaleone si brucia camminando sui tizzoni e lancia grida belluine mentre un bonzo si dà fuoco e sta immobile perché è traslocato in un’altra dimensione. Lo dico, per concludere, con le parole di mia nonna buddhista: “La morte ha due volti. La morte è la carne fredda, l’orgia di vermi, l’urna di polvere. Questa è la morte che vedo. Questa è la morte degli altri. La morte che mi aspetta ha un volto diverso. La morte che mi aspetta non è che lo svanire del mondo nel sonno più vuoto. Qual è, allora, il vero volto della morte? È il volto che ha per me che la guardo o per me che la vivrò? La seconda prospettiva va oltre e dimentica la prima. Quel che vedo mi dice qualcosa solo perché lo metto a contatto con le mie sensazioni: il sangue mi commuove se è segno del dolore e mi lascia indifferente se penso che coli da un automa. Ecco dunque che la danza macabra viene solo ad annunciare la quiete che presto calerà dentro di noi. La morte non ha a che fare con la carne, i vermi, la polvere. Quello è il costume di scena che vestivo per gli altri. La morte sono io che mi dissolvo in un Vuoto del quale, nel silenzio, già ascolto gli echi.” G. R.
29 ottobre 2013 alle 15:58
Pensieri buttati là:
la morte determina una scadenza per un compito, è questo che ci mette il sale sulla coda.
Ma la maggior parte non se ne accorge e ne vede solo una fonte di dolore fisico, la vecchiaia.
Ma in realtà vecchi lo sono sempre stati, sono nati vecchi e sciocchi.
Già conosciamo cosa vi è dopo la morte, forse non sappiamo già cosa vi era prima della vita?
E’ questo per noi il nulla assoluto? Quello dei sensi.
Siamo una forma di vita, illusoria o meno, ma sempre “sognante”, che si è aggregata e che sparirà.
Sfruttiamo il momento che dal caos ci è stato donato per conoscere, accrescere e dare.
Ai nostri figli ed agli altri noi, Solitari e Solidali.
Se devo soccombere, che almeno il mio nemico subisca più danni possibili.
(da “Almuric” di R. E. Howard)