Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Il dogma del cogito e la libertà del silenzio

9 commenti

> di Erika Ranfoni*

L’uomo esiste. Questo è un dato di fatto indiscutibile. Ciascuno di noi sente di esistere in un luogo e in un tempo. Ciascuno ha dunque la percezione chiara e distinta del proprio sé, ne ha coscienza. L’auto-consapevolezza è un sorta di postulato che domina tutta la nostra esistenza fin dal momento della nascita e nel corso dell’intera vita. Siamo posti e collocati nella grammatica del mondo reale fin dal principio come esseri capaci di leggerne i segreti più profondi perché dotati del fondamentale potere della percezione e del pensiero del proprio sé, potere che si erge come un a priori dogmatico e inconfutabile.

L’uomo nasce nel pensiero e attraverso la certezza del proprio sé legge la trama del mondo. Il pensiero, il cogito di tradizione cartesiana costituisce uno dei pilastri della cultura occidentale, inteso come atto fondativo dell’esistenza dell’uomo, che nella capacità di pensar-si riconosce la prova del proprio esser-ci. L’uomo pensa e dunque esiste in quanto è capace di produrre delle idee chiare e distinte. Il pensiero, in questa specifica ottica, è identificato con un’azione peculiare: quella della catalogazione e della classificazione degli eventi, sentimenti, delle azioni e relazioni nella catena della consecutio temporum. Un pensiero evidente, chiaro e distinto è tale se genera prevedibilità, se è ordinato in base a delle categorie e se consente a ciascun individuo di catalogare il suo essere gettato in uno spazio e in un tempo, in una catena di causa ed effetto. Ma possiamo affermare davvero che il pensiero/uomo sia riducibile unicamente a questa categoria del noto? Come non cogliere la grave conseguenza di un tale ragionamento? Questa logica stringente rischia infatti di degenerare in una legge dell’effettiva produttività, in base alla quale nel pensare, comunicare e stabilire relazioni significanti, è degno di senso solo ciò che produce qualcosa di tangibile ed evidente. Il cogito cartesiano, portato alle sue estreme conseguenze, rischia di identificarsi nella crudele legge dell’effettiva produttività, nella crudele concezione dell’uomo come essere degno di tale nome solo se produce qualcosa di catalogabile, classificabile e dunque controllabile. Il pensiero, in questa ottica, coincide con il dogma della certezza e in questa prospettiva il pensiero del sé è elemento sotteso, quasi scontato, all’esistere. L’uomo è già dato a se stesso come pensiero, come evidenza innata e pertanto nessuna domanda può scalfirlo, nessun silenzio può colmarlo. Da questa prima degenerazione deriva un’altra distorsione relativa al concetto di parola, associato a quello di suono. La parola è tale in quanto si sente, perché è possibile ascoltarla. Il suono è in realtà solo l’esito finale della parola stessa. La parola è molto altro. Essa è originariamente un’intenzione e un gesto. Il gesto dello scoprire, del porsi in relazione con l’elemento dell’alterità custodita in ciascun Io e in ciascun Tu. La parola è dunque un processo che ha nel pensiero il suo a priori. Il pensare non può dunque essere identificato solo con la produzione di concetti, esso nasce infatti dalla volontà della conoscenza, che altro non è che volontà di scoperta, gesto originario di ospitalità dell’altro da sé, lo sconosciuto, l’ignoto. Al fine di comprendere il concetto di conoscenza in tutta la sua complessità, è utile soffermarsi sulla riflessione del filosofo Michel Serres, il quale indaga l’originaria etimologia greca della parola episteme (conoscenza), in cui epi significa su, mentre istamai significa stare. Episteme, afferma Serres, indica nella arcaica lingua greca il cippo funerario: la lapide che emerge dalla terra e custodisce il corpo del defunto, la sacralità nascosta. Episteme, intesa come scienza e conoscenza razionale è ciò che sta su, che è chiaro, evidente e distinto solo perché ha qualcosa alla sua base, che non si vede, ossia ha alla sua radice un fondo di indicibilità e inconoscibilità. Questa prospettiva interpretativa sul concetto di conoscenza stravolge totalmente la concezione dogmatica del pensiero e pone in evidenza la centralità di un altro elemento: il silenzio. Il silenzio è infatti l’opposto della mancanza di parola e di pensiero, al contrario ne costituisce l’a priori, è l’indicibile che fonda il dicibile. Il silenzio è, mutuando un’espressione di Heidegger, la fonte dei nomi, ciò che non può essere detto ma senza il quale nulla si può dire. Il silenzio si configura come la genesi stessa della parola, intesa e concepita come volontà di significazione, volontà di accoglienza dell’alterità. Solo nel silenzio, nella presenza pura del proprio sé, quella che è quasi impossibile toccare e vedere, si può fare spazio all’altro. E’ unicamente in questo atto di ospitale volontà che vengono alla luce il pensiero e la parola. Il silenzio non è assenza del dire, ma suo atto fondativo necessario e ineliminabile. Il silenzio fonda il pensiero e la parola come gesti di relazione e conoscenza. Il silenzio è in realtà forma di radicale ed autentica presenza del pensiero per eccellenza: il pensiero incarnato che ciascun essere umano è. La caduta del dogma del cogito si configura come l’a priori dell’agire di ogni pratica filosofica, di ogni vita filosofica, in quanto non sarebbe possibile concepire la nascita e lo sviluppo di un divenire dialettico e trasformativo di un soggetto limitato dal suo stesso potere e dalla sua cecità di fronte a se medesimo. Ogni filosofia nasce da una scelta, da una decisione fondamentale: sospendere ogni giudizio definitivo, ogni paradigma definitorio, ogni certezza rassicurante. Il gesto filosofico nasce dal coraggio del tacere, dall’audacia del silenzio e dalla profondità del suo spazio indefinito e smisurato. Può apparire un paradosso accostare il concetto del tacere allo stile filosofico da sempre associato al dire. Il termine paradosso è in realtà quello più adeguato a questa associazione semantica dal momento che esso nella sua originaria etimologia greca indica ciò che va oltre la doxa, ossia oltre l’opinione comune. Una riflessione filosofica è sempre fondata sulla messa in atto di questo gesto, ossia sull’andare oltre ogni opinione e ogni luogo comune su cui essa si fonda per decostruirla, per comprenderla e capovolgerla. Ma ogni capovolgimento, ogni audace sconvolgimento del reale non parte sempre dal silenzio muto e devastante dell’incertezza e del dubbio? Ogni metamorfosi non nasce forse dalla coraggiosa e dolorosa libertà del non sapere? «La vita filosofica richiede infatti un cambiamento nel nostro modo d’essere, non è un’azione (mentale-fisica) che si aggiunge alle tante altre nostre azioni quotidiane. Si tratta piuttosto di mutare la nostra stessa presenza. (…) Il filosofico della vita ha il carattere della sospensione, che si concretizza nella vita esaminata, nella interrogazione; investe il campo della presenza attraverso le coordinate del tempo e dello spazio; si sviluppa attraverso il colloquio e può essere reso più ricco attraverso l’esercizio» [1]. Il gesto filosofico per eccellenza è dunque il pensare che nasce da un interrogativo radicale sul pensiero stesso, ossia la domanda di senso che il soggetto pone in relazione alla sua stessa presenza e che richiede come punto di partenza il coraggioso tacere di ogni certezza. L’abbandono di ogni atteggiamento dogmatico è un atto complesso, doloroso, perché comporta la perdita di ogni apparente determinatezza e chiarezza d’essere e di esistere, ogni certa presenza. La caduta di ogni forma di assolutismo ontologico relativo a convinzioni, idee, scelte, valori, è la premessa necessaria, l’incipit originario di una presenza, ossia di un modo d’essere e di pensare che voglia definirsi filosofico. La consapevolezza della a-dogmaticità dell’essenza del pensiero è in realtà la scoperta della vera e autentica natura dell’uomo, del suo essere un inesauribile divenire, un infinito cominciamento così come afferma Hannah Arendt: «E’ nella natura del cominciamento che di nuovo possa iniziare senza che possiamo prevederlo in base ad accadimenti precedenti. (…) Il nuovo si verifica sempre contro la tendenza prevalente delle leggi statistiche e della loro probabilità, che a tutti gli effetti pratici e quotidiani corrisponde alla certezza; il nuovo appare sempre alla stregua di un miracolo. Il fatto che l’uomo sia capace di azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile. E ciò è possibile solo perché ogni uomo è unico e con la nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo nella sua unicità» [2]. Pensare, alla luce di quanto detto, e soprattutto pensare filosoficamente significa vedere la realtà con gli occhi della meraviglia propria di ogni nuovo cominciamento, propria dell’unicità che ogni esistenza umana possiede come fondamento del suo poter sempre essere oltre se stessa.

[1] Stefano Zampieri, Introduzione alla vita filosofica, Mimesis, Milano-Udine, 2010, p. 36.

[2] Hannah Arendt, Vita Activa, Bompiani, 2004, p. 129.

* Erika Ranfoni (1978) opera come Docente di Filosofia e come Filosofo pratico nella realizzazione di percorsi di consulenza e formazione per privati ed organizzazioni. Nel 2004 consegue la Laurea magistrale in Filosofia presso l’Università degli studi di Lecce e nel 2007 inizia la sua esperienza professionale come docente di Storia e Filosofia nella scuola secondaria. Appassionata allo studio del pensiero e della mente nel 2011 consegue la Laurea in psicologia presso l’Università Internazionale Uninettuno e nel marzo 2012 l’abilitazione professionale come Dottore in tecniche psicosociali presso l’Università degli studi di Bari. Dal 2010 è curatrice di seminari di formazione e di studio nell’ambito dell’ethics of care e di percorsi di consulenza nell’ambito delle Pratiche filosofiche.

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9 thoughts on “Il dogma del cogito e la libertà del silenzio

  1. Ma il pensiero potrebbe ingannarsi per autoassoluzione e autoesaltazione. Il nulla potrebbe apparire un tutto per coinvolgimento nell’essere. L’essere potrebbe essere un’illusione doverosa, per eccessivo rispetto di sè. Le cose sono molto complicate e il bell’articolo mi sembra andare zigzagando fra formule, frasi fatte e sentenze. Tutto in buona fede e con bello spirito, sin troppo diluiti entrambi. L’articolo è troppo lungo e ripetitivo. Occorre, a mio avvio, usare più spesso il rasoio d Occam, anche a costo di tagliarsi. Contano i concetti, più delle parole. Acchiapparli non è affatto semplice. Tanto meno affidandosi al cerebralismo e alla convenzione. Filosofare non è assumere un atteggiamento, ma dannarsi l’anima per tentare di capire una virgola.

  2. Dottoressa complimenti per l’analisi, la seguo sul web da tempo.

  3. Bellissima analisi, mi è piaciuta molto la parte che hai destinato all’analisi del silenzio come luogo di genesi del pensiero.

  4. Sono Erika.
    Grazie Dario per le tue riflessioni. Anche per me la filosofia non è assolutamente un’opera di facciata, ma frutto di una ricerca incessante e costante. Le parole da me scritte sono i segni dei concetti che ho analizzato e poi indagato e penso richiedano un tempo necessario di decantazione filosofica, prima del giudizio. Grazie per il tuo contributo al confronto dialettico.

    • Non intendo polemizzare con il signor Dario, ma il suo commento palesa una lettura che dire sbrigativa è riduttivo anche considerando la lunghezza dell’articolo pubblicato. “dannarsi per una virgola”.
      Sarà.

  5. Una precisazione sulla (presunta) lunghezza degli articoli e sul rapporto tra sostanza e forma.

    All’inizio della nostra avventura redazionale, ci siamo posti il problema della lunghezza, coscienti del fatto che la lettura sul web è limitata a piccole pillole (spesso di poca saggezza, come confermato da diverse indagini o interviste).
    In quella discussione, ricordo, ero personalmente propenso ad aderire ai “canoni” di internet, un po’ perché la forma breve mi è più gradita e poi perché avrebbe favorito una lettura più facile e dunque più lettori o contatti: in fondo si scrive in parte per sé e in parte per gli altri (salvo rarissime eccezioni, Max Stirner mi sembra uno di questi).

    Per fortuna siamo arrivati alla (collegiale) conclusione di lasciare libero spazio agli autori e non stare a rincorrere facili consensi.
    La redazione compatta preferiva la qualità alla quantità, la libertà d’espressione alle limitazioni di qualsiasi sorta, la sostanza alla forma.

    Questo non implicava necessariamente l’adesione a lunghi e noiosi testi che nessuno probabilmente avrebbe mai letto, ma significava piuttosto, lucidamente, non limitarsi a rappresentare le argomentazioni in due sbrigative parole, soltanto per renderli leggibili a più.
    Si disse allora: chi è interessato, leggerà tutto. Fino in fondo.
    Il rasoio di Occam (nei limiti in cui sia concretamente applicabile) corre il rischio di semplificare troppo una realtà che, comunque la si veda, è complessa.
    Pensare, viceversa, che tutto sia complicato e niente semplice, oltre che essere paradossalmente ingenuo quanto la tesi opposta, rischia di far ricadere tutto in formale e sterile astrattismo e di far perdere di vista il minimo necessario.
    Sono ancora convinto che “l’essenziale” delle questioni debba prevalere su tutto; contrariamente a ciò – diversamente perfino da ciò che pensavo anni fa – non ritengo che la forma debba essere subordinata alla sostanza.
    Nella maturazione di qualsiasi idea, dopo aver compreso che il contenuto non è ciò che appare, si arriva al punto di analizzare anche il contenente e comprendere che l’uno non è niente senza l’altro.
    Una volta che si è messa in discussione qualsiasi ipotetica “sostanza” delle cose, il dubbio che inevitabilmente rimane rende consistenza e dignità allo stile utilizzato.
    Questa linea redazionale è stata, sorprendentemente, premiata dai risultati e dai sempre più numerosi attestati di stima dei lettori.
    La strada (o meglio i “percorsi”) che pensiamo di seguire sarà comunque questa, indipendentemente da tutto ciò ma sicuramente in piena coerenza con queste convinzioni.

  6. Molto interessante il nesso fondativo tra cogito e silenzio. Ottimo scritto.
    Fabio Elemento

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