«Che cos’è in fondo la vita dell’individuo? Una variazione del tema eterno: nascere, vivere, sentire, sperare, amare, soffrire, piangere, morire. Qualcuno aggiunge l’arricchirsi, il pensare, diventare moltitudine, vincere – ma in realtà, pur straripando, dilatandosi, entrando in convulsioni, si arriva tutt’al più a fare oscillare di più o di meno la linea del proprio destino. Ha qualche importanza che si renda un po’ più interessante per gli altri o distinta ai nostri occhi la serie dei fenomeni fondamentali? Il tutto è sempre dell’infinitamente piccolo nelle sue contorsioni, e la ripetizione insignificante del motivo immutabile» [Henri-Frédéric Amiel, Frammenti di diario intimo, 12 settembre 1870].
16 Maggio 2013 alle 17:28
Lampi raccolti dal buon Guido, se non mi sbaglio.
Muggiti in un assordante nulla.
16 Maggio 2013 alle 19:09
Ricordi correttamente caro Arturo; con queste parole Morselli menzionò Amiel nel suo memorabile Dissipatio H. G.: «[…] tremulo Marcel Proust, e il belante Frédéric Amiel, pesi massimi (e noiosi eroi) dell’introversione».
17 Maggio 2013 alle 10:19
Oggettivare il significato della vita, equiparando le scelte individuali a “contorsioni” ininfluenti, rispetto ad uno scenario sovraordinato, è un approccio intellettuale “partigiano” che de-turpa e minimalizza ogni ente determinato (specie homo sapiens). In particolare se quest’ultimo si pone fuori norma, rispetto al modello pre-visto dall’analista di turno (Henri-Frédéric Amiel). L’unico autorizzato ad esprimere giudizi sul senso, sul gradimento e sulle oscillazioni dei percorsi esistenziali è il singolo soggetto che si misura con le possibilità intercettabili nel suo contesto.
17 Maggio 2013 alle 10:24
Grazie Carlo del suo penetrante intervento. Mi permetta però di farle osservare come il «singolo soggetto che si misura con le possibilità intercettabili nel suo contesto», colui che lei vuole essere l’«unico autorizzato ad esprimere giudizi sul senso, sul gradimento e sulle oscillazioni dei percorsi esistenziali» può coincidere con l’«analista di turno» in quanto «singolo soggetto». Che si dà cioè singolare coincidenza tra «soggetto» e «analista di turno». L’«analista di turno» è sempre, in primis, «singolo soggetto». Vi è identità e non differenza.
17 Maggio 2013 alle 17:49
Caro Luca,
ringrazio per la risposta e ribalto la tesi proposta: vi è differenza e non identità.
L’analista di turno, in quanto osservatore, non può che vedere il “soggetto singolare” (allo studio) come “oggetto” della sua analisi (Henri-Frédéric Amiel). Tende , cioè, nel rapporto dialettico io-mondo, ad oggettivizzare il malcapitato, ponendo in essere una modalità cognitiva priva di senso, in quanto proietta sull’indagato un vissuto emotivo, puramente presunto, estrapolato necessariamente dalle proprie percezioni private.
Non mi risulta ancora che sia possibile fattualizzare un’empatia telepatica.
In generale, dunque, due soggetti, interagendo, sono naturalmente indotti a differenziarsi, per conservare la propria identità.
Buona serata.
18 Maggio 2013 alle 16:59
Gentile Carlo, forse che lei indagando la diade “soggetto-osservatore/oggetto di indagine-de-soggettivato” non si pone come centro di irradiazione prospettica caratterizzando un “sé” narrante-non-necessariamente-Carlo come “soggetto-osservatore” e quanto è “altro-dal-sé” come “oggetto di indagine”?
Si tratta di un difetto rappresentativo insopprimibile fintantoché non saremo in grado di vedere meramente con gli occhi e non con la loro traduzione neuronale.
Un caro saluto,
L.
19 Maggio 2013 alle 09:36
Gentile Luca,
la visione meramente “fisica” non può essere concettualizzata poiché non è mai esistita in natura. Occhi e traduzione neuronale sono da sempre coinquilini inseparabili.
De-soggettivare le emozioni di un soggetto, reso oggetto dall’osservazione di un analista, è un’operazione utopica. Solo un “cadavere” può essere de-soggettivato. Ma allora di lui non può essere detto nulla di “intimo/personale”.
Un caro saluto.