> di Francesca Brencio*
C’è questa strana convinzione nell’essere umano per la quale ogni pensare e ogni pensiero debbano essere sempre in suo favore. Assoluzioni ed alibi si alternano sullo scenario dell’umano esistere come pendolo del fare e del pensare – sempre che per esso ve ne rimanga tempo e spazio.
Pochi si sono spinti a pensare contro l’uomo, contro se stesso. Chi lo ha fatto o è impazzito, o si è rivolto a consolazioni metafisiche e teologiche – che ben hanno preso il posto della responsabilità del pensiero.
UMANI è un progetto artistico a tutto tondo pensato e realizzato da Fabrizio Corvi, che coniuga in flessioni dissonanti la fotografia, la poesia e la musica e che è volto a pensare e a far pensare contro l’uomo, contro la sua pretesa umanità, in vista di una messa in questione della medesima o di una sua ridefinizione.
La narrazione dell’umanità secondo Fabrizio Corvi – meglio, la finestra dalla quale ci invita a vedere l’umano genere – mi fa venire in mente Emil Cioran, il filosofo rumeno famoso per i suoi tentativi di “squartare” l’uomo: narrarne il dolore, l’ambizione e la tentazione di esistere, il faccia a faccia con la disperazione cosciente. Tra i suoi numerosi aforismi, me ne torna in mente uno, a mio parere imparentato con gli UMANI di Corvi, quello in cui scrive: «Allo zoo. – Tutte queste bestie hanno un contegno decente, all’infuori delle scimmie. Si sente che l’uomo non è lontano».
UMANI non dista molto da questa valutazione cioraniana. V’è assenza di contegno, v’è violenza: uno strattonamento della bellezza che fa indietreggiare l’uomo di qualche passo rispetto alla sua collocazione nel mondo. Il progetto, proprio perché pensato in modo interdisciplinare, coinvolge tutti i sensi dello spettatore per porre in scena una dis-trazione dell’esistere: uno smarrimento di luogo, una ferita nel senso, un soggiorno oltre l’ordinario.
L’umanità, concetto astratto e abusato, violentato da ogni morale e redento da ogni buon proposito, viene declinata in una quotidianità in cui il singolo non indossa abiti e non calza scarpe, non impreziosisce la sua figura e non adorna il suo volto, bensì viene declina al di là del bene e del male, nella pre-potenza nuda e cruda del suo essere. Potenza che impone ancor prima (il pre) di compiersi la sua esistenza nell’ordine delle cose del mondo. Pre-potenza che inerisce al fare e all’essere, che spersonalizza le relazioni dell’uomo con l’altro, che viola la soglia dell’esistere nei termini di spazio.
UMANI narra quello che nella lingua tedesca si chiama unheimlich, l’inquietante – perché non ha quiete; il terribile – perché desta spavento. Narra in scatti, suoni e parole nuove, perché figlie di un ventre contemporaneo, quanto già era stato cantato ad una giovane condannata a morte: «Molte sono le cose mirabili, ma nessuna / è più mirabile dell’uomo» (Sofocle, Antigone, Primo stasimo, vv. 332-333). L’inquietante, ciò che è degno di attenzione desta e vigilante (il “mirabile”), estromette dalla tranquillità, dal nostro elemento abituale, dal familiare, dalla sicurezza. Per questa sua natura, l’inquietante narra la costitutiva zona d’ombra dell’umano in cui, nella frazione di un istante, Prometeo si fa Caino e nessun Dio giunge in sua salvezza.
> di Fabrizio Corvi**
Il progetto UMANI è una tappa fondamentale di un viaggio fotografico, ma anche letterario, musicale, filosofico e cinematografico all’interno dei molteplici aspetti dello spirito umano. Dostoevskij ha scritto: «Si qualifica spesso come efferata la crudeltà degli uomini, ma è una cosa straordinariamente ingiusta e offensiva per le fiere».
Penso che avesse ragione; gli accadimenti della storia e della cronaca sanguinari e violenti suscitano un orrore e un rifiuto tali che molti di noi sono soliti descriverli come “disumani”. In realtà sono proprio quei gesti a caratterizzare gli umani, perché sono solo gli uomini che li compiono e, forse, l’orrore più profondo ci deriva dal fatto che le belve che agiscono con crudeltà sanguinaria lanciano richiami ancestrali alla belva che ognuno di noi, nessuno escluso, tiene rinchiusa nel profondo di sé.
Non si spiega altrimenti il motivo per cui pochi uomini accumulino una quantità di ricchezza e di potere enormi ed inutili, e neanche si spiega il motivo per cui questi siano oggetto di invidia da parte di tanti altri. Intendo riferirmi ad una ricchezza ed un potere che non porta alcun benessere alla vita di chi, questa ricchezza e questo potere, li possiede, anzi, è molto spesso causa di sciagure terribili; intendo riferirmi al desiderio incontrollato che spinge alla guerra, alla razzia di terre e di beni, al disprezzo per l’altro, al genocidio, alla pulizia etnica, all’esportazione della democrazia con il fuoco delle armi e con il veleno delle industrie; intendo riferirmi al tipico, irragionevole e umano desiderio di una supremazia senza senso. Gli UMANI di questo progetto sono così: sono predatori e sono intelligenti. Hanno un velo sugli occhi perché niente è più mostruoso dell’intelligenza senza ragione, del genio che vive al di la’ del bene e del male, della belva con i denti affilati e con il pollice opponibile. Perché, su questo pianeta, solo gli UMANI custodiscono i mostri: gli unici “captivi”, perché rinchiusi dentro di noi. Ma è davvero così, la nostra vera natura? Il male è davvero così banale, così superficiale, così facile che qualunque idiota può compierlo… oppure la malvagità è talmente radicata in noi da essere inestirpabile? E’ la tensione umana al bene, la forza invincibile che segna il destino… oppure no? Io non sono un uomo di scienza, né un filosofo; sono solo un fotografo. Non ho le risposte, ma ho tante domande. Il progetto UMANI è fatto di fotografia, video, performance, musica e poesia: sono le domande con le quali chiediamo a chi assiste: «e tu… chi sei?»
* Francesca Brencio (Spoleto, 1976) ha conseguito il titolo di Dottore in ricerca in Filosofia e Scienze Umane presso l’Università degli Studi di Perugia. Dal settembre 2012 è Adjunct Fellow nella School of Humanities and Communication Arts della University of Western Sidney (Australia). Dal 2000 al 2007 è stata Associate Lecturer con la cattedra di Estetica dell’Università degli Studi di Perugia, lavorando a fianco della professoressa Anna Giannatiempo Quinzio. Studiosa di Martin Heidegger, negli ultimi anni i suoi lavori si sono concentrati sul rapporto tra il pensiero di Heidegger e l’idealismo tedesco, con particolare attenzione al posto occupato da Hegel nella speculazione heideggeriana. Attualmente sta portando avanti le sue ricerche presso la Albert-Ludwigs Universität in Freiburg.
** Fabrizio Corvi (1963) nel 1973 apprende i primi rudimenti di fotografia; dal 2002 si dedica alla fotografia professionale pubblicitaria. Dal 2006 realizza immagini fotografiche per campagne pubblicitarie di aziende nazionali e multinazionali. Nel 2008 l’Associazione Nazionale Fotografi Professionisti Italiani lo include nella rosa degli otto migliori fotografi pubblicitari creativi in Italia. Dal 2009 si dedica esclusivamente alla produzione di immagini personali. Nel 2011/2012 espone al Padiglione Italia della 54^ Biennale di Venezia.
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8 Maggio 2013 alle 13:57
“C’è questa strana convinzione nell’essere umano per la quale ogni pensare e ogni pensiero debbano essere sempre in suo favore”. Ma anche pensare contro l’uomo, anche pensare contro se stessi è un modo per perdonarsi, per assolversi, un modo per godere di sé, un modo per star bene con sé; pensare contro se stessi, raggiungere quella lucidità cioraniana che porta ad odiarsi e condannarsi è un modo come altri per amarsi ed io continuo ad amarmi anche quando mi disprezzo.
9 Maggio 2013 alle 15:02
“Pensare contro l’uomo” non credo sia un modo per assolversi o peggio ancora per provare godimento.
Amarsi in conseguenza del proprio disprezzo prende semplicemente il nome di ipocrisia e di finzione: non si può affermare che la barca è al sicuro, mentre sta navigando su acque agitate, soltanto perché vi si poggiano i piedi sopra.
Piuttosto, in questo “essere contro”, c’è disperazione e inquietudine, anche e soprattutto in mezzo alla follia e alle “consolazioni metafisiche e teologiche”.
Non si può “fare finta di ” se di fronte a noi c’è l’abisso e l’orrore.
Non è un gioco. Al massimo è la metacognizione di questo “gioco” (“tutto è vanità”) che non rasserena né ci consola.
La lucidità cioraniana in fondo non è altro che la limpida coscienza della nostra dis-Umanizzazione.
20 Maggio 2013 alle 13:00
Non vedo il perché debba prendere il nome di ipocrisia, io credo sia addirittura l’opposto…:)