>di Lucia Gangale*
La filosofa americana ne è convinta: «La rabbia non ci salverà, è un sentimento distruttivo» (Si vedano le pagine 257-261 e, in modo ancora più particolare, le pagg. 332-340 («La singolare generosità di Mandela») di Rabbia e perdono, Il Mulino 2017. La Nussbaum, ad un certo punto afferma: «Per Mandela, rabbia e risentimento semplicemente non sono consoni a un leader, perché la funzione del leader è di fare le cose, e il metodo generoso e collaborativo permette di riuscirci» (pag. 339 op. cit.)).
Si insinua in maniera velenosa nei rapporti interpersonali e nella vita politica, ragionando spesso in termini di rivalsa. Con effetti devastanti.
Probabilmente, dice la Nussbaum, da sentimento universale qual è, la rabbia affonda le due radici nell’evoluzione della specie. Ma, utilizzata male in ambito politico, può avere effetti controproducenti per la vita di milioni di persone. Per questo motivo i greci e i romani la ritenevano un problema, i cui effetti devono essere contenuti.
Anche nel comminare una giusta pena, non si deve smarrire il significato profondo della dignità umana, per quanto grave sia il reato che un individuo può avere commesso.
Il libro di Martha Nussbaum, Rabbia e perdono, edito in Italia nel 2017 dalle edizioni il Mulino, è oggi quanto mai attuale, proprio per il clima di rabbia esasperata che caratterizza la scena politica. La forma più deleteria di rabbia è senza dubbio quella basata sull’idea di «restituzione», cioè nell’infliggere dolore a chi ci ha causato un danno.
C’è poi una rabbia tesa a squalificare e ad umiliare l’altro, ma va da sé che questa forma di rabbia e quella prima citata non prospettano nessuna forma di progresso, di trasformazione dei contenuti di partenza, in quanto si alimentano di se stesse e vivono nel rancore, nel desiderio mai appagato di risarcimento.
C’è una diversa forma di rabbia che però fa intravedere una soluzione diversa, ed è la «rabbia di transizione», quella che trasforma le situazioni e le persone stesse e non si autoalimenta. Ne è un caso eclatante la vita di Nelson Mandela, che con la rabbia ebbe sempre problemi personali, lavorando molto su di essa per trasformarla in generosità, utile a costruire l’identità del Sudafrica (qualsiasi esplosione di rabbia e desiderio di vendetta avrebbe vanificato tutti gli sforzi in questo senso).
C’è un campo particolarmente delicato nel quale la giustizia non deve perdere di vista la generosità, ed è quello della pena.
Possiamo osservare, prima di cominciare, che le idee di pena più convenzionali incorporino già certi elementi di non-rabbia, come il rifiuto dell’umiliazione e della crudeltà nel castigo. La messa al bando nella Costituzione americana delle «pene crudeli e inconsuete» è sempre stata difficile da interpretare, e tanto più da applicare alle condizioni di reclusione in America; però la presenza stessa della frase nella Carta dimostra che anche i costituenti settecenteschi vedevano dei limiti morali nella funzione punitiva dello stato (MARTHA NUSSBAUM, Op. cit. pagg. 260-261).
La Nussbaum è molto critica nei confronti del sistema carcerario americano:
Le carceri europee, in generale, sono luoghi molto più dignitosi delle prigioni americane (a parte qualche eccezione per i privilegiati). Se gli Stati Uniti smettessero di condannare alla detenzione su basi inconsistenti, incarcerando quindi un alto numero di persone, sarebbe molto più facile dedicarsi al miglioramento delle condizioni carcerarie (Op.cit. pagg. 290-291).
E si chiede:
Di per sé la carcerazione può essere rispettosa della dignità? Difficile dirlo, vista la distanza fra le pratiche correnti e pratiche veramente rispettose.
L’autrice afferma che negli Stati Uniti i carcerati hanno alcuni diritti come quelli all’igiene personale, ad alcune forme di proprietà personale quali foto e ricordi ed il diritto a sposarsi, anche se ergastolani.
La Nussbaum è molto attenta nella disamina dei diritti fondamentali dei carcerati, in Europa e in America (quali votare, lavorare fuori dal carcere, recarsi in visita alla famiglia), perché vuole superare l’idea, ancora presente nella società, che una pena adeguata dovrebbe essere basata anche sull’umiliazione pubblica. Questo per un motivo coerente con la sua visione welfarista della società e della persona umana, che ha nella tutela della dignità e del rispetto di sé un valore intrinseco.
Ecco dunque i cinque motivi che, a detta della studiosa, dovrebbero evitare la degradazione e l’umiliazione pubblica “a persone che commettono reati generalmente non-violenti come l’adescamento, urinare in pubblico o guidare in stato di ebbrezza”:
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- Infliggere uno stigma aggredisce la dignità della persona in modo molto pesante.
Ciò non è rispettoso dell’essere umano in quanto tale, anche nei casi in cui l’umiliazione riuscisse efficacissima contro il crimine, cosa che, tra l’altro, non si verifica (Pag. 291).
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- Infliggere vergogna alimenta l’odio di massa.
Le punizioni basate su questo sentimento rende esecutrice la massa che deride ed infligge vergogna ai/al reo, alimentando il desiderio della maggioranza di umiliare alcune categorie di individui impopolari. È certamente problematico per l’imparzialità della legge delegare la punizione a forze parziali e diverse da essa.
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- Le tendenze relative all’odio e alla punizione ben presto scappano di mano.
La storia lo ha sempre dimostrato. In un batter d’occhio si passa dal colpire atti dannosi a colpire modi e forme di essere impopolari, con minoranze sessuali e religiose di volta in volta stigmatizzate ed emarginate. Il messaggio molto chiaro che proviene da queste modalità operative è che non si colpiscono i veri criminali, ma le minoranze (o identità stigmatizzate) che a detta della folla dovrebbero vergognarsi.
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- Le punizioni basate sulla vergogna alimentano la rabbia di ritorsione.
Le mitologiche Eumenidi, dee della maledizione e della vendetta, devono risolvere il problema che la natura della rabbia è senza fine. E così anche lo stigma e il disprezzo, come dimostra James Gilligan in un suo studio empirico (1997), dove evidenzia che la violenza delle sanzioni basate sullo stigma sociale non fa altro che aumentare la violenza nella società, dal momento che viene incrementata la propensione dei criminali a definirsi tali, innescando una spirale che si alimenta da sé.
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- Si amplia la rete di sanzioni e pene nella società.
Lo studioso di diritto penale Stephen Schulhofer dice che queste punizioni incrementano pene e sanzioni nella società. Siccome queste sembrano meno dure del carcere, spesso diventano sostituti della libertà condizionata, alimentando un «trattamento duro» all’interno della società stessa. Il problema che qui si pone, e che la Nussbaum evidenzia con lucidità, è che l’ampliamento di questa rete di punizioni sia molto costosa e negativa per la deterrenza dei crimini veramente gravi.
Gli argomenti portati dalla Nussbaum contro le sanzioni basate sulla vergogna sono così raggruppabili:
a) Tre – dal due al quattro – sono empirici, a sostegno dell’ipotesi che essi non siano buoni deterrenti:
b) Il primo e il quinto sono a carattere normativo, ovvero lasciano aperta la domanda: «Se funziona davvero, perché non dovremmo farlo?».
In conclusione, per Nussbaum ai fini del benessere generale occorre porre grande attenzione alla questione riguardante l’incitamento all’odio. Una società che abbia a cuore la difesa dell’uguaglianza di fronte alla legge deve porre altrettanta particolare attenzione a tutte quelle offese e forme di umiliazione che negano la pari dignità delle persone: discriminazioni sulla base della razza, del sesso o della disabilità; molestie sessuali sul posto di lavoro; forme di bullismo o istigazione all’odio. Azioni da scoraggiare fortemente in un’ottica welfarista orientata al futuro. Nella trattazione della Nussbaum entra anche la necessità di riformare le regole sull’anonimato in Internet, per far sì che gli individui diffamati possano far causa e vincere sulla base delle leggi esistenti (Uno studio dal titolo What Happens to Murder Rates when the Death Penalty is Scrapped? A Look at Eleven Countries Might Surprise You, pubblicato nel dicembre 2018 Abdorrahman Boroumand Center, un’organizzazione con sede a Washington DC che promuove i diritti umani e la democrazia in Iran, ha scoperto che nei Paesi dove è stata abolita la pena capitale vi è stato un calo degli omicidi nel decennio successivo all’abolizione (Azerbaigian, Bulgaria, Polonia, Serbia, Estonia, Lettonia, Ucraina, Sudafrica, Kirghizistan, Georgia e Albania). Il che potrebbe suffragare l’affermazione della Nussbaum).
Bibliografia
Banicki 2015, K., “Therapeutic arguments, spiritual exercises, or the care of the self: Martha Nussbaum, Pierre Hadot and Michel Foucault on ancient philosophy”, in Ethical Perspectives 22 (4), 601–634, Leuven 2015
Bendik-Keymer 2014, J., “From humans to all of life: Nussbaum’s transformation of dignity”. In F. Comim & M. C. Nussbaum (Eds.), “Capabilities, gender, equality” (pp. 175–191), Cambridge University Press, Cambridge 2014.
de Melo-Martı’n, I., & Salles A., 2011, “On disgust and human dignity”. Journal of Value Inquiry, Springer 2011, 45, 159–168.
Nussbaum 2002, M., “Giustizia sociale e dignità umana. Da individui a persone”, Il Mulino, Bologna 2002.
Nussbaum 2016, M., “Rabbia e perdono. La generosità come giustizia”, Il Mulino, Bologna 2017. Titolo origjnale: “Anger and Forgiveness: Resentment, Generosity, Justice” di Martha Nussbaum, Oxford University Press, 2016
*Lucia Gangale, docente ordinaria di Storia e Filosofia, giornalista, conferenziera, saggista e blogger, con la passione per la fotografia ed i cortometraggi, è anche direttore responsabile e fondatore della rivista di divulgazione culturale “Reportages Storia & Società” (ISSN 2611-9277). Ha all’attivo diverse pubblicazioni di storia. Tra i volumi di filosofia, invece: “Capire il pensiero di Martha Nussbaum” (Edizioni Il Prato), “Il giovane Spinoza” (Libellula), “Lo Stato e la sovranità statale in Edith Stein (“Libellula”).