> di Pietro Piro
«Indipendentemente da ciò che essa mostra o censura,
l’immagine che comunque si da a vedere,
è anche e soprattutto
quella che nasconde tutte le altre»
M. Scotini, Governo del tempo e insurrezione delle memorie.
Immagine. Sovversione dell’occhio elevato a unico strumento di assimilazione sensoriale. Immagine che domina tutta l’esperienza dell’uomo contemporaneo. Immagine del potere e potere delle immagini. Scandalo della completa esposizione, della visibilità a tutti i costi, dell’esistenza per e grazie all’esposizione dell’icona che si fa presenza obbligatoria. Immagini che divorano altre immagini. Sempre più definite, sempre più violente, sempre più ossessive. L’immagine e la sua manipolazione deve rientrare negli interessi di ogni critico culturale. Libri come La società dello spettacolo di G. Debord e Lo stato seduttore di R. Debray, devono circolare nei ragionamenti con familiarità e fare da punto di riferimento per le analisi del nostro tempo luccicante di stellette tristi.
Suggerisco al lettore curioso il libro curato da Elisabetta Galasso e Marco Scotini, Politiche della memoria. Documentario e archivio, Derive Approdi, Roma 2014. Il libro «cerca di ripensare il rapporto tra arte contemporanea e pratica del documentario come una delle tendenze culturali più politicamente impegnate degli ultimi decenni. Al centro dell’indagine c’è il tema dell’immagine come documento: i regimi discorsivi che essa informa, i processi d’identificazione che legittima e la dialettica temporale che fonda» (p. 13). Un libro che con coraggio cerca di far riflettere sull’ordine del discorso imposto dalla manipolazione delle immagini. Un ordine “militare-visuale” che mira all’assoggettamento sociale. Infatti: «Con il controllo e il monopolio della memoria sociale il potere può permettersi non solo di rappresentare sempre se stesso e il resto del mondo più conveniente, ma anche di decidere quali sono i comportamenti da tenere, quanto deve durare un evento e quali soggettività hanno il diritto all’esistenza» (p. 10). Questo libro riflette sui modi in cui «i dati vengono registrati, accumulati, archiviati. Le strategie con cui essi trasformano uno stato di memoria in una memoria di Stato» (p. 14). Le immagini – in un tempo che ha abbracciato il consumismo come unica forma di vita – mettono continuamente in scena il discorso dominante, distogliendo lo sguardo da tutto il resto.
Ho trovato molto interessante il ragionamento di Hito Steyerl, In difesa dell’immagine povera, quando afferma: «La risoluzione è stata feticizzata come se la sua mancanza portasse alla castrazione dell’autore» (p. 111). È possibile espandere il ragionamento dell’autore a tutti i settori culturali. Anche nella filosofia pare che conti più l’immagine mediatizzata dell’autore rispetto al contenuto del suo pensiero, la sua presenza nei salotti buoni della TV rispetto alla radicale domanda di senso che un pensare filosofico impone. Sempre più raramente si fa circolare un manoscritto filosofico stampato in proprio perché si teme che l’assenza di “cura editoriale” rappresenti di per sé il simbolo di un fallimento annunciato. Si guarda alla collana e all’editore come “certificati di garanzia” rispetto al contenuto di pensiero. Vere e proprie “truffe” in questo settore sono all’ordine del giorno.
Si rifletta con serietà sul potere dell’immagine e sulla natura perversa di un tempo che ignora le profondità e si accontenta di una superficie tanto cangiante quanto brutalmente volgare.
Nel libro interventi di: John Akomfrah, Eric Baudelaire, Ursula Biemann, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Khaled Jarrar, Lamia Joreige, Gintaras Makarevicius, Angela Melitopoulos, Deimantas Narkevicius, Lisl Ponger, Florian Schneider, Eyal Sivan, Hito Steyerl, Jean-Marie Teno, Trinh T. Minh-ha, Wendelien van Oldenborgh, Clemens von Wedemeyer, Mohanad Yaqub.