> di Daniele Baron
2. DOPOGUERRA: DIFFICOLTÀ DELL’IMPEGNO
Nel dopoguerra Sartre cerca di mettere in pratica gli insegnamenti che ha tratto dall’esperienza dei cinque anni di guerra; la sua scelta d’impegno politico e la sua volontà di comprendere con sempre maggiore esattezza la società e l’epoca in cui si trova si precisano. Allo stesso tempo, però, in questo suo intento si scontra con le difficoltà derivanti dalla situazione incerta di quel periodo ed anche qui gli eventi storici concorrono a formare ed in buona parte a deformare e deviare la sua posizione.
Qui voglio ricostruire il clima politico e culturale degli anni che vanno dal 1945 al 1949 circa per comprendere in quale contesto la sua riflessione morale si sia sviluppata e quali siano i fattori della sua personale esistenza che l’hanno accompagnata influenzandola.
L’immediato dopoguerra vede un primo deciso affermarsi del pensiero di Sartre ed anche il successo dell’esistenzialismo sia sul piano strettamente culturale che su di un piano più ampio, tanto che esso diventa una vera e propria moda. Sartre diventa all’improvviso nel 1945 uno scrittore celebre in tutto il mondo.
La prima tappa della concretizzazione della sua decisione d’impegnarsi e della sua volontà di partecipare attivamente all’attività politico-culturale del suo tempo è la creazione nel 1944-45, insieme a Raymond Aron, Simone de Beauvoir, Michel Leiris, Maurice Merleau-Ponty, Albert Ollivier, Jean Paulhan, della rivista “Les Temps Modernes”. Nella Présentation del primo numero dell’ottobre 1945, cercando di definire i precetti generali a cui la rivista dovrà rifarsi, Sartre precisa nello stesso momento quale deve essere la funzione dell’intellettuale e della letteratura nella società. L’intellettuale deve essere impegnato, engagé, deve fuggire dalla tentazione d’irresponsabilità, è in situazione nella propria epoca e deve sceglierla (Cfr. J.-P. SARTRE, Presentazione di “Temps Modernes”, in IDEM, Che cos’è la letteratura?, Il Saggiatore, Milano 1995, pp. 122 ss.).
«Non è correndo dietro all’immortalità che si diventa eterni: né diventeremo assoluti per aver riflesso nelle nostre opere qualche principio scarnificato, abbastanza vuoto e abbastanza nullo per passare da un secolo all’altro; ma perché avremo combattuto appassionatamente nella nostra epoca, perché l’avremo amata appassionatamente e avremo accettato di seguirne fino in fondo la sorte.
In conclusione, è nostra intenzione concorrere a produrre certi mutamenti nella Società che ci circonda. E con questo non intendiamo un mutamento d’anime (…). Noi ci schieriamo al fianco di chi vuole mutare insieme la condizione sociale dell’uomo e la concezione che egli ha di se stesso (Ibidem, p. 127).
La letteratura engagée si rivolge dunque alla propria epoca, ai propri contemporanei, e deve dare conto dei problemi che sono suscitati dall’avvenire immediato di quest’epoca; è concepita come azione, rivela certi aspetti della realtà e nel movimento con cui li illumina li modifica; ha una funzione eminentemente pratica e sociale. Il suo compito è quello di darci una concezione «totalitaria» (Ibidem, p. 128) dell’uomo e cioè di farci vedere l’uomo come una libertà in situazione: la sua libertà è scelta in rapporto ad una situazione storica determinata ed è sempre responsabile di questa scelta. “Les Temps Modernes” tennero, in effetti, fede a queste dichiarazioni d’intenti, occupandosi spesso dei problemi più vivi sul piano politico e sociale che via via nel corso degli anni successivi si presentarono.
La concezione nuova dell’intellettuale e della letteratura proposta da Sartre nella rivista rientra nel suo intento più generale di avere un ruolo attivo nella società a lui contemporanea. È importante ora vedere quale fosse la sua posizione politica negli anni immediatamente successivi la guerra, perché solo così si può capire quali difficoltà ostacolassero l’attuazione concreta dell’engagement. Il tentativo di essere fedele nella sua vita politica e sociale alle dichiarazioni teoriche della Présentation non fu per Sartre semplice, lo fece giungere ad una contraddizione profonda che traeva origine dalla sua condizione e dalla natura degli avvenimenti storici.
La partecipazione alla Resistenza era stato il suo primo atto d’impegno politico e nello stesso tempo gli aveva permesso di definire meglio la sua posizione. La guerra, come si è visto, facendogli scoprire la storia e la società, lo aveva indotto ad abbandonare l’individualismo anarchico per farlo approdare al socialismo. Non a caso aveva deciso di chiamare “Socialismo e Libertà” il movimento di resistenza a cui aveva dato vita: secondo la sua nuova concezione, infatti, la libertà del singolo implicava quella di tutti gli altri: un individuo, cioè, poteva essere libero solo in una società giusta in cui non ci fossero alienazione ed oppressione, in cui ci fosse un’uguaglianza tra tutti i cittadini non solo su di un piano formale-legale, ma anche su di un piano economico e materiale (Cfr. S. DE BEAUVOIR, La cerimonia degli addii, cit., p. 424, pp. 427 s., pp. 430 s., pp 434 ss., p. 469, p. 477). Questo tipo di società giusta non poteva che essere una società socialista, una società senza classi, e pertanto affatto diversa da quella capitalista in cui c’era l’oppressione del proletariato da parte della classe borghese. Sartre si rendeva conto però dei problemi che potevano nascere dal tentativo di conciliare tra loro i due concetti di socialismo e di libertà: aveva paura che ne risultasse una contraddizione insanabile, che lo sforzo per realizzare una società senza classi dovesse per forza comportare la rinuncia alla libertà da parte del singolo in favore della collettività. Tuttavia nell’immediato dopoguerra questa sintesi gli appariva ancora praticabile. Per questo motivo, volendo schierarsi al fianco del proletariato ed aiutarlo nella sua lotta di rivendicazione, credeva che fosse possibile mantenere una posizione intermedia e di conseguenza che non fosse per lui necessario iscriversi al Partito Comunista, anche se sapeva che quest’ultimo era l’unico vero rappresentante della classe operaia, che ad esso i lavoratori facevano riferimento. Sperava di poterne diventare una specie di coscienza critica, di potergli fornire un appoggio esterno. Inoltre, dopo la proficua unità d’azione raggiunta durante la Resistenza, voleva mantenere buoni rapporti con gli intellettuali comunisti. In sostanza voleva instaurare un dialogo con i comunisti e si auspicava che ciò avesse la benefica conseguenza di smussare il dogmatismo di certe loro posizioni. Questa sua scelta era anche incoraggiata dal clima di unità e di totale assenza della lotta di classe dell’immediato dopoguerra. C’era infatti collaborazione tra i partiti e le forze politico-culturali che avevano fatto la Resistenza, collaborazione che si esprimeva nei governi di coalizione.
«Usciti dalle classi medie, tentammo di costituire il collegamento tra la piccola borghesia intellettuale e gli intellettuali comunisti. La borghesia ci aveva generato: noi avevamo ricevuto in eredità la sua cultura e i suoi valori; ma l’occupazione e il marxismo ci avevano insegnato che né l’una né gli altri si reggevano da soli. Noi chiedevamo ai nostri amici del partito comunista gli strumenti necessari per strappare l’umanesimo ai borghesi. A tutti gli amici di sinistra, noi chiedevamo di lavorare insieme con noi» ( J.-P. SARTRE, Merleau-Ponty, in IDEM, Il filosofo e la politica, Editori Riuniti, Roma 1964, ristampa 1965, p. 217).
Ma questa precaria unità tra tutte le forze della Resistenza ed in particolare delle forze di sinistra ben presto si spezzò: poco alla volta si delineò una contrapposizione tra due blocchi ben precisi, per cui non era più possibile una posizione intermedia. Riprese in modo feroce la lotta di classe tra borghesia e proletariato, lotta che, pur avvenendo sul piano nazionale, era il riflesso della “guerra fredda” internazionale tra U.S.A. e U.R.S.S. Il suo inizio, infatti, coincise con l’estromissione nel 1947 dei comunisti dal governo di unità nazionale, causata dal varo del piano Marshall di aiuti economici. Una terza via tra i due fronti contrapposti sembrava sempre più difficile, ma Sartre cercò ugualmente di mantenere la sua posizione di sintesi e mediazione. Inevitabilmente il suo tentativo poco alla volta risultava sempre più difficile e gli fruttava duri attacchi (e talvolta anche insulti) sia da destra che da sinistra. Se egli accettava come inevitabili le critiche della destra borghese e reazionaria e non vi dava molto peso, furono per lui un duro colpo quelle che provenivano dai comunisti di cui si considerava un alleato, le considerò come una vera e propria ingiustizia (Cfr. S. DE BEAUVOIR, La forza delle cose, cit., pp. 12 ss., pp. 47 ss., pp. 131s.).
Il tentativo di dialogo con i comunisti fu dunque soffocato sul nascere, si trasformò quasi subito in uno scontro a causa dell’ostilità dei comunisti stessi che vedevano nell’esistenzialismo una filosofia borghese, un idealismo, un soggettivismo, un quietismo. Alle accuse che gli venivano rivolte, Sartre rispose cercando di difendere gli aspetti pratici dell’esistenzialismo, di mostrare come fosse una dottrina compatibile con l’azione concreta, come anzi i suoi presupposti teorici la rendessero possibile e persino necessaria. A questo scopo, dapprima pubblicò nel dicembre del ’44 su “Action” (vale a dire sulla rivista comunista che si era fatta veicolo della maggior parte di questi attacchi) un articolo intitolato A propos de l’existentialisme: Mise au point e poi tenne la famosa conferenza L’existentialisme est un humanisme nell’ottobre del ’45 al “Club Maintenant”. Allo stesso tempo, come è testimoniato dal saggio Matérialisme et Révolution, pubblicato nel ’46 su “Les Temps Modernes”, iniziò un confronto teorico con la dottrina del materialismo, cercando soprattutto di combatterne le versioni più dogmatiche della scolastica marxista.
Per delineare con maggiore precisione la posizione politica mantenuta da Sartre nel dopoguerra, prenderò ora in esame il saggio Qu’est-ce que la littérature?, pubblicato nel 1947 su “Les Temps Modernes”. Questo saggio sulla letteratura engagée da un lato approfondisce e rielabora alcuni argomenti già trattati nella Présentation, dall’altro contiene alcune considerazioni pratiche e politiche assai interessanti ai fini del mio discorso.
Nei primi due paragrafi (Cfr. J.-P. SARTRE, Che cos’è la letteratura?, cit. pp. 12-51) Sartre riafferma che scrivere è illuminare una situazione cambiandola, che lo scrittore è responsabile della scelta dell’aspetto del mondo che ha deciso di illuminare e che pertanto la parola è azione, ma aggiunge anche altre importanti precisazioni. Innanzitutto, afferma che il fine dell’opera letteraria è la comunicazione. Da ciò deriva che per la creazione di un’opera dello spirito non è sufficiente il lavoro dello scrittore soltanto, ma che è indispensabile la presenza del lettore: la lettura non è infatti un’operazione meccanica ed accessoria, ma è un complemento necessario della scrittura in quanto concorre a fornire oggettività costitutiva all’opera. Pertanto, solo grazie al lettore lo scrittore può completare la propria opera, senza la sua presenza mancherebbe all’opera un aspetto essenziale. Per questo motivo, lo scrittore, facendo dono al lettore della propria opera affinché questo la completi, deve fare appello alla sua libertà. Il lettore a sua volta deve riconoscere in questo appello la libertà dell’autore. La letteratura ha dunque un fondamento morale, in fondo all’imperativo estetico è celato un imperativo morale, perché ciò che deve stare alla base del rapporto tra autore e lettore è la libertà (Cfr. Ibidem, pp. 31-51).
Vista l’importanza che Sartre attribuisce al pubblico dell’opera letteraria, è ora interessante vedere in concreto a quale pubblico Sartre intendesse nel 1947 indirizzare la sua letteratura engagée. Dalla precisazione di questo aspetto potremo illuminare le implicazioni pratiche della sua posizione e sottolineare le difficoltà che la situazione di quel periodo opponeva al suo tentativo d’impegno.
La ricerca sulle caratteristiche del pubblico a cui la letteratura si deve rivolgere è svolta da Sartre nel terzo e quarto paragrafo del saggio (Cfr. Ibidem, pp. 51-115. Nella traduzione in italiano è del tutto assente il quarto paragrafo: farò riferimento al testo francese).
A partire dalle osservazioni astratte ed a priori sulla letteratura fatte nei primi due paragrafi sembrerebbe ovvio a prima vista affermare che si debba scrivere per tutti gli uomini della propria epoca. L’ideale per uno scrittore sarebbe di attuare, infatti, una letteratura concreta e libera, di rivolgersi pertanto non ad un’universalità astratta, ma all’universalità concreta degli uomini viventi in una determinata società. Ciò sarebbe possibile però solo in una società senza classi; solo in una società in cui ci fosse un’uguaglianza materiale-economica di tutti i cittadini lo scrittore potrebbe evitare di cadere nell’astratto: sarebbe realmente libero di dire tutto, di rivelare ogni aspetto della realtà. Il pubblico dal canto suo avrebbe la possibilità di cambiare tutto: in questa società ideale senza divisione in classi, infatti, si realizzerebbe un continuo cambiamento dell’ordine, un continuo rinnovamento dei quadri, una rivoluzione permanente. Si tratta come si può vedere di un’utopia, di un ideale che come tale deve guidare l’azione nella situazione concreta.
Nella realtà, invece, si è di solito in presenza di una società divisa in classi e l’interesse di una classe può essere opposto a quello di un’altra. Perciò, anche se spesso inconsapevolmente, lo scrittore fa l’interesse di alcuni a scapito di altri, cadendo in tal modo inevitabilmente nell’astratto, poiché è portato a considerare i privilegi particolari di una classe come universali (Cfr. Ibidem, pp. 51 ss.).
In quale misura Sartre riteneva fosse realizzabile una società senza classi nella sua epoca e di conseguenza una letteratura libera e concreta?
In quel periodo c’erano due classi in lotta tra di loro: la borghesia ed il proletariato. Come si è visto, Sartre, pur essendo consapevole di essere borghese e delle origini borghesi della letteratura, desiderava schierarsi e lottare a fianco della classe oppressa dei lavoratori e far sì che la letteratura si separasse ed allontanasse dalla classe borghese. Con molto realismo, però, egli sottolineava come a quell’epoca, nel 1947, il solo pubblico delle sue opere fosse composto da borghesi e non da operai; in un certo senso i suoi libri erano lo specchio in cui la coscienza borghese poteva riflettersi. La borghesia europea, e quella francese in particolare, era uscita dalla guerra sconfitta, delusa, disorientata, era stata messa a dura prova da quegli anni: le sue certezze stavano crollando a causa del venir meno del ruolo centrale dell’Europa sulla scena mondiale e delle sue difficoltà economiche, aveva perduto il cieco ottimismo di prima della guerra (che si eprimeva soprattutto nella dottrina dell’utilitarismo), aveva smarrito la cieca fiducia nel progresso, la sua ideologia vacillava, stava prendendo coscienza di sé e della gratuità dei suoi fini nell’angoscia, era ormai caratterizzata da una coscienza infelice (Cfr. J.-P. SARTRE, Qu’est-ce que la littérature? in IDEM, Situations, II, Gallimard, Paris 1948, ristampa 1958, pp. 271 ss.) Per Sartre il compito della letteratura era di rispecchiare questa coscienza infelice, evitando però al contempo di fornire alla borghesia un’ideologia di ricambio, una nuova giustificazione che la rassicurasse. Se quindi la borghesia costituiva il pubblico reale delle sue opere, Sartre pensava che fosse suo compito cercare di raggiungere (anche attraverso un sapiente uso dei mass media) un pubblico virtuale e potenziale: la classe operaia. Si rendeva conto allo stesso tempo delle enormi difficoltà insite in questo compito; la principale risiedeva nel fatto che non era possibile un rapporto diretto con essa, che era inevitabile la mediazione del P.C. (Cfr. Ibidem, pp. 276 ss.). A questo punto, Sartre si chiede esplicitamente se sia necessario che lo scrittore impegnato per meglio raggiungere il suo pubblico potenziale s’iscriva al P.C. La sua risposta è nettamente negativa; giunge anzi a dire che «la politica del comunismo staliniano è incompatibile con l’esercizio onesto del mestiere letterario» (Ibidem, p. 280). Il P.C., infatti, a quell’epoca riduceva l’intellettuale iscritto al partito alla malafede, alla menzogna sistematica, lo considerava sempre sospetto e colpevole a causa delle sue origini borghesi; convertiva la letteratura in mera propaganda. Il P.C., inoltre, da partito rivoluzionario era diventato partito conservatore, immobile nel suo dogmatismo, sia perché non c’erano più le condizioni oggettive per attuare una rivoluzione (e per questo motivo doveva venire a patti con la borghesia), sia per la necessità di conformare in tutto e per tutto la sua politica a quella della Russia sovietica. L’U.R.S.S. dal canto suo, secondo il giudizio di Sartre, non aveva potuto completare la rivoluzione sociale, l’aveva lasciata allo stato di abbozzo per diversi motivi sociali ed economici (industria arretrata, quadri insufficienti, masse incolte) e perciò in essa la libertà era del tutto soffocata dall’apparato burocratico-statalista (Cfr. Ibidem, pp. 277 s.).
Concludendo, l’unica soluzione possibile, per quanto difficile da raggiungere, di fronte allo scontro tra i due blocchi era la scelta di una terza via indipendente.
Fedele ai principi teorici espressi nel saggio, Sartre tentò concretamente nel 1948 di mettere in pratica la ricerca di questa terza via anche sul piano politico: entrò a far parte su invito di David Rousset e di Georges Altmann del Rassemblement démocratique révolutionaire. L’R.D.R. era un movimento che voleva riunire tutte le forze socialiste non schierate con i comunisti e che volevano rimanere indipendenti dai due blocchi. Aveva tra i suoi scopi principali, infatti, la creazione di un’Europa socialista neutrale rispetto al blocco sovietico e quello americano. I comunisti lo considerarono da subito un movimento nemico: essendo situato a sinistra non poteva che reclutare i suoi adepti nell’ambiente comunista o filocomunista, sottraendoli al Partito Comunista stesso. In ogni caso l’R.D.R. durò molto poco: già nel giugno dell’anno successivo ci fu una scissione interna che ne decretò la fine (Cfr. S. DE BEAUVOIR, La forza delle cose, cit., pp. 146 ss., pp. 171 ss., pp. 195 ss.) Questa esperienza fallimentare insegnò definitivamente a Sartre che era impossibile una terza via, che bisognava scegliere uno dei due schieramenti opposti.
È significativo il fatto che la rinuncia da parte di Sartre al tentativo di una sintesi tra le sue origini borghesi e la sua opzione per la classe operaia corrisponda all’abbandono della redazione dei suoi appunti finalizzati al progetto di un’opera dedicata alla morale dell’autenticità. Gli eventi circostanti avevavo poco alla volta mutato la situazione in cui si trovava e reso impossibile la sintesi da lui tentata: la possibile conciliazione tra libertà formale e libertà materiale, tra morale e praxis, si era mutata in una lacerante contraddizione che le basi teoriche del suo pensiero non permettevano di sanare. Egli sentiva perciò la necessità di mutare a fondo il suo pensiero per risolvere questa contraddizione; di conseguenza la morale, ancora fondata sull’ontologia de L’être et le néant, non era più attuale.
A partire dal ’50, perciò, abbandonate le sue ricerche morali, iniziò a leggere opere di storia (soprattutto sulla Rivoluzione francese) e di storia economica, a rileggere Marx (Cfr. S. DE BEAUVOIR, La cerimonia degli addii, cit., pp. 191 s., p. 230 s., p. 250) per «cambiare testa» (Ibidem, p 185).
Da un punto di vista politico egli trascorse un periodo di «solitudine totale» (Ibidem, p. 475) e poi a partire dal ’52 con la partecipazione alla difesa di Henri Martin e con la scrittura della prima parte de Les communistes et la paix si riavvicinò decisamente ai comunisti, si schierò in modo netto al loro fianco, escludendo la possibilità di una scelta intermedia borghese-progressista: il P.C. era diventato ai suoi occhi l’unico rappresentante legittimo della classe operaia, la quale senza il partito non poteva avere né unità né realtà, era soltanto una massa inerte e dispersa (Cfr. S. DE. BEAUVOIR, La forza delle cose, cit., pp. 252 ss.)
Il ’52 rappresentò per Sartre un nuovo grande cambiamento.
[Fine parte seconda – continua]
[Clicca qui per il pdf]